Da “Bertelli:
«L'euro ci ha difeso. Attenti al debito e al futuro»", intervista di
Luca Piana a Patrizio Bertelli - “Ceo” di Prada -, pubblicata l’11 di giugno
2018 sul settimanale “A&F”: (…). Il
governo Conte si è appena insediato, Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono i
nuovi uomini forti d'Italia. Interrogativi? “Non è un problema d'interrogativi.
(…). Il fatto è che non ci si può improvvisare imprenditori, così come in
politica non si dovrebbe improvvisare nulla. Hanno parlato di nuovi barbari, ma
secondo me il problema è ben più profondo, riguarda la nostra società".
In che modo? "I nuovi politici sono la
conseguenza di un Paese in cui è stato tolto il servizio militare, senza
sostituirlo con un servizio civile in cui venisse insegnato il senso della
Costituzione, dove si facesse formazione, o si coinvolgessero le persone nel
sistema della protezione civile. Una volta il rispetto lo imparavi in molti
modi, nelle fabbriche grazie al ruolo del partito socialista o del partito
comunista, negli oratori con la Chiesa. Si è dissolto il sistema di formazione
diretta che riguardava non soltanto gli aspetti sociali e culturali, ma anche
il lavoro, l'industria, il mondo contadino. Oggi la formazione i ragazzi la
fanno su Instagram o su Facebook. Mi ricordano un po' gli albanesi che negli
anni Ottanta arrivavano in Italia, convinti che tutto fosse come nei programmi
televisivi".
Le mancano i partiti di un tempo? "No.
Mi manca il senso del sociale che si trasmetteva nelle fabbriche, nei comitati
con cui le istituzioni affrontavano i problemi, nel sindacato. Pensi anche al
cinema, al messaggio d'impegno trasmesso da molti film, penso ai lavori di Gian
Maria Volonté e persino a tante commedie, come "Mimì metallurgico"".
E invece oggi, che genere di messaggio
passa? "Un messaggio che a me sembra insidioso, soprattutto per i ragazzi.
Le persone credono che gli effetti del voto di protesta non possano nuocere a
loro stessi, che alla fine non incidano sulla sfera quotidiana, sui risparmi,
sui rapporti economici su cui è fondata la loro stessa vita. Non pensano che un
voto che vuol essere semplicemente "contro il sistema" rischia di
ribaltarsi contro loro stessi, perché alla fine il sistema siamo tutti noi.
Stiamo vivendo un momento di cecità civica e civile, un po' come i soldati che
venivano mandati in guerra. Nessuno di loro avrebbe seguito i generali, se
avesse saputo che andava a morire. E così si diceva che la guerra sarebbe
durata pochissimo, o che vincere sarebbe stato facile".
Il populismo fa presa ovunque ma l'Italia è
l'unico grande Paese d'Europa in cui i populisti sono al governo, come ha
certificato il premier Conte il giorno della fiducia. Come lo spiega? "In
generale occorre osservare che, oggi, nel mondo le persone che sono nate dagli
anni Ottanta in poi rappresentano già la maggior parte della popolazione.
Parliamo spesso di millennials ma, in realtà, dobbiamo tutti capire che cosa
pensa la "generazione Z", i ragazzi nati dopo il 2000. I vecchi
partiti non hanno compreso che occorreva mettersi in comunicazione con una
moltitudine di persone che comunicano essenzialmente via social. Spiegare
perché da noi queste nuove forze siano arrivate al potere è facile, basta
confrontare il nostro reddito medio con quello di Francia e Germania. C'è
troppa povertà e c'è la difficoltà di molti giovani a trovare un'identità
sociale, che passa per il coinvolgimento nel lavoro. Poi pesa anche un senso di
vendetta nei confronti di decenni di malgoverno".
