Da «La
democrazia finisce piano piano», colloquio di Marco Damilano con la
senatrice Liliana Segre, a 14 anni deportata - numero di matricola 75190 - nel campo
di sterminio nazista di Auchwitz-Birkenau pubblicato sul settimanale L'Espresso del 3 di giugno 2018: Lo ricorda bene, quel due giugno 1946, il
giorno del referendum istituzionale in cui l’Italia scelse di voltare pagina e
di diventare una Repubblica. «Avevo quindici anni e non potevo votare, però ho
ancora quella sensazione di gioia collettiva. Qualcosa di nuovo dopo tante
tragedie, l’esplosione di felicità per questa Italia ritrovata, in
ricostruzione, ottimista, questo mondo intorno a me che festeggiava, anche se
io ero personalmente lacerata. Ero una vecchia ragazza che aveva già visto
l’indicibile, come lo ha chiamato Primo Levi». (…).
Sembra di vederla nel 1946, provo a
immaginarla, doveva avere la stessa età della ragazza che compare nella foto
simbolo di quel giorno, quella che alza la prima pagina del giornale a titoli
cubitali con la notizia più emozionante: è nata la Repubblica italiana. «Per
quello che succedeva attorno a me, con quel che restava di me stessa, ero
felice. Nella mia casa, prima della tragedia, mio padre e mio zio erano stati ufficiali
nella Prima guerra mondiale. Mio zio fascista, mio padre antifascista. Si
amavano molto, discutevano moltissimo. Mentre mio padre è finito ad Auschwitz,
mio zio si è salvato, ha vissuto a lungo ma per tutta la vita aveva l’incubo di
non essere riuscito a portare giù dal treno per il lager suo padre, mio nonno.
E lui che era stato ufficiale dell’esercito regio ed era stato a Caporetto,
fascista e monarchico, quel giorno votò per la Repubblica e mi disse: mai mi
sarei aspettato di votare felicemente per la Repubblica». (…).
Il Quirinale, la sede della presidenza, la
suprema garanzia costituzionale, assediato dalle critiche (legittime) e dagli
insulti (vergognosi). Il capo dello Stato minacciato, offeso perfino
nell’affetto più caro, il fratello Piersanti ucciso dalla mafia, con i messaggi
ripugnanti apparsi sui social. Il silenzio di partiti, sindacati, intellettuali
che in passato sono scesi in piazza per difendere le istituzioni repubblicane e
che in questa occasione balbettano. E l’esigenza sempre più urgente di trovare
figure che sappiano parlare a tutto il Paese stremato e allibito dal balletto
dei politici sulla crisi, simmetrico a quello degli speculatori sui mercati. «Oggi
sono molto rattristata per la mia Italia, paese amato, alle soglie di qualche
sorpresa, di situazioni che mi sarei aspettata di non vedere più. (…). Abbiamo
avuto tante crisi politiche in questi decenni, formule di ogni tipo, ma quello
che sta accadendo in questi giorni è totalmente inaspettato. La Repubblica è la
cosa di tutti, ma oggi rischia di essere strattonata da una parte e dall’altra,
lo vediamo tutti, sono preoccupata. C’è una tristezza di fondo, nelle
polemiche, nelle speculazioni, anche nei giudizi della stampa internazionale,
così lontana dalla bellezza dell’Italia e da un popolo che non si merita questa
severità dei giudizio».
Sono tanti i motivi di preoccupazione e di
amarezza per la senatrice Segre, nominata a Parlamento sciolto, accolta tra gli
applausi a Palazzo Madama durante la prima seduta, il 23 marzo. «Conosco i miei
colleghi senatori a vita, sono stata troppo poco in aula per farmi un giudizio
degli altri, non sono una vecchia volpe. Quando sono stata nominata ho detto al
presidente Mattarella che sono sempre una bambina: mi hanno chiuso la porta
della scuola e ottant’anni dopo mi hanno aperto quella del Senato».
