Da “Marchionne,
il manager di un’era che non esiste più” di Marco Revelli, pubblicato sul
quotidiano “il Manifesto” del 22 di luglio 2018: (…). Cosa è stato Marchionne per la
Fiat e per Torino? Cosa ha rappresentato per l’Italia? E in qualche misura per tutti
noi, che sotto il segno di auto, industria, finanza abbiamo vissuto e, negli
ultimi tempi, patito? È l’«uomo che ha salvato la Fiat e l’ha portata nel
mondo» – come recita la congregazione dei plaudenti – o quello che ne ha
decretato la fine facendola americana? È il manager che ha sburocratizzato la
pesante macchina industriale fordista introducendovi lo stile informale e il
passo lieve del demiurgo post-moderno, o quello della mano pesante e del
tradizionale autoritarismo padronale nei referendum di Pomigliano e Mirafiori? È
l’uomo del futuro, che incarna nella propria visione e nella propria azione un
«nuovo paradigma» industriale-finanziario, o è «soltanto» un buon navigatore
nella sistematica del caos che caratterizza la nostra epoca, capace di mantenersi
a galla grazie alla propria vocazione a cambiar forma? Difficile dare ora una
risposta certa. Ma su un punto credo di avere le idee chiare. Marchionne è
l’«uomo della transizione». Non certo l’uomo del passato – di un passato
industriale diventato indubbiamente improponibile -, ma nemmeno l’uomo del
futuro. Ha trascinato la Fiat fuori dal Novecento (e dal fondo di un baratro),
ma non l’ha consegnata a un’identità certa e stabile. A un «modello» nuovo e
sicuro. Ha pareggiato i conti, certo (e si tratta di un quasi-miracolo che gli
ha permesso di annodarsi per la prima volta dal 2006 la cravatta al collo), ma
Fca rimane comunque un gruppo minore nel panorama dei grandi produttori
automobilistici globali: l’ottavo, con i suoi 4.863.291 autoveicoli venduti (di
cui appena un settimo prodotto in Italia), il 5,1% del mercato, esattamente la
metà rispetto a colossi come Volkswagen e Toyota, molto dietro alla francese
Renault. Un gruppo del tutto incerto sul profilo del proprio prodotto: unica
certezza il successo di Jeep (il cui capo del brand, Mike Manley, è appunto il
successore di Marchionne), per il resto oscillazioni tra l’opzione per modelli
premium e de luxe o i tradizionali prodotti di massa. In una delle sue ultime
dichiarazioni pubbliche era stato annunciato un piano d’investimenti massicci
sull’auto elettrica (45 miliardi in 4 anni), un settore difficile, affollato, a
micidiale competitività, con concorrenti dalla tradizione ventennale come
Toyota, che garantirebbe di sicuro vantaggi futuri ma su cui tutto resta molto
incerto, ed embrionale.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 31 luglio 2018
lunedì 30 luglio 2018
Sfogliature. 98 “Marchionne sa che un operaio su due gli ha votato contro”.
Non finisce di stupire ed
incantare lo “spicilegio” sempre più ricco che continua a germogliare a seguito
della dipartita del grande “capitano d’industria”. E dal mazzo mi va di
estrarne tre di quelle “spighe” di inconsolabile piaggeria. La prima è del
quotidiano economico il “Sole 24 Ore”: Allo stesso tempo un
capobranco e un maverick, i capi di bestiame privi di marchio lasciati liberi
di correre nelle praterie del Far West. Ecco, giusto, per l’appunto un “Far
West” nel mondo del lavoro. Uno storico, straordinario risultato. Degno
di un grande “capitano d’industria”. La seconda “spiga” una dichiarazione dell’uomo
di Arcore: Mi sarebbe piaciuto vederlo alla guida del Paese. Avrebbe ridato
dignità alla politica. Capite? “Dignità
alla politica”, proprio quella che manca. Per colpa di chi? Terza “spiga”
sul quotidiano della “famiglia” “La Stampa”: Una sera ha fatto portare una
pianola, ha messo tutti intorno a un tavolo, scorta compresa, e ha dato il via
a una festa. Sai che divertimento! La “sfogliatura” di oggi è della
domenica 16 di gennaio dell’anno 2011: Ricordate
lo straordinario film di Elio Petri “La
classe operaria va in paradiso?”. Ricordate lo straordinario Gian Maria
Volontè nei panni di Ludovico Massa, il Lulù operaio di una catena di montaggio
nel milanese degli anni ‘70? E ricordate la sua compagna Lidia, impersonata
dalla stupenda, non solamente in arte, Mariangela Melato? E che dire dello
straordinario Salvo Randone, il Militina dell’ospedale psichiatrico sulla
scena? Era quello d’uscita del film l’anno 1971. Avevo appena conseguito la mia
brava laurea e mi accingevo a fare il salto nella vita reale e dura. Avevo un
intoppo da superare in quel tempo: l’allora obbligo della leva. Decisi di
affrontare le dure (sic) selezioni per allievo ufficiale di complemento. Feci i
miei bravi test d’ammissione e mi sottoposi al rituale colloquio finale.
