“Sfogliatura” di martedì
25 di gennaio dell’anno 2011. Ove si discetta(va) sulla “doppiezza delle coscienze del
bel paese”. Si dirà: nulla di nuovo. È che i decenni trascorsi nella
mala-politica sono rimasti, quei decenni dicevo, come intrisi sino alle midolla
dalla spregiudicatezza e dalla im-moralità che non si riesce oggigiorno a ben
sperare in un rinnovamento ed un riscatto. Risultano inutili financo gli
avvicendamenti del personale della politica che portano con se, come stimmate
purulenti, quanto di più perverso la mala-politica sia riuscita a creare nei
decenni passati. E di quella “doppiezza delle coscienze del bel paese”
ne fanno buon uso e mostra mediatica i novelli reggitori della cosa pubblica
che, nell’avvilupparsi caotico della politica sui temi più scottanti, additano
alla “pancia” del bel paese i possibili “nemici” da cui difendersi, ovvero i
trafugatori di matasse di rame, dimentichi come avviene di additare alla
pubblica opinione invece i principali responsabili delle rapine, ovvero coloro
che hanno depredato il paese al comando delle loro banche, o magari hanno
dilapidato milioni di pubblico denaro non già al servizio della politica ma per
inconfessabili interessi e motivi personali e/o di gruppo. Sta tutta qui quella
“doppiezza
delle coscienze del bel paese”, tanto è vero nei “luoghi di
accoglienza” preposti si contano ben pochi frodatori dei beni pubblici, mentre
si stipano in essi i diseredati e i più dei miserabili – nel senso alla Hugo –
cittadini. Scrivevo allora, il 25 di gennaio dell’anno 2011: Mi ero avventurato, in un mio post di mercoledì
19 di gennaio, a scrivere:“È che vien fuori sempre la doppiezza delle coscienze
del bel paese. Ove esiste da sempre una doppia moralità. Coloro che oggigiorno
sostengono, arditamente e spudoratamente, che la vicenda sia da ricondursi ad
un fatto privato di quel mattacchione di cavaliere, reagirebbero in tale modo
se ad essere vittima di quel cavaliere stravagante fosse una familiare
prossima, una minore della sacra famiglia, della tribù?”. Mi ero avventurato, incoscientemente,
a fare un esame sociologico non avendone gli strumenti adeguati. Imprudenza
somma. Sono stati i fatti dei giorni a seguire a farsi carico di smentire
quella mia improvvisata disamina dei processi sociologici ed antropologici in
corso, che caratterizzano il bel paese all’inizio del secondo decennio del terzo
millennio della Storia. Ne chiedo venia. I fatti dei giorni a seguire mi hanno
smentito clamorosamente. Non più di una doppiezza di moralità bisognerebbe
parlare oggigiorno per il bel paese. La moralità ha subito una evoluzione per
la quale ben più pressanti premure, immancabilmente materiali, determinano e
dettano le regole ed i comportamenti degli “italioti”.
Sono cadute quelle improvvisate mie asserzioni dinanzi allo scempio palese di tante
coscienze che di fatto rendono auspicabili ed accettabili comportamenti che, in
altre stagioni della vita e della Storia del bel paese, non avrebbero trovato tanto
spazio e/o paternità alcuna. Oggigiorno urge l’accaparramento. Che sia lecito o
meno, che sia frutto delle proprie abilità e qualità non importa, purché ci si
accaparri di ciò che il “sogno” di un
arricchimento facile, anche furbescamente e/o delittuosamente conquistato,
anche in barba alle leggi vigenti, arricchimento per tutti fatto balenare nelle
verdi contrade del bel paese, si materializzi e giunga a portata di mano dei più. Come, non importa. Meglio
ancora, che l’accaparramento avvenga nelle forme più semplici e spedite, di un
arricchimento che nasca anche dal dolce mestiere delle tante “bocca di rosa” cantate da quello
straordinario artista che è stato Fabrizio De Andrè. Ma pur c’è stata una
stagione nella vita e nella Storia del bel paese nella quale l’orgoglio della
propria esistenza, di una dignità fatta non sulle cose possedute né tanto meno
sull’apparire, ma sull’essere e sulle qualità che l’essere dispiega quando è
specchiato e veritiero, quell’orgoglio e quella dignità anche se limitati o
poveri nei mezzi, erano una costante largamente diffusa nelle ubertose contrade
del bel paese. Oggi i fatti reali e concreti, e non tanto le spericolate
alchimie sociologiche che si ingegneranno di spiegare ciò che è spiegabile di
questi tristissimi anni, s’ingegnano e ci dimostrano, in forme
incontrovertibili, che di quella umanità, di quell’essere orgogliosi e
dignitosi, si è persa traccia in ampi strati delle popolazioni che abitano il
suolo italico. “Ma forse era solo
un’altra Italia” scrive il giornalista e scrittore Claudio Fava sul
quotidiano l’Unità del 24 di gennaio dell’anno 2011 nel Suo editoriale “Il silenzio dei padri”, che di seguito
trascrivo in parte.
