Da “Globalizzazione
addio. 2016: i pentiti del libero scambio” di Federico Rampini, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 30 di giugno dell’anno 2016: New
York - "Quando sarò presidente - annuncia Donald Trump - usciremo dal
Nafta (mercato comune con Messico e Canada), e denuncerò la Cina per
concorrenza sleale e manipolazione del cambio". Gli risponde la US Chamber
of Commerce che è l'equivalente della Confindustria: "Se si realizzano le
proposte di Trump avremo rincari dei prezzi, una recessione, tre milioni di
posti di lavoro a rischio. Il 40% dell'occupazione americana è legata in
qualche modo al commercio estero". A sinistra Bernie Sanders annuncia che
darà battaglia alla convention democratica di luglio, a Philadelphia: vuole che
Hillary Clinton metta nella suo programma elettorale una forte presa di
distanza dai nuovi trattati di libero scambio. All'ultimo G7 in Giappone, prima
dello shock di Brexit, un alto dirigente della Commissione europea aveva
paventato uno scenario estremo: "Che ne sarà dell'economia mondiale, se
fra un anno il prossimo G7 riunirà come leader dell'Occidente Donald Trump,
Boris Johnson, Marine Le Pen e Beppe Grillo?". Ma non è solo dalle frange radicali,
dai populismi di destra e di sinistra, che parte l'assalto alla
globalizzazione. Segnali di ripensamento, ripiegamento e ritirata arrivano da
molte direzioni. La Cina sotto Xi Jinping è più nazionalista, rivaluta il
capitalismo di Stato e il dirigismo, moltiplica le forme di protezionismo
occulto, gli ostacoli alle imprese occidentali. L'India si vede incoraggiata
nella sua reticenza ad abbracciare il liberismo: ha sempre mantenuto un alto
livello di intervento pubblico e molteplici barriere agli stranieri. Perfino
tra i protagonisti americani delle prime stagioni della globalizzazione,
dilagano i "pentiti". Un caso clamoroso è Larry Summers. Quando era
segretario al Tesoro di Bill Clinton, fu l'artefice della deregulation
finanziaria. Ora che è tornato a fare il professore a Harvard, parla di
"stagnazione secolare" e fa autocritica. "Nuove ricerche -
riconosce Summers - hanno cambiato le idee dominanti sul commercio
internazionale. Abbiamo le prove che la globalizzazione ha aumentato le
diseguaglianze all'interno degli Stati Uniti, ha aumentato le opportunità
riservate ai più ricchi e ha esposto i lavoratori a una competizione più
serrata". Summers avanza proposte per aprire un nuovo corso. "La
maggiore mobilità del capitale e delle imprese non deve togliere agli Stati la
capacità di proteggere i cittadini". Sul trattato Tpp fra gli Stati Uniti
e l'Asia- Pacifico, le idee di Summers non divergono molto da quelle di Barack
Obama: i nuovi patti devono includere meccanismi vincolanti sui diritti dei lavoratori,
le conquiste sociali, la protezione dell'ambiente. Nella sua recente visita in
Vietnam, Obama ha sottolineato che grazie al Tpp il governo comunista di Hanoi
s'impegna a consentire dei sindacati liberi. Un altro protagonista del
revisionismo è Paul Krugman. Il premio Nobel dell'Economia nel 2008 gli fu
assegnato proprio per i suoi studi originali sul commercio estero. Fu uno dei
primi teorici della globalizzazione. Anche lui è diventato più critico. Senza
ripudiare l'idea che gli scambi tra nazioni sono benefici, Krugman sottolinea
che la distribuzione dei vantaggi dipende dalle regole, e le regole sono il
frutto di scelte politiche. I sistemi fiscali sono stati distorti per favorire
il grande capitale e le multinazionali. Le regole sul mercato del lavoro hanno
rafforzato il potere contrattuale delle imprese e indebolito i dipendenti. La
stessa traiettoria l'ha percorsa l'economista Jeffrey Sachs della Columbia
University: "Ho sempre creduto all'utilità degli investimenti
internazionali. Anch'io ho contribuito a promuovere la globalizzazione. Ma non
bisognava dare il controllo di questi processi in mano a Wall Street e Big
Pharma". Tra le sue proposte: trattare in modo diverso gli investimenti
produttivi e quelli della finanza speculativa a breve termine.