Ricordo, come fosse oggi, l’incontro che ebbi con un ufficiale esaminatore. Un
armadio d’uomo, nel senso di un uomo di robustissima corporatura e solenne
portanza della sua notevole mole. Se ne stava seduto dietro la sua scrivania ed
al mio ingresso non sollevò neppure gli occhi dai fogli che stava esaminando. I
miei fogli, per l’appunto. Aspettai che mi dicesse di sedermi. Poi, con un
sorriso quasi beffardo mi rivolse la parola dicendo: - Sono questi i film che preferisce? – Avevo appena visto il film
di Petri e lo avevo citato tra gli altri. Capii che la mia aspirazione
all’ufficialato era finita di fatto. Andai a fare il militare da buon soldato
semplice, senza carriera. Avere ritrovato nelle edicole, quarant’anni dopo, distribuito
da Hobby & Work, il DVD di quel film è stato un risveglio impetuoso di un
fiume ricordi in fondo mai sopiti. Quel film mi impressionò tanto, allora; era
il cinema d’impegno che preferivo e che preferisco tuttora. Erano gli anni ’70.
Era un’analisi di quegli anni che sarebbero divenuti difficili. Avremmo avuto
di seguito tempi duri nelle fabbriche e nelle piazze e nelle strade; poi sarebbero
arrivate le brigate rosse. E fu il terrorismo. L’insensibilità e la miopia di
allora, e forse di sempre, dei reggitori della cosa pubblica spianò la strada a
quella tristissima stagione. L’ho riveduto il film di Petri, con una
grandissima emozione; e sì che la sua visione è legata ad un periodo grande
della mia piena giovinezza, della mia vita. Indimenticabile. Petri, per dire oggi
di Mirafiori. Per dire degli straordinari esseri umani in tuta blu che stanno a
Mirafiori. Esseri umani, per l’appunto, e grandi.
domenica 29 luglio 2018
Riletture. 02 “Li chiamiamo millennials”.
Da “Il
paradosso generazionale dei figli che educano i padri” di Marino Niola - antropologo,
giornalista e divulgatore scientifico -, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 29 di luglio dell’anno 2016: Più che una generazione, sono una
specie in mutazione. Con il cambiamento epocale scritto nel nome. Li chiamiamo
millennials, con una definizione che evoca le incognite delle grandi svolte,
l’inquietudine del numero mille. L’attesa millenaristica, le insidie del
millennium bug, il debutto del nuovo millennio, con il suo carico di angosce
paralizzanti e innovazioni esaltanti. Un triplo concentrato di storia allo
stato puro in undici lettere e quattro sillabe. Di più zippato c’è solo il
poema di Aramis, il più letterato dei tre moschettieri, ventimila versi in una
sillaba sola. Nata nei primi anni Novanta come millennial generation, in
origine l’espressione designava coloro che sarebbero diventati adulti con
l’avvento del Duemila. Gli inventori, William Strauss e Neil Howe, avevano
bisogno di un’etichetta semplice per classificare nella loro teoria delle
culture generazionali i bambini nati fra il 1982 e il 2004. Ragazzi che hanno
la stessa età, e lo stesso dna, di internet. Tanto è vero che li hanno
identificati anche come generazione internet e, in seguito, come nativi
digitali. Perché a disegnarne il profilo collettivo e a definirne il destino
storico è la rete. Che ne ha fatto i protagonisti di un testacoda generazionale
senza precedenti. Perché per la prima volta i figli della galassia virtuale
hanno invertito i flussi di trasmissione della cultura e dei valori. Perché
sono fatti a immagine e somiglianza del web, ne compartecipano l’orizzontalità,
la simultaneità e l’assenza di autorità. E perché si sono fatti maestri di se
stessi. Ma anche nostri. Una volta i modelli culturali, i contenuti
dell’insegnamento, le regole del comportamento, avevano un andamento
discendente. Saperi, esperienze, conoscenze, competenze passavano dagli adulti
ai giovani. Oggi è sempre più vero il contrario. Le istruzioni per vivere hanno
un moto ascendente, dagli under agli over. Gli stili di vita, la moda e il
dress code, le aspirazioni, le emozioni, i costumi, i consumi hanno un segno
sempre più giovanilista. E di questa inversione di polarità, la tecnologia è la
causa efficiente e, insieme, l’icona dominante. Quella che cattura il
sentimento del tempo, che linka il passaggio dall’età della stampa a quella
dello schermo, dall’elettrico all’elettronico, dal pensiero analogico a quello
digitale, dal mondo della diacronicità a quello della sincronicità, dalla
Galassia Gutenberg alla Galassia Zuckerberg. La naturalità con cui i nativi
stanno di casa nella tecnologia, li ha sparati molto più avanti dei loro
genitori e insegnanti. Se la simultaneità, che è la cifra profonda della
società liquida, fa fuori la cronologia, l’anteriorità del prima e la
posteriorità del poi, rende di fatto superfluo ogni rituale di iniziazione e
revoca i fondamenti stessi dell’educazione. Addirittura oggi l’iniziazione
funziona alla rovescia, nel senso che sono i nativi digitali a iniziare i loro
genitori, portati dalle onde del web come migranti in cerca di approdi.
Richiedenti asilo in un mondo nuovo e pieno di promesse, di cui i ragazzini
custodiscono gelosamente le chiavi. Sono loro a decidere se e quando aprire
cancelli e cancelletti a mamme, papà e insegnanti. È una lotta impari fra
grandi che si arrampicano faticosamente, e volenterosamente, sulle scale
impervie dell’alfabetizzazione tecnologica e la facilità irridente di pischelli
che sembrano nati imparati e surfeggiano leggeri sulle onde del web. In fondo
sono l’incarnazione tech dell’intelligenza multifunzione di Ulisse. Il grande
archetipo del multitasking. Non a caso Omero lo chiama polytropos, cioè ingegno
multiforme. E forse, a guardarlo dalla nostra prospettiva, la sua navigazione
ondivaga, piena di distrazioni e di deviazioni, fa pensare al labirinto liquido
della rete dove i ragazzi dot.com amano perdersi in una simultaneità
orizzontale, piena di diversioni e di seduzioni. Del resto, come diceva Walter
Benjamin, il labirinto è la via di chi non vuole arrivare alla meta. E proprio
così ci appaiono spesso i nostri piccoli nerd. Il loro rapporto tra mezzi e
fini ci spiazza e ci irrita, soprattutto quando si tratta dei nostri figli. Non
riusciamo a decidere se ammirarli, invidiarli o detestarli. Anche per questo,
la loro disarmante competenza innata ci fa quasi rabbia, il loro dadaismo
digitale, pieno di ironia e qualche volta di sufficienza nei nostri confronti,
ci fa sentire ininfluenti, incompetenti, vagamente dementi. Mentre loro
ostentano una scienza infusa che, di fatto, rottama i tutori.