Che pensa degli attacchi contro l’inquilino del Quirinale, compresa la richiesta di impeachment avanzata da Giorgia Meloni e da Luigi Di Maio? «Impeachment è una parola che non esiste nell’ordinamento italiano, chi l’ha sbandierata poteva almeno informarsi. Quando ho conosciuto Mattarella e abbiamo parlato eravamo tutti e due con i capelli bianchi, alle spalle anche lui ha avuto un dramma che ti segna la vita, ci siamo ritrovati come un fratello e una sorella. È il presidente della Repubblica, ma io lo considero come mio fratello, come una persona che fa parte della mia famiglia. Ho letto anch’io cosa hanno scritto in rete, quando gli hanno augurato la fine di suo fratello mi son venute in mente le minacce contro di me da bambina, rispondevo al telefono e una voce mi chiedeva: perché non muori? Perché non morite? Questi cattivi sentimenti ci sono sempre stati, il web li amplifica, ma non è solo una questione di mezzi di espressione. Ci sono i tempi che consentono a queste persone di comportarsi così. C’è stato un tempo dopo la guerra, dopo l’orrore di milioni di morti, che queste parole e questi comportamenti sono sembrati sparire. Sono arrivate altre esigenze, la gente ha pensato all’arricchirsi, a farsi notare. La bellezza, il consumismo, il successo, essere qualcuno, sono diventati idoli. Poi gli idoli cadono e nel vuoto sono tornate parole antiche».
Tempi cupi. Tempi di divisione che
anticipano la futura campagna elettorale, quando verrà. Cosa la preoccupa di
più di questi tempi, del ritorno del passato? «Ho la paura della perdita della
democrazia, perché io so cos’è la non democrazia. La democrazia si perde pian
piano, nell’indifferenza generale, perché fa comodo non schierarsi, e c’è chi
grida più forte e tutti dicono: ci pensa lui».
La democrazia svanisce progressivamente, per
slittamenti successivi. Per le parole che non vogliono più dire nulla, che
risuonano a vuoto. E per i leader che aizzano anziché placare, dirigenti che
non dirigono ma seguono. Una delle parole che ritornano è popolo. Si ripete: il
popolo, lo vuole il popolo, ci sono i nemici del popolo, il presidente
incaricato Giuseppe Conte si era proposto come avvocato del popolo. Ma che
cos’è il popolo, chi può dire parlo a nome del popolo? E si può contrapporre
alle leggi, ai limiti della Costituzione? «Quando il popolo ha votato bisogna
rispettare l’esito elettorale, anche se può non piacere. (…). Poi c’è la
coscienza di ognuno. E c’è la Costituzione, un lavoro grandissimo, i padri non
erano improvvisati».
Come si reagisce? «Io ho un’idea fissa. Chi
entra nel memoriale della Shoah trova scritta una parola: indifferenza. Da
senatrice ho depositato un disegno di legge per istituire una commissione
parlamentare bicamerale di monitoraggio e di controllo sugli “hate speech”, i
discorsi d’odio. Un invito che il Consiglio d’Europa ha fatto ai 47 Stati
membri, il nostro sarebbe il primo caso. Le parole d’odio sono l’anticamera
della fine della democrazia. L’imbarbarimento del linguaggio è arrivato a
livelli intollerabili. In questi giorni si è scritto di un mercato di divise da
deportati di Dachau, che parole si possono trovare?»
La Repubblica divide, per molti ha deluso le
speranze
di settantadue anni fa. Per certi versi comandano ancora i
luigini di Carlo Levi in “L’orologio”, le caste degli inamovibili: «La grande
maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le
sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi
d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e
idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le
gerarchie, e servono e imperano».
È la loro presenza a scatenare la reazione
dei populismi? «Ero molto giovane quando ho subito l’orrore, per ritrovare una
speranza di futuro è stato importantissimo l’incontro con mio marito. (…). Era
fiero di aver combattuto per la democrazia che stava nascendo, ma anno dopo
anno mi ossessionava con la sua delusione per tutti quelli che erano morti per
far nascere questo Stato, per chi aveva dato la vita per un’Italia migliore.
Delusioni per gli scandali, le ruberie, il distacco dalle persone».
Oggi in tanti votano più per delusione o per
rabbia che per speranza. «Ha ragione, ma per votare la speranza devono esserci
i motivi e tanti, evidentemente, motivi non ne trovano. In democrazia
l’elettorato va rispettato e non va mai dimenticato che il mondo è degli indifferenti,
sono loro che decidono chi vince e chi perde. La mia speranza è che un giorno
possano nascere gli Stati Uniti d’Europa, ora appare un’utopia, lo abbiamo
visto sulla questione dei migranti, in cui ogni Stato ha dato spazio al suo
egoismo nazionale. Io la speranza ce l’ho, ho sempre scelto la vita, ho
conosciuto nella mia vita tanti affetti, un lungo amore».
E amare la Repubblica? Che significa oggi,
senatrice Liliana Segre? «Amare la Repubblica significa attuare la
Costituzione». E difenderla dai fantasmi del passato. Questi tempi nuovi che ci
sono dati da vivere, simili a quelli antichi.
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