È come essersi posti improvvisamente dinnanzi ad uno specchio, dopo i fatti ultimi; ed averne ricevuta un’immagine inattesa, disperante, deformata, di una rozzezza senza limiti e che viene fuori prepotente, disarmante, che rende forse inutili, insignificanti, i propositi di una interpretazione che sia della evoluzione dei costumi che, come una bufera, attraversa il bel paese male esposto agli elementi avversi e senza più difesa forte alcuna. “Era solo un’altra Italia” quella magistralmente raccontata da Claudio Fava. Un’Italia che ho vissuto direttamente, una storia, quella di Franca, che ci catturò per la violenza dettata da atavici, tribali costumi, ma che ci rinfrancò poi con quell’atto di rifiuto e che ci indicò la via da seguire grazie al coraggio di quella ragazza e di quel padre generoso, orgoglioso e dignitoso assai. Cosa ne è stata di quell’Italia? Quali sortilegi ne hanno rubato l’anima? Quali “orchi” ne hanno divorato le menti? Gli “orchi” stanno tra di noi. È solo che non se ne distinguono i contorni esatti. Vi è una larvata “percezione” della loro esistenza e della loro natura, che non ha raggiunto ancora il livello della “consapevolezza”, il solo livello, quest’ultimo, che coinvolge, nei processi neuronali della coscienza, le circonvoluzioni più recenti e più evolute dell’encefalo degli esseri detti umani. Scrive Pierre Musso, filosofo e docente di “Scienze della comunicazione” all’Università di Rennes, nel Suo lavoro “Sarkoberlusconismo”, edito da Ponte alle grazie (2008) – pag. 63 -: “Quello che appare l’elemento costitutivo del fenomeno (…) berlusconiano è la produzione di favole e illusioni che occupino lo spazio vuoto lasciato dall’utopia politica. Attraverso il sogno, il management si sostituisce all’utopia sociale, combinando prassi e sogno secondo il modello aziendale. E l’eroe (…) berlusconiano è uno che sogna parecchio. Il Cavaliere stesso caratterizza il suo approccio in termini di sogno: - Nessuno è più sognatore di me. Nessuno insegue l’utopia più di me. La differenza consiste senz’ombra di dubbio nel fatto che io sono un sognatore pragmatico. Vuol dire che gli altri fanno dei sogni che rimangono tali, mentre io cerco di trasformare i miei in realtà -. Berlusconi si definisce spesso un ‘sognatore pragmatico’, uno degli slogan fondamentali nella sua strategia comunicativa. Si presenta come un visionario realista, immagine di riferimento del neomanager. È quest’approccio, che unisce sfrenata fantasia e pragmatismo, utopia e azione, che Berlusconi ritiene di saper applicare al mondo degli affari e della politica. Produce sogni, esportando il modello televisivo della ‘fabbrica dei desideri’ nel campo della politica in crisi. (…)”. Gli “orchi” sono tra di noi. Svuotano le menti. Annichiliscono le coscienze. Il lavoro di Pierre Musso ha un sottotitolo: “Le due facce della rivoluzione conservatrice”. Se ne consiglia la lettura per sapere, per capire. Ha scritto Claudio Fava: (…) Bernardo Viola, voi non vi ricordate chi sia stato. Ve lo racconto io. Era il padre di Franca Viola, la ragazzina di diciassette anni di Alcamo che, a metà degli anni sessanta, fu rapita per ordine del suo corteggiatore respinto, tenuta prigioniera per una settimana in un casolare di campagna e a lungo violentata. Era un preludio alle nozze, nell’Italia e nel codice penale di quei tempi. Se ti piaceva una ragazza, e tu a quella ragazza non piacevi, avevi due strade: o ti rassegnavi o te la prendevi. La sequestravi, la stupravi, la sposavi. Secondo