sabato 28 luglio 2018
Sfogliature. 97 “Marchionne, il lavoro, la FIAT”.
Come sempre i turiferari di turno hanno perso la
buona occasione di tacere per non far scompisciare dal ridere i loro
incolpevoli lettori (o colpevoli per il solo fatto di continuare a comprare
quei sottoposti “fogli” quotidiani). È tutto un fiorire di sperticate memorie e
di agiografie da brividi. C’è chi arriva a scrivere – sul quotidiano la
Repubblica - che “nella sua filosofia comandare non significava solo decidere ma essere
il capobranco”. Ecco, per l’appunto, un “branco”. Gli umani resi
permanentemente lupi, ovvero “homo homini lupus”. Ma il vertice
inarrivabile lo si scopre su il “Corriere della Sera” laddove un Aldo Cazzullo in
straordinaria forma non trova di meglio che scrivere: “Trovò un segno per raccontare la
propria alterità: il maglione scuro al posto della giacca e cravatta dell'establishment,
concedendosi anche il vezzo - non per mancargli di rispetto da morto, ma per
restituirne la fisicità da vivo - della forfora sulle spalle". Solamente
sublime, irripetibile. Ora, per meglio illuminare l’opera meritoria di quel
“grande” che ci ha inopinatamente lasciati, mi soccorre una “sfogliatura” che
risale ad un venerdì 25 di marzo
dell’anno 2011. Scrivevo: Ho ricevuto una
graditissima e-mail dal “compagno *****”, così come si soleva chiamarlo nelle
interminabili riunioni alle quali partecipavamo nel fiore dei nostri “anni
verdi”. E senza voler indulgere troppo nella memoria di quegli anni di impegno
grande nelle organizzazioni sindacali della sinistra democratica del bel paese,
mi corre l’obbligo di affermare che, nel ricevere le Sua graditissima e-mail, è
stato come ricevere un refolo fresco e pregno degli odori inebrianti della cara
montagna sulla quale è abbarbicato il Suo stupendo paese natio, lassù sui
contrafforti del Reventino, che di questi tempi
diffonde e spira soavemente sulle primaverili distese erbose, ora che
l’inverno rigido cede il passo al risveglio della natura più dolce ed
incontaminata, deliziando gli esseri umani tutti. Mi scrive il “compagno
*****”, nella Sua e-mail, che di seguito trascrivo in parte, a proposito delle
vicende politico-sindacali ultime del bel paese, una Sua riflessione che è una
realistica presa d’atto di come la globalizzazione, inevitabile anche nei suoi
aspetti più crudeli e spesso tragici, abbia determinato e determinerà ancor di
più un arretramento nelle conquiste del movimento operaio internazionale e
nella conservazione dei diritti acquisiti. Sull’argomento della Sua e-mail ho
di già espresso le mie personali convinzioni nel post del 16 di gennaio che ha
per titolo “La classe operaia va in
paradiso?”. Mi piace in questa occasione inserire, sull’argomento, una
riflessione del professor Angelo D’Orsi apparsa sul Suo blog col titolo “Dalla resistenza di Mirafiori la speranza
per un’altra Italia”:
venerdì 27 luglio 2018
Sullaprimaoggi. 11 “«DiMaionomics»: il catalogo è questo”.