Quando parla di scelte politiche che si
ribaltano contro gli elettori, pensa anche ai messaggi anti Europa che, in
maniera non limpida, hanno caratterizzato la formazione del nuovo governo? "Gli
imprenditori del Nord hanno votato in massa per la flat tax, ma ora sono
terrorizzati: se si esce dall'euro, vanno tutti a rotoli. L'euro è il collante
dell'Europa. Se non ci fosse, un Paese come il nostro tornerebbe ai tempi in
cui l'inflazione era al 15 per cento. L'euro ci ha difeso, abbiamo avuto grandi
benefici ma, allo stesso tempo, non possiamo pensare di scaricare le nostre
magagne addosso agli altri, e penso soprattutto al debito pubblico".
In questa nuova fabbrica lavorano quasi 800
persone, in Italia avete 2.974 dipendenti nella produzione e 4.706 in totale.
Come si sente un imprenditore a sostenere uno sforzo simile, pensando che
potrebbe essere messo in discussione un aspetto di fondo come l'appartenenza
all'euro? "Non mi faccio condizionare. C'è stato un momento in cui avremmo
potuto decidere se produrre fuori dall'Italia, e abbiamo scelto di stare qui.
La conseguenza è che dobbiamo tenere un livello altissimo, con un forte senso
di appartenenza da parte di tutti".
Perché i gruppi come Prada, con tanti
lavoratori, in Italia sono rari? "È l'effetto del mancato sviluppo tecnologico.
Il nostro mondo produttivo è rimasto troppo artigianale, e naturalmente non
intendo il senso migliore della parola, quello che riguarda la capacità delle
persone di compiere lavorazioni di altissima qualità. Quello è fondamentale, ed
è un punto di forza del made in Italy. Essere artigiani diventa un freno quando
pensi di poter fare tutto da solo".
Tante medie imprese vivono una fase
positiva. Gli imprenditori stanno imparando a superare i vecchi limiti? "Quelli
che esportano sì. Stare sui mercati internazionali ti obbliga a migliorare
continuamente. Molti però non sono ancora riusciti a fare il salto verso una
vera coscienza industriale".
Che cosa potrebbe aiutarli? "È facile
da dire, difficile da fare. Ci vuole un piano per agevolare le imprese che hanno
un progetto, sostenerle mentre lo mettono in pratica e poi accompagnarle
all'estero, con un Paese capace di vendere la propria immagine. L'Italia non si
è guadagnata sul campo i galloni che l'avrebbero fatta rispettare di più. La
nostra posizione, per molti versi marginale, poteva essere più credibile se, ad
esempio, avessimo investito di più in cultura, in forza intellettuale, in
competenza. Siamo sempre stati all'avanguardia, pensi al Rinascimento, ma oggi
non siamo all'altezza dell'eredità che la storia ci ha lasciato".
Come si torna sulla cresta dell'onda? "È un aspetto culturale. Bisogna puntare sull'istruzione, sull'università, costringere i ragazzi a laurearsi e a studiare di più".
In campagna elettorale il Jobs Act è stato
uno dei bersagli dei partiti della nuova maggioranza. Se venisse reintrodotto
l'articolo 18, che cosa ne direbbe? "Molto sinceramente, mi è
indifferente. Non so nemmeno bene come funzioni, non mi sono mai posto il
problema. Se davvero vogliono, lo rimettano. Abbiamo sempre scelto i nostri
collaboratori con l'idea di investire su di loro: dopo l'apprendistato,
entravano in azienda per rimanerci. Ma il Jobs Act, e gli incentivi per le
assunzioni a tempo indeterminato, sono stati fattori importantissimi per
favorire l'occupazione".
Il governo pensa alla flat tax. Pagare meno
tasse sui profitti può aiutare? "Non serve, ed è irrealizzabile".
Perché non serve? Pagare il 15 per cento
d'imposte sui profitti, invece del 21 per cento, non aiuterebbe le imprese a
investire di più? "Non conta. Quello che serve davvero per far rendere un
investimento è la capacità di gestire i processi in tutti i dettagli, esaminare
le varie componenti che incidono sui costi e ottenere la massima efficienza.
Ripeto, se si vuole rilanciare il sistema produttivo italiano, bisogna puntare
soprattutto sulla formazione e sull'istruzione. Non crederò mai che un
imprenditore assumerà di più se pagherà meno tasse".