le leggi dell’epoca, il matrimonio sanava ogni reato: era l’amore che trionfava, era il senso buono della famiglia e pazienza se per arrivarci dovevi passare sul corpo e sulla dignità di una donna. A Franca Viola fu riservato lo stesso trattamento. Lui, Filippo Melodia, un picciotto di paese, ricco e figlio di gente dal cognome pesante, aveva offerto in dote a Franca la spider, la terra e il rispetto degli amici. Tutto quello che una ragazza di paese poteva desiderare da un uomo e da un matrimonio nella Sicilia degli anni sessanta. E quando Franca gli disse di no, lui se l’andò a prendere, com’era costume dei tempi. Solo che Franca gli disse di no anche dopo, glielo disse quando fece arrestare lui e i suoi amici, glielo urlò il giorno della sentenza, quando Filippo si sentì condannare a dodici anni di galera. Il costume morale e sessuale dell’Italia cominciò a cambiare quel giorno, cambiò anche il codice penale, venne cancellato il diritto di rapire e violentare all’ombra di un matrimonio riparatore. Fu per il coraggio di quella ragazzina siciliana. E per suo padre: Bernardo, appunto. Un contadino semianalfabeta, cresciuto a pane e fame zappando la terra degli altri. Gli tagliarono gli alberi, gli ammazzarono le bestie, gli tolsero il lavoro: convinci tua figlia a sposarsi, gli fecero sapere. E lui invece la convinse a tener duro, a denunziare, a pretendere il rispetto della verità. Tu gli metti una mano e io gliene metto altre cento, disse Bernardo a sua figlia Franca. Atto d’amore, più che di coraggio. Era povero, Bernardo, più povero dei padri di alcune squinzie di Arcore, quelli che s’informano se le loro figlie sono state prescelte per il letto del drago. Ma forse era solo un’altra Italia
È come essersi posti improvvisamente dinnanzi ad uno specchio, dopo i fatti ultimi; ed averne ricevuta un’immagine inattesa, disperante, deformata, di una rozzezza senza limiti e che viene fuori prepotente, disarmante, che rende forse inutili, insignificanti, i propositi di una interpretazione che sia della evoluzione dei costumi che, come una bufera, attraversa il bel paese male esposto agli elementi avversi e senza più difesa forte alcuna. “Era solo un’altra Italia” quella magistralmente raccontata da Claudio Fava. Un’Italia che ho vissuto direttamente, una storia, quella di Franca, che ci catturò per la violenza dettata da atavici, tribali costumi, ma che ci rinfrancò poi con quell’atto di rifiuto e che ci indicò la via da seguire grazie al coraggio di quella ragazza e di quel padre generoso, orgoglioso e dignitoso assai. Cosa ne è stata di quell’Italia? Quali sortilegi ne hanno rubato l’anima? Quali “orchi” ne hanno divorato le menti? Gli “orchi” stanno tra di noi. È solo che non se ne distinguono i contorni esatti. Vi è una larvata “percezione” della loro esistenza e della loro natura, che non ha raggiunto ancora il livello della “consapevolezza”, il solo livello, quest’ultimo, che coinvolge, nei processi neuronali della coscienza, le circonvoluzioni più recenti e più evolute dell’encefalo degli esseri detti umani. Scrive Pierre Musso, filosofo e docente di “Scienze della comunicazione” all’Università di Rennes, nel Suo lavoro “Sarkoberlusconismo”, edito da Ponte alle grazie (2008) – pag. 63 -: “Quello che appare l’elemento costitutivo del fenomeno (…) berlusconiano è la produzione di favole e illusioni che occupino lo spazio vuoto lasciato dall’utopia politica. Attraverso il sogno, il management si sostituisce all’utopia sociale, combinando