Tratto da “Dal
reddito di cittadinanza all'Alitalia: sogni e rischi della DiMaionomics” di
Marco Ruffolo, pubblicato sul settimanale “A&F” del 23 di luglio 2018: "Dobbiamo
entrare in tutte le stanze dei bottoni», dicevano i Cinquestelle alla vigilia
delle elezioni 2013. Cinque anni dopo, la metafora inventata da Pietro Nenni è
ancora, più che mai, il perfetto paradigma del programma pentastellato. Dietro
la “DiMaionomics” c’è l’idea semplificatrice di un potere che cambia le cose
spingendo bottoni, alzando o abbassando leve, aprendo o chiudendo rubinetti
finanziari, fiscali, doganali. Tutto ciò che si frappone tra governo e popolo -
dai corpi intermedi della società ai mercati - è visto per lo più come un
ostacolo, come lo strumento che le lobby industrial-finanziarie o che le caste
partitiche utilizzano per approfittarsi del popolo. Quel che serve, dunque, è
liberare quest’ultimo dal giogo delle forze antidemocratiche. Questo significa
che il successo dell’azione di governo dipende più dal grado di volontà
politica nel fare le cose che dalla capacità di superare difficoltà
strutturali, di sporcarsi le mani nella dura amministrazione. Si spiega così il
potere taumaturgico che Luigi Di Maio, al quale è demandata gran parte della
politica economica del governo, attribuisce alle proposte basilari del suo
programma: dal reddito di cittadinanza alle pensioni minime, dalla fine dei
vitalizi in pagamento ai tagli delle “pensioni d’oro”, dai vincoli ai contratti
a termine al ripudio degli accordi sul libero scambio commerciale, dallo stop
alla vendita di Alitalia al rinvio del dossier Ilva Il rischio è che applicando
ricette semplificate a una società tutt’altro che semplice si finisca per
cadere da una parte nell’assistenzialismo fine a se stesso, e dall’altra nella
cancellazione di spazi sempre più vasti di libero mercato. Assistenza. Chi
garantisce che il reddito di cittadinanza, con i suoi 780 euro al mese a
ciascun povero e un costo che va dai 16 ai 29 miliardi non si risolverà in un
gigantesco distributore automatico di risorse? E’ sufficiente annunciare una
“riforma dei centri per l’impiego” destinandole nei desiderata 2 miliardi di
euro per assicurare che il sostegno al reddito sarà condizionato
all’accettazione di nuove proposte di lavoro? Quanto è presente in Di Maio la
consapevolezza che per far funzionare i centri per l’impiego (un vero colabrodo
con l’eccezione di qualche realtà nel Nord) non serve solo uno stanziamento una
tantum, ma che bisogna assumere nuovi operatori, e soprattutto bisogna superare
i veti regionali rimasti dopo il no al referendum costituzionale? In attesa di
capire come avviare una riforma tra le più lunghe e difficili, ci si accinge a
gettare nel calderone assistenziale non 3 miliardi (come fa a regime il reddito
di inclusione oggi in vigore) ma dieci volte tanto. Il rischio è che “partire
subito” con la distribuzione di questo mega-assegno (come ha detto di voler
fare Di Maio), prima che la politica di inclusione abbia cominciato a dare i
suoi frutti, dia vita a una colossale operazione assistenziale del tutto
slegata dal lavoro. Altrettanto rischioso appare il sistema di copertura
finanziaria del reddito di cittadinanza. Dopo vani tentativi di trovare le
risorse in qualche altra misura, l’idea prevalente in casa grillina ripesca uno
strumento dal nome quasi magico: “moltiplicatore”. Quei 780 euro a testa
metteranno in moto una crescita economica tale da far salire le entrate fiscali
e con esse consentire di finanziare la misura stessa. Insomma un perfetto
sistema di autofinanziamento, ispirato a una versione caricaturale e deformata
del keynesismo. Da notare che lo stesso effetto moltiplicatore viene sostenuto
simmetricamente dalla Lega nella sua proposta di flat tax, questa volta in nome
della dottrina che ispirò la campagna elettorale di Ronald Reagan, ma che poi
il presidente americano si guardò bene dall’applicare.
giovedì 26 luglio 2018
Riletture. 01 “Rating e democrazia”.
Da “Rating e democrazia”, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 26 di luglio dell’anno 2013: (…).
I mercati vengono pesantemente influenzati dai giudizi emessi dalle agenzie di
rating: spesso si tratta di vere e proprie scomuniche che hanno l’effetto di
condizionare l’azione dei governi i quali ne attendono trepidanti le sentenze.
Mai prima d’ora si era verificata una condizione di soggezione politica così
umiliante. L’attesa spasmodica del giudizio delle agenzie di rating assume i
tratti di un imperscrutabile destino e rivela fino a che punto è stata
compromessa la sovranità politica delle democrazie. Le sentenze emesse da
queste agenzie vengono presentate all’opinione pubblica come se fossero giudizi
oggettivi e neutrali, ma la realtà è tutt’altro. In primo luogo perché il
settore del rating è dominato da un oligopolio anglo-americano costituito dalle
tre sorelle Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch le quali possiedono un
potere di mercato enorme.
mercoledì 25 luglio 2018
Sullaprimaoggi. 10 “Quel che resta dei valorosi capitani d’industria”.
Ha scritto Alessandro Robecchi su
“il Fatto Quotidiano” di oggi 25 di luglio – “Agiografia o insulti: il vero dibattito resta quello sul capitalismo”
-: (…).
Per dire, nella gestione Marchionne oltre ventimila posti di lavoro in Fca sono
evaporati: ventimila famiglie lasciate senza un reddito a fronte di una
famiglia che ha salvato la baracca (gli Agnelli e successive modificazioni) e
di alcune che hanno moltiplicato risparmi e investimenti (gli azionisti).
Insomma, la vecchia, cara lotta di classe, che oppone chi ha molto e chi ha
poco. Al centro di questo dibattito di lungo respiro c’è un’emergenza costante
e visibile a tutti, che è l’aumento delle diseguaglianze.
martedì 24 luglio 2018
Sullaprimaoggi. 9 “«Ministri (e governi) della malavita»”.
Da “I
ministri della malavita” di Marco
Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 22 di luglio 2018: Tanto
per ricordarci chi ci ha governati fino al 4 marzo, Luciano Violante replica su
Repubblica ai severissimi giudizi della Corte d’assise di Palermo, nella
sentenza Trattativa, sui suoi 16 anni di silenzio a proposito del generale
Mario Mori, che nell’estate ’92 gli propose un tête-à-tête con Vito Ciancimino
(con cui stava trattando) che lui, presidente dell’Antimafia, rifiutò, ma poi
si scordò di avvertirne la magistratura. Anche dopo il ’97, quando Mori, “costretto“
dalle rivelazioni di Giovanni Brusca, confessò la trattativa al processo per le
stragi del ’93.
lunedì 23 luglio 2018
Lalinguabatte. 58 “Una questione di pubblica (im)moralità”.
