Da “L’identità
perduta” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 7 di
giugno dell’anno 2016: Il buon vecchio "che fare?" dopo
aver perseguitato la sinistra da più di cent'anni oggi dovrebbe modestamente
essere aggiornato così: che fare del Pd? (…). Renzi ha scalato il partito non
tanto per usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione
italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida del
governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd per controllare
la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando l'impressione di non saper
più che farsene. Soprattutto, di non aver l'ambizione di guidarlo, ma soltanto
di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni liquidi, chiedono in primo
luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei
guanti. Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di
responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader
temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che
passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del peso della memoria
rispettandola, sapendo che una forza politica è un soggetto collettivo che
raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una tradizione comune che
tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua cultura, il suo
carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l'aspirazione di
Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di "papa straniero"
della sinistra italiana? (…). La domanda che ripetiamo da tempo è proprio
questa: Renzi ha coscienza di far parte di una storia che ha tutto il diritto
di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un
patrimonio di testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre
storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto,
aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo è
ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d'interesse,
e distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può
amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata
a funzionari delegati a funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire
da quei tristi incunaboli televisivi del Nazareno, di prendersi qualche rischio
di pensiero autonomo e di libera progettazione, per aiutare il governo e
soprattutto se stesso, parlando al Paese. È difficile capire, al contrario,
perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito,
rinunciando a rappresentare l'intero universo del Pd, che unito potrebbe essere
ancora - forse - la spina dorsale del sistema politico e istituzionale
italiano.
C'è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore d'Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all'imprevedibile, come quando il renziano Nardella proclama "la morte della socialdemocrazia": che ha tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia. Questi limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani, dall'ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha un'alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d'idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i soggetti - il leader, la minoranza - si muovono come se non avessero più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a un'identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo. (…). C'è un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa carico, (…).
C'è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore d'Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all'imprevedibile, come quando il renziano Nardella proclama "la morte della socialdemocrazia": che ha tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia. Questi limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani, dall'ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha un'alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d'idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i soggetti - il leader, la minoranza - si muovono come se non avessero più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a un'identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo. (…). C'è un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa carico, (…).
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