Da “Operazione
Gattopardo” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 15
di giugno 2018: (…). Il quadro che emerge è un magnifico selfie di quel che accade in
Italia quando cambia o rischia di cambiare il sistema con i suoi equilibri di
potere. Ciò che è accaduto dopo il 4 marzo ha due soli precedenti in 72 anni di
storia repubblicana. Quello dell’immediato dopoguerra, quando andarono al
governo le forze politiche escluse dal ventennio fascista. E quello del
1992-‘94, quando crollò la Prima Repubblica sotto le macerie di Tangentopoli e
l’istinto di sopravvivenza dell’Ancien Regime produsse subito un formidabile
anticorpo al cambiamento: B. A bilanciarne il gattopardismo provvide una forza
nuova e dirompente come la Lega di Bossi. Che infatti dopo sette mesi lo buttò
giù. Oggi il Gattopardo è la Lega di Salvini che, sotto le mentite spoglie del
nuovo che avanza, ricicla tutto il vecchio che è avanzato (idee, persone,
lobby, prassi), controbilanciato dall’elemento più nuovo che la politica
italiana al momento conosca: i 5Stelle. Questi però non hanno né la solidità
culturale, il savoir faire amministrativo e la classe dirigente adeguata per
arginare il tracimante falso nuovismo leghista. E nemmeno per resistere ai
tentativi di infiltrazione. Parnasi, Bisignani e quelli come loro sanno
benissimo che i Di Maio e le Raggi sono inavvicinabili: hanno mille difetti, ma
non la corruttibilità. E allora aggirano l’ostacolo e bussano alla porta dei
Lanzalone, trovandola spalancata. Distinguere le verità dalle millanterie sarà
compito dei magistrati. Ma leggere di riunioni in casa Parnasi fra Lanzalone e
Giorgetti, leghista per tutte le stagioni, per “fare il governo” e di missioni
di Lanzalone nei palazzi del potere per le nomine pubbliche dà l’idea della
permeabilità del “nuovo” alle infiltrazioni del “vecchio”. Un movimento
cresciuto troppo in fretta e chiamato troppo presto al governo con quadri
improvvisati si affida agli “esterni”: tecnici, consulenti, boiardi,
funzionari, avvocati presi a prestito dal privato, dall’università, dal
Parastato, dalla Pubblica amministrazione, che magari sono fin troppo
competenti, ma non necessariamente condividono i valori di chi li ha chiamati.
E presto o tardi possono cedere a tentazioni di potere, di privilegio, di
conflitto d’interessi o addirittura di corruzione. E allora può succedere di
tutto: di azzeccare la scelta arruolando persone di valore (si spera che Conte
lo sia) o di sbagliare clamorosamente portandosi il nemico in casa, come Marra,
Lanzalone o Giordana (il braccio destro della Appendino dimessosi per una multa
levata a un amico). Troppi campanelli d’allarme per non porsi il problema
strutturale di un Movimento nato sulla trasparenza, sull’onestà e sul civismo
che potrebbe fare del bene all’Italia e invece rischia di perdere – e
soprattutto di farci perdere – un occasione che potrebbe essere l’unica: la
cronica mancanza di una classe dirigente autonoma, forte e preparata e
responsabile, capace di attrarre le forze migliori della società. Col risultato
di affidare la scelta di candidati, sindaci, assessori, ministri,
sottosegretari e consulenti al caso, o al culo. Certo, quando poi la mela
marcia salta fuori, ci si può consolare rinfacciando agli altri di essere
peggio e di non cacciare nessuno nemmeno dopo la condanna definitiva. Ma, fermo
restando che nessuno nasce dal nulla, tutti hanno una vita precedente e la
fabbrica dei santi ha chiuso da un pezzo, una forza “diversa” dovrebbe darsi
gli strumenti più adeguati per selezionare uomini e donne a prova di bomba.
Altrimenti, di errore in errore, passerà fra la gente l’idea che sono tutti
uguali, non si può cambiare niente e tanto vale riaffidarsi ai vecchi puzzoni.
A noi, della sorte dei 5Stelle, importa poco o nulla: ma se anche stavolta le
aspettative di cambiare venissero frustrate, nessun altro ci proverà mai più.
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