È scritto all’articolo 67 della
Costituzione della Repubblica Italiana: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la
Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ecco,
per l’appunto, “rappresenta la Nazione”. E poi c’è quell’articolo 54 della
Carta che lapidario recita: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere
fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle
con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Ecco,
“con
disciplina ed onore”. Non c’è soluzione di continuità in questa
italietta del 2018: dal “cambiare verso” di prima al “rinnovamento”
dell’oggi è tutto un inutile parlare per frasi fatte e senza senso. Ma come
potrebbe essere diversamente. Quale è la diversa “statura” politica e morale
dei nuovi reggitori della cosa pubblica? Su di uno dei suoi tonitruanti
protagonisti ne ha scritto Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” del 19 di
luglio – “Salvini andrebbe fermato.
Anche con modi bruschi” -:
domenica 22 luglio 2018
Sullaprimaoggi. 8 “Cu picca (poco) parlò mai si pentiu”.
Da “Toh che
sbadati!” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 21 di luglio 2018: (…). Non vedo, non sento, non parlo. Quando
lo Stato mandò i carabinieri del Ros a trattare con Vito Ciancimino e, per suo
tramite, con Riina e gli altri assassini con le mani ancora grondanti del
sangue di Falcone, di sua moglie Francesca e della sua scorta, era il giugno
1992 e governava Giuliano Amato, ora giudice costituzionale. Posto che,
ovviamente, non si accorse di nulla, non dovrebbe rammaricarsi proprio di non
aver vigilato abbastanza? Il ministro dell’Interno era Nicola Mancino, ora
felicemente assolto dalla falsa testimonianza: anche lui, ci mancherebbe, non
sapeva nulla di quel che facevano gli apparati di “sicurezza”, così come un
anno dopo non gli giunse all’orecchio della transumanza di 334 mafiosi liberati
dal 41-bis dal collega Conso, ovviamente a sua insaputa. Poi però era così
stranamente preoccupato di finire nei guai nell’inchiesta Trattativa, non
avendo fatto né saputo nulla, che nel 2012 pensò bene di stalkerare il
presidente Napolitano perché intervenisse in suo favore. Iniziativa che la Corte
di assise definisce “inammissibile”, “censurabile”, “al di fuori di ciò che
l’ordinamento consente”, con “sollecitazioni che, se fossero state avanzate da
altro soggetto che, a differenza di Mancino, non avesse avuto la possibilità di
accedere a canali privilegiati di ascolto in virtù dei rilevanti ruoli
istituzionali ricoperti in passato, sarebbero state inesorabilmente destinate a
non avere alcun seguito” (invece, per un malinteso “galateo istituzionale”, Re
Giorgio & C. gli diedero retta). E conferma così la necessità delle
intercettazioni dei pm, crocifissi dal Colle, dai partiti e dai giornaloni come
se volessero perseguitare Napolitano: “Non v’è dubbio che l’intendimento che ha
mosso l’imputato Mancino sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla
Procura di Palermo le indagini sulla ‘trattativa Stato-mafia’ e poi, altresì,
di sottrarsi al paventato confronto dibattimentale con Martelli”. Possibile che
Mancino non abbia nulla di cui scusarsi? E possibile che l’intero
centrosinistra, da sempre – come il centrodestra – difensore d’ufficio di Mori
(…), non abbia nulla da rimproverarsi per aver tenuto il sacco all’uomo che
trattò con Cosa Nostra, non fece perquisire il covo di Riina e non catturò
Provenzano? Gli smemorati di Stato. Massimo Ciancimino, il testimone-imputato
che con un’intervista a Panorama nel 2008 diede il “la” all’inchiesta sulla
trattativa, è giudicato “bugiardo” e “inattendibile” anche grazie al suo
inspiegabile suicidio processuale (il documento taroccato contro De Gennaro, che
gli è costato la condanna per calunnia). Ma, paradossalmente, molte parti del
suo racconto-fiume hanno trovato conferme in documenti e testimonianze altrui
che ormai rendono inutile il suo contributo. Qui i giudici sottolineano le
“straordinarie, inaspettate e autorevolissime conferme” giunte alle sue parole
dal “tardivo ricordo da parte di alcuni protagonisti”. Ed elencano i tanti
smemorati di Collegno, anzi di Palermo, che sapevano tutto o parte della
trattativa fin da subito, ma se ne stettero ben zitti finché 15 anni dopo non
furono chiamati in causa da Ciancimino jr.: le sue “dichiarazioni hanno fatto
recuperare la memoria a molti esponenti delle istituzioni (da Claudio Martelli
a Liliana Ferraro al presidente della commissione antimafia Violante al ministro
Conso)”. Violante, allora presidente Pds dell’Antimafia, fu avvicinato da Mori
nell’estate ’92 per fargli incontrare a tu per tu Vito Ciancimino. Lui rifiutò,
ma si guardò bene dall’informare la Procura di Palermo del fatto che il numero
2 del Ros cercava di “piazzare” l’ex sindaco mafioso, manco fosse il suo
agente. E tenne tutto per sé fino al 2009, quando gli tornò la memoria dopo le
rivelazioni del figlio di don Vito, mentre “mai prima ne aveva fatto cenno ad
alcuno”. Che ne direbbe Violante di scusarsi e di spiegare perché sottrasse ai
magistrati elementi così importanti che avrebbero consentito di indagare sulla
trattativa con tre lustri d’anticipo? Poi ci sono i “tardivi ricordi” di
Martelli, Liliana Ferraro (la giudice che prese il posto di Falcone al
ministero della Giustizia) e Fernanda Contri (collaboratrice di Martelli, poi
giudice costituzionale). La Ferraro seppe della trattativa in tempo reale da
Mori e De Donno, a caccia delle “coperture politiche” chieste da Vito
Ciancimino; ne informò Martelli, che la pregò di avvertire Borsellino. Ma poi,
dopo via D’Amelio, si guardò bene dal parlarne a chi indagava sulla strage. Lo
fece solo quando Ciancimino jr. “sfondò sui media, innescando il meccanismo che
ha indotto alcuni testimoni dell’epoca a uscire allo scoperto e riferire
finalmente alcuni fatti di loro diretta conoscenza sui rapporti
Carabinieri-Ciancimino”. Il destinatario finale. Quanto a B., pretendere scuse
da lui sarebbe inutile e ridicolo: non gli basterebbero trent’anni per farle tutte.