prassi e sogno secondo il modello aziendale. E l’eroe (…) berlusconiano è uno che sogna parecchio. Il Cavaliere stesso caratterizza il suo approccio in termini di sogno: - Nessuno è più sognatore di me. Nessuno insegue l’utopia più di me. La differenza consiste senz’ombra di dubbio nel fatto che io sono un sognatore pragmatico. Vuol dire che gli altri fanno dei sogni che rimangono tali, mentre io cerco di trasformare i miei in realtà -. Berlusconi si definisce spesso un ‘sognatore pragmatico’, uno degli slogan fondamentali nella sua strategia comunicativa. Si presenta come un visionario realista, immagine di riferimento del neomanager. È quest’approccio, che unisce sfrenata fantasia e pragmatismo, utopia e azione, che Berlusconi ritiene di saper applicare al mondo degli affari e della politica. Produce sogni, esportando il modello televisivo della ‘fabbrica dei desideri’ nel campo della politica in crisi. (…)”. Gli “orchi” sono tra di noi. Svuotano le menti. Annichiliscono le coscienze. Il lavoro di Pierre Musso ha un sottotitolo: “Le due facce della rivoluzione conservatrice”. Se ne consiglia la lettura per sapere, per capire. Ha scritto Claudio Fava: (…) Bernardo Viola, voi non vi ricordate chi sia stato. Ve lo racconto io. Era il padre di Franca Viola, la ragazzina di diciassette anni di Alcamo che, a metà degli anni sessanta, fu rapita per ordine del suo corteggiatore respinto, tenuta prigioniera per una settimana in un casolare di campagna e a lungo violentata. Era un preludio alle nozze, nell’Italia e nel codice penale di quei tempi. Se ti piaceva una ragazza, e tu a quella ragazza non piacevi, avevi due strade: o ti rassegnavi o te la prendevi. La sequestravi, la stupravi, la sposavi. Secondo le leggi dell’epoca, il matrimonio sanava ogni reato: era l’amore che trionfava, era il senso buono della famiglia e pazienza se per arrivarci dovevi passare sul corpo e sulla dignità di una donna. A Franca Viola fu riservato lo stesso trattamento. Lui, Filippo Melodia, un picciotto di paese, ricco e figlio di gente dal cognome pesante, aveva offerto in dote a Franca la spider, la terra e il rispetto degli amici. Tutto quello che una ragazza di paese poteva desiderare da un uomo e da un matrimonio nella Sicilia degli anni sessanta. E quando Franca gli disse di no, lui se l’andò a prendere, com’era costume dei tempi. Solo che Franca gli disse di no anche dopo, glielo disse quando fece arrestare lui e i suoi amici, glielo urlò il giorno della sentenza, quando Filippo si sentì condannare a dodici anni di galera. Il costume morale e sessuale dell’Italia cominciò a cambiare quel giorno, cambiò anche il codice penale, venne cancellato il diritto di rapire e violentare all’ombra di un matrimonio riparatore. Fu per il coraggio di quella ragazzina siciliana. E per suo padre: Bernardo, appunto. Un contadino semianalfabeta, cresciuto a pane e fame zappando la terra degli altri. Gli tagliarono gli alberi, gli ammazzarono le bestie, gli tolsero il lavoro: convinci tua figlia a sposarsi, gli fecero sapere. E lui invece la convinse a tener duro, a denunziare, a pretendere il rispetto della verità. Tu gli metti una mano e io gliene metto altre cento, disse Bernardo a sua figlia Franca. Atto d’amore, più che di coraggio. Era povero, Bernardo, più povero dei padri di alcune squinzie di Arcore, quelli che s’informano se le loro figlie sono state prescelte per il letto del drago. Ma forse era solo un’altra Italia
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