La flat tax piace molto soprattutto alle
persone che hanno redditi elevati. "Dicono che abbia un costo di 50
miliardi di euro l'anno. Ho un timore, se lo annoti e poi vedremo se ho
ragione: non se ne farà nulla, e diranno che è stata colpa del presidente della
Repubblica o del governatore della Banca d'Italia, in modo da nascondere il
fallimento. Non voglio dare l'idea di essere contro qualcosa o contro qualcuno.
Vorrei solo dire che, in una fase come questa, il presidente della Repubblica
rappresenta tutti gli italiani".
Per un'azienda come Prada, che opera a
livello globale, i fronti caldi dal punto di vista politico sembrano numerosi.
Penso alla guerra dei dazi, che vede l'amministrazione americana in prima fila.
Teme ripercussioni? "Non sono preoccupato, guardo le cose in prospettiva.
Ho parlato di recente con l'economista cinese Justin Yifu Lin. Mi ha raccontato
di essere tornato a casa nel 1988, dopo aver studiato e lavorato all'estero.
Arrivato a Pechino c'erano solto due auto private, di cui una era sua. In Cina
la generazione dei millennials, quelli che sono arrivati all'età adulta dopo il
2000, è la prima che ha davvero la possibilità di consumare, di vivere in modo
nettamente migliore rispetto ai propri genitori. Per questo sono così
aggressivi sui mercati. Magari la "generazione Z", i ragazzi nati
dopo il 2000, svilupperanno un modo di vivere diverso. Li stiamo già studiando,
vogliamo capire come coinvolgerli".
Non temete che l'offensiva di Trump possa
rallentare la crescita della Cina? "Forse un impatto ci sarà ma i loro
economisti sembrano tranquilli, pensano che si svilupperanno nuove rotte
commerciali. Sono fenomeni complessi, ci sono risvolti che è impossibile
conoscere o prevedere. Però è un sistema che ha enormi spazi di crescita. In
Cina soltanto 170 milioni di persone hanno il passaporto, e ogni anno aumentano
di 16,5 milioni. Il mercato del lusso globale vale 262 miliardi e, di questi,
soltanto l'8 per cento è realizzato in Cina. Ma se si si guarda la nazionalità
dei compratori, indipendentemente dove sono effettuate le vendite, la quota
cinese è molto più elevata, il 32 per cento, perché il loro turismo
internazionale è in forte espansione, viaggiano moltissimo. Anche i nostri
numeri riflettono questi fenomeni: il 20 per cento delle vendite di Prada sono
fatte in Cina, ma complessivamente le vendite a clienti cinesi rappresentano il
36 per cento del totale".
Vi siete mossi in maniera adeguata per
rispondere a questo mercato? Nel 2017 le vendite nell'area Asia-Pacifico sono
lievemente diminuite. "Forse pensavamo di poter crescere in maniera più
tranquilla, e invece ci siamo ritrovati costretti a correre di più. Adesso
stiamo lavorando, e allo stesso tempo cerchiamo di non commettere l'errore più
grande, che sarebbe pensare di poterci muovere come colonizzatori. In Cina
abbiamo 1.200 collaboratori, tutto personale locale, stiamo cercando di
integrarci sempre più".
Gucci, il fenomeno della moda di questi
ultimi anni, sta crescendo moltissimo, anche in Cina. Si rimprovera di non aver
saputo fare meglio? "Forse siamo stati più conservativi, mentre loro hanno
colto in pieno le aspettative dei millennials. Ma sono fasi cicliche, magari
noi ci muoveremo prima e meglio con le nuove generazioni".
Prada è sempre stata una scuola di manager,
cresciuti da voi e poi arrivati al top in altre aziende. Oggi pensate di avere
nel vostro team le persone giuste per il futuro o potreste pescare qualcuno
fuori dal gruppo? "Mi creda, non invidio nessuno, anzi considero l'invidia
una cosa bruttissima. Stiamo lavorando, abbiamo le persone giuste, i segnali
sono tutti positivi".
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