Oltre al suo ruolo di cerniera di chiusura della trattativa (tramite Dell’Utri)
e ai suoi pagamenti a Cosa Nostra fino al 1994, quand’era già premier, la
sentenza accerta che le sue “riforme” della giustizia erano comunicate in
diretta da Dell’Utri a Vittorio Mangano, trait d’union fra lui e Cosa Nostra:
“Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai
mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava
Mangano per le… iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui col medesimo
Mangano… Non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi
anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di
pressione… inevitabilmente insiti negli approcci di Mangano”. Cosa Nostra, per
esempio, seppe in anteprima del decreto Biondi (13.7.1994) che limitava gli
arresti non solo dei corrotti, ma anche dei mafiosi. Quest’ultima norma (che
saltò col decreto, ma fu recuperata in un ddl poi approvato nel ’95 sotto il
governo Dini) non la conoscevano neppure i ministri di B., ma Mangano sì: “Il
fatto che Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da
riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi,
dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di
tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del
governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale
presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo…
e, quindi, riferirne a Dell’Utri per ‘tranquillizzare’ i suoi interlocutori,
così come Dell’Utri effettivamente fece”. B. sapeva benissimo che, senza leggi
pro-mafia, le stragi sarebbero ripartite: “Si ha definitiva conferma che anche
il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, e cioè
Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio
dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del
conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza
espressamente già prospettato) che un’inattività nel senso delle richieste dei
mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”. Ecco perché le stragi, interrotte nel
1994, non ripresero più: perché, come disse Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza
in un bar di Roma, “ci stanno mettendo lo Stato nelle mani”. Chi? Dell’Utri e
B. L’“utilizzatore finale” di escort (Ghedini dixit) fu anche “destinatario
finale” del ricatto mafioso. E lo trasmise, per contagio, alla Seconda
Repubblica. Fino a oggi.
sabato 21 luglio 2018
Quodlibet. 100 “«L’enantiodromía, quella che rode l'attuale paese»”.
Da “Le false metamorfosi nel paese del signor B.” di Franco Cordero,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 21 di luglio dell’anno 2010: (…). I
moderati berlusconofili 2010 non mendichino scuse. Tanto varrebbe chiedergli d'istituire
un regime monastico della penitenza. Sanno chi sia, da dove venga, in qual modo
diventi monopolista delle televisioni commerciali e le adoperi frollando la
materia grigia: cosa gli costino i protettori; con che disinvoltura falsifichi
bilanci, frodi il fisco, compri i giudici; perché sia sceso in campo nel
collasso della consorteria sotto le cui ali s'ingrassava; né fiatavano
vedendogli devastare l'ordinamento. Non sorprende la qualità dei cortigiani. Le
scelte tendono inesorabilmente al basso. Figurano meglio i gerarchi fascisti:
la rudimentale corruzione d'allora tempera un crudo regime d'asini (così
privatamente definito da Benedetto Croce, conversatore caustico); tra tutti
spicca Costanzo Ciano, detto Ganascia, padre del delfino fucilato a Verona.
Quella che rode l'attuale paese, sofisticatissima e invasiva, corrisponde al
modello scientifico sub divo Berluscone. È pura fisiologia fare soldi sulla
pelle d'un paese al verde. La purga sarebbe atto suicida, come se Hitler
deponesse Himmler, liquidando Gestapo, SS, SD, perché usano poche cortesie ai
dissidenti. Sua Maestà guarda torvo: malgré lui, aveva buttato in mare due
ministri e un sottosegretario, indifendibili; seguiranno altri ma non può
liquidare tutti; affogherebbe nel pandemonio. Infatti, voleva inibire l'unico
mezzo investigativo, imbavagliando la stampa; l'ha detto, stroncherà i "giacobini".
(…). Nel repertorio junghiano ha un nome greco la conversione che costoro
raccomandano, "enantiodromía", ossia rovesciamento nell'opposto:
false metamorfosi; l'apparente uomo nuovo resta qual era, magari mutando veste;
ad esempio, Ignazio da Loyola, non s'offendano i Reverendi, o se è permesso
mischiare minimi e grandi, l'ex alfiere libertario, ora melodioso portavoce
Pdl. Il padrone ogni tanto varia look ma non cambia viscere a settantaquattro
anni, scolpito nella storia, con l'impero d'affari sulle braccia. L'improbabile,
effimera pulizia richiama una metafora ricorrente nel suo fosco vituperio,
"metastasi": vede tumori maligni nei magistrati che adempiono doveri
d'ufficio disturbando i delinquenti; e invettive simili dicono cos'abbia dentro.