Una delle conversioni più spettacolari sta accadendo nel tempio dell'ortodossia liberista: il Fondo monetario internazionale. Lo slittamento progressivo del Fmi verso posizioni più critiche sulla globalizzazione, è avvenuto sotto la gestione del "clan dei francesi": l'ex direttore generale Dominique Strauss-Kahn e il suo capo economista Olivier Blanchard hanno aperto la strada, poi proseguita con Christine Lagarde. C'è chi sostiene che se Strauss-Kahn non si fosse rovinato con gli scandali sessuali, la svolta sarebbe stata ancora più radicale. Il Fondo moltiplica le analisi sulle distorsioni del commercio mondiale. Un ampio studio a cui hanno collaborato otto economisti sotto la direzione di Siddharh Tiwari, analizza "cause e conseguenze della diseguaglianza nei redditi, in una prospettiva globale". Di recente il Fmi ha raccomandato i controlli sui movimenti di capitali, in certe situazioni di crisi: l'opposto di quel che predicava negli anni 80 e 90. Le critiche avvengono sullo sfondo di un commercio mondiale che rallenta: l'inaugurazione domenica del nuovo canale di Panama "extra-large" coincide con una crisi del trasporto navale, colpito da eccesso di capacità e calo dei noli. Rallentamento della crescita e neo-protezionismi si alimentano a vicenda. Uno dei più autorevoli storici dell'economia, Harold James dell'università di Princeton, traccia analogie con gli anni Trenta: quando la Grande Depressione innescata dal crac di Wall Street del 1929 fu poi aggravata dalle guerre tariffarie, l'innalzamento di barriere doganali. Il protezionismo sarebbe tanto più deleterio per una nazione di medie dimensioni come l'Italia, la cui ricchezza è stata costruita in larga parte dalle esportazioni. Per contrastare l'avanzata dei nazionalismi, ieri Obama si è riunito a Ottawa con gli altri due leader nordamericani, il canadese Justin Trudeau e il messicano Enrique Nieto. La loro sfida: trasformare il mercato unico del Nafta in un'avanguardia dello sviluppo sostenibile, raggiungendo il 50% di energie rinnovabili entro il 2025. È il tentativo di imboccare una strada diversa, a un quarto di secolo dal boom della globalizzazione, prima che prevalgano spinte di segno opposto.
Una delle conversioni più spettacolari sta accadendo nel tempio dell'ortodossia liberista: il Fondo monetario internazionale. Lo slittamento progressivo del Fmi verso posizioni più critiche sulla globalizzazione, è avvenuto sotto la gestione del "clan dei francesi": l'ex direttore generale Dominique Strauss-Kahn e il suo capo economista Olivier Blanchard hanno aperto la strada, poi proseguita con Christine Lagarde. C'è chi sostiene che se Strauss-Kahn non si fosse rovinato con gli scandali sessuali, la svolta sarebbe stata ancora più radicale. Il Fondo moltiplica le analisi sulle distorsioni del commercio mondiale. Un ampio studio a cui hanno collaborato otto economisti sotto la direzione di Siddharh Tiwari, analizza "cause e conseguenze della diseguaglianza nei redditi, in una prospettiva globale". Di recente il Fmi ha raccomandato i controlli sui movimenti di capitali, in certe situazioni di crisi: l'opposto di quel che predicava negli anni 80 e 90. Le critiche avvengono sullo sfondo di un commercio mondiale che rallenta: l'inaugurazione domenica del nuovo canale di Panama "extra-large" coincide con una crisi del trasporto navale, colpito da eccesso di capacità e calo dei noli. Rallentamento della crescita e neo-protezionismi si alimentano a vicenda. Uno dei più autorevoli storici dell'economia, Harold James dell'università di Princeton, traccia analogie con gli anni Trenta: quando la Grande Depressione innescata dal crac di Wall Street del 1929 fu poi aggravata dalle guerre tariffarie, l'innalzamento di barriere doganali. Il protezionismo sarebbe tanto più deleterio per una nazione di medie dimensioni come l'Italia, la cui ricchezza è stata costruita in larga parte dalle esportazioni. Per contrastare l'avanzata dei nazionalismi, ieri Obama si è riunito a Ottawa con gli altri due leader nordamericani, il canadese Justin Trudeau e il messicano Enrique Nieto. La loro sfida: trasformare il mercato unico del Nafta in un'avanguardia dello sviluppo sostenibile, raggiungendo il 50% di energie rinnovabili entro il 2025. È il tentativo di imboccare una strada diversa, a un quarto di secolo dal boom della globalizzazione, prima che prevalgano spinte di segno opposto.
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