La neoplasia tagliata riappare. Era prevista nel codice biologico. Ora, la P3
discende dalle erculee imprese berlusconiane contro lo Stato: sta nel sistema;
e chi l'ha fondato, così abile da adeguarvi settori del mondo? Riconosciamogli
l'exploit. Sono rare le psicosi sfogate con successo. Incauti dialoganti lo
chiamano Cesare: maledetti nastri, ogni parola svanirebbe se l'anima
forzaitaliota soffiasse nelle Camere; le solite fonti diramano lepide smentite.
Insomma, spende moneta falsa chi augura un berlusconismo epurato: la crociata
antilegalitaria implica malaffari; la corruzione era e rimane il fine, famelica
confusione pubblicoprivato. Chiamare "destra" lo scenario governativo
italiano è una delle storture verbali coltivate dal regime: vedi "partito
dell'amore" o "delle libertà"; sessantun anni fa Orwell le
studiava in una società controllata dagli schermi televisivi; il precedente nazista
è lo slogan sulla porta d'Auschwitz, "Die Arbeit macht frei" (il
lavoro libera).
venerdì 20 luglio 2018
Sullaprimaoggi. 7 “Una storia (tutta) italiana”.
Da “L’ultimo
ricatto” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 20 di luglio
2018: Non c’era miglior modo di ricordare il 26° anniversario della strage di
via D’Amelio che depositare proprio il 19 luglio le motivazioni della sentenza
sulla trattativa Stato-mafia. Quella della Corte d’Assise di Palermo che il 20
aprile ha condannato tre alti ufficiali del Ros (Subranni, Mori e De Donno) e
l’ideatore di FI (Dell’Utri) con i mafiosi Bagarella e Cinà per quel turpe
mercimonio che pose sotto ricatto lo Stato e sacrificò almeno 20 morti
ammazzati.
giovedì 19 luglio 2018
Quodlibet. 99 “Due leader e tre differenze”.
Da “Due
leader e tre differenze” di Giovanni Valentini, pubblicato sul quotidiano
la Repubblica del 19 di luglio dell’anno 2014: Un amico di vecchia data, (…) mi
illustra quelle che - a suo giudizio - sono le differenze principali fra Matteo
Renzi e Silvio Berlusconi. Qui abbiamo parlato fin troppe volte del Cavaliere e
del Caimano, vivisezionandolo sul piano mediatico e perfino psicopolitico, per
non provare ora a fare un confronto con il nostro giovane presidente del
Consiglio che qualcuno si ostina a considerare addirittura un
"figlio" o un erede del suo anziano predecessore. Le differenze tra i
due personaggi, (…), sarebbero tre: 1) Berlusconi, rispetto a Renzi, aveva e ha
tuttora un potente apparato mediatico di sua proprietà (e aggiungiamo pure, al
suo servizio); 2) Berlusconi s'era costruito un suo quadro ideologico, buono o
cattivo, fondato sull'anti-comunismo e questo ha funzionato a livello
elettorale (sottinteso: Renzi, invece, non ce l'ha, sebbene abbia superato il
40% alle ultime europee); 3) Berlusconi era "un pagliaccio, non una
carogna" (mentre Renzi è "tagliente, affilato"). Sul primo
punto, quello che attiene al piano più strettamente mediatico, non c'è dubbio
che sia così. Berlusconi e Renzi sono entrambi due grandi comunicatori o, se si
preferisce, due "venditori": di promesse, di slogan, di battute e in
qualche caso - chi più, chi meno - anche di "fumo".
mercoledì 18 luglio 2018
Quodlibet. 98 “Gli intransigenti, noiosi moralisti”.
Da “Occhio alle differenze” di Maurizio Viroli, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 18 di luglio dell’anno 2010: (…). Chi legge libri, anziché
guardare la televisione e frequentare salotti buoni, sa che, da che mondo è
mondo, servi e cortigiani hanno sempre usato, per screditare i loro avversari,
una tecnica semplicissima che consiste nel cambiare il significato alle parole.
Così, per ripetere esempi fin troppo noti, gli arroganti diventano
intraprendenti; i buffoni, simpatici; i delinquenti, furbi che sanno stare al
mondo; i cinici, intelligenti. Oppure gli onesti diventano fessi; i coraggiosi,
visionari; gli intransigenti, noiosi moralisti (attenzione: oggi, in Italia,
parlare di morale espone al disprezzo e al dileggio). Nel caso del
neo-qualunquismo, la storia si ripete: i critici seri e severi del malgoverno e
della dilagante corruzione diventano qualunquisti, avvicinabili ai più devoti
servitori del signore. Non ci sarebbe nulla da commentare se non rilevare che
in Italia si è persa anche la più elementare capacità di ragionamento che
consiste nel rendersi conto delle differenze. Ma, data l’autorevolezza dei
sostenitori della teoria del neo-qualunquismo, esaminiamo i loro argomenti più
da vicino e poniamo loro due domande: “i buoni cittadini, quelli, per capirci,
che rispettano le leggi, che svolgono le loro professioni con serietà ed
impegno pur fra mille ostacoli e che pagano le tasse, sono moralmente superiori
a coloro che corrompono i giudici, che sono collusi con la mafia, che cercano
con tutti i mezzi di rendere impotenti le leggi per fare sempre più grande un uomo
ed i suoi cortigiani?” “Difendere la Costituzione repubblicana è fare opera di
anti-politica o dare esempio di politica seria?” Anche in questo caso,
ragionando con rigore intellettuale, le risposte sono fin troppo ovvie come è
ovvio che è del tutto fuori luogo sostenere, come ha fatto il presidente
Massimo D’Alema, che l’ “antiberlusconismo sconfina in una sorta di sentimento
anti-italiano”. Denunciare la corruzione italiana non è atto né berlusconiano
né antiberlusconiano, è semplicemente dire la verità. Dalla denuncia della
corruzione non deriva affatto la rinuncia a lottare per trasformare l’Italia in
un paese civile. Se chi ha denunciato la corruzione morale degli Italiani
dovesse essere considerato un anti-italiano, allora capofila di tale tradizione
sarebbero, per citare solo qualche nome, Giuseppe Mazzini e Carlo Rosselli.
Ammettiamolo, ci sono compagnie peggiori. È anche tempo di spiegare la
differenza fra buone e cattive élites politiche e che appartenere ad un’élite
può anche essere titolo di merito e non di vergogna. C’è una bella differenza
fra l’élite politica attuale e quella, per esempio, del periodo costituente o,
poiché ci stiamo avvicinando al 2011, quella della Destra Storica; e c’è una
bella differenza fra la splendida élite del Partito d’Azione e buona parte
dell’attuale leadership del Partito Democratico. La differenza prima che di
cultura e di spessore intellettuale, qualità che non guastano, è di rigore
morale. Mi pare già di sentire l’obiezione: “ma il Partito d’Azione è stato un
partito di sconfitti”, o come ha dichiarato D’Alema, la “cultura azionista non
ha mai fatto bene al paese”. Altri due errori: sconfitti non furono loro,
sconfitta è stata ed è l’Italia che prima non li ha ascoltati e li ha derisi, e
poi li ha dimenticati. La cultura azionista ha dato all’Italia piccole cose
quali un contributo essenziale all’antifascismo prima e alla Resistenza e alla
Costituzione Repubblicana poi, un’interpretazione rigorosa del Risorgimento
nazionale, una concezione del patriottismo che insegnava la solidarietà con gli
altri popoli e l’europeismo, un rispetto religioso della legalità, ha educato
il Partito Comunista ai valori liberali e democratici, e, per ultimo, ci ha
dato un presidente della Repubblica come Carlo Azeglio Ciampi. Proprio poco non
mi pare sia. Se mai ci sarà una rinascita civile, non avverrà certo grazie a
coloro che confondono i critici severi con i qualunquisti, ma grazie a chi
continua a dire la verità, che l’Italia è un paese profondamente malato che ha
bisogno di liberarsi del potere enorme che oggi domina e della sua corte.
martedì 17 luglio 2018
Quodlibet. 97 “Il segreto della domanda”.
Da “Il segreto della domanda” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del 17 di luglio dell’anno 2010: Scrive Oscar Wilde: "Se hai
trovato una risposta a tutte le tue domande, vuol dire che le domande che ti
sei posto non erano quelle giuste". (…). …la filosofia non è
"possesso", ma "ricerca" della verità. Per questo non
fornisce risposte, ma radicalizza le domande volte a problematizzare
l'esistente, per evitare di assopirsi in quei sogni beati propri di chi ritiene
che la vita debba essere "senza pensieri", quando invece l'uomo è un
prodotto di lotte intime e sociali, la cui soluzione provvisoria va cercata in
quel dialogo infinito con gli altri, capace di allargare la propria visione del
mondo, la cui angustia è la vera responsabile dell'acuirsi del dolore
nell'insolubilità dei problemi. Adottando il metodo socratico della "dotta
ignoranza", la filosofia, a differenza della religione, non è autoritaria.
Non dice: "Io possiedo la verità e tu apprendila", perché è persuasa
che la verità, anche se incompiuta, imperfetta e mescolata a tanti errori,
dimori in ciascun uomo. E "maestro" non è chi trasmette la verità, ma
chi aiuta gli uomini a trarla fuori dalla confusione delle loro opinioni, anche
se in contrasto con le idee più diffuse e da tutti condivise. Quando chiesero a
Socrate che cosa insegnava, lui rispose che non insegnava niente perché era
ignorante, ma aiutava coloro che ritenevano di sapere qualcosa a fondare le
loro opinioni con argomenti solidi, in modo che stessero in piedi da sole, e
non per l'autorità di chi le enunciava, per la fede in credenze infondate, per
l'impatto emotivo, per la suggestione degli affetti. Siccome riteneva di non
essere in possesso di alcuna verità da trasmettere, paragonava il suo lavoro a
quello di sua madre che aiutava le partorienti a generare. Allo stesso modo lui
aiutava i suoi discepoli a partorire la verità che, segretamente, e spesso a
loro insaputa, custodivano. Chiamò questo metodo filo-sofia che significa:
"amore per il sapere", distinguendola dalla sofia dei sapienti che
non "amano" il sapere perché ritengono di "possederlo".
Amore, infatti, non è possesso, ma ricerca, tensione e desiderio della cosa o
della persona amata. Per questo, nel racconto che ci fa Socrate nel Simposio,
Amore non è figlio di Afrodite, come voleva la mitologia greca, ma di Penia,
che significa "penuria", "povertà". Essendo povero, Amore
non "possiede" e perciò "cerca", allo stesso modo della
filosofia che, non possedendo alcuna verità, ne va alla ricerca. Per questo
Socrate dice: "Amore è filosofo, perché sta in mezzo tra il sapiente che
non cerca la verità perché ritiene di possederla e l'ignorante che non la cerca
perché non desidera sapere". In questo senso è possibile dire che la
filosofia non è un "sapere", ma un "atteggiamento". L'atteggiamento
di chi non smette di fare domande e di mettere in crisi tutte le risposte che
sembrano definitive. Per questo l'atteggiamento filosofico è la macchina capace
di inventare un mondo possibile al di là del mondo reale.
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