Da “Il treno
dei desideri cambiati” di Michele Smargiassi, pubblicato sul settimanale “Il
Venerdì” del 25 di maggio 2018: Il treno dei desideri era giallino di sopra
e rosso di sotto, aveva otto carrozze e un muso tondo da scimmietta. Partiva
alle 7.40 dalla stazione Centrale di Milano e arrivava alle 11.30 a Sanremo, in
tempo per la prima grigliata di pesce. Il Trans Europ Express 48
"Ligure", una delle glorie delle ferrovie italiane, il treno delle
vacanze, la tradotta euforica delle trasferte balneari dei milanesi in Riviera,
non andava affatto all'incontrario nel 1968, anzi. Quelle tre ore e cinquanta di
percorrenza erano una performance eccellente. Il suo erede di oggi, il Tello,
ci mette solo venti minuti di meno. Insomma anche allora il marito in città che
pativa nostalgia della moglie in vacanza poteva correre da "lei, partita
per le spiagge" in meno di mezza giornata. Quell'Italia del Sessantotto
era azzurra, troppo azzurra, ma in fondo non così lunga. Non era un paese
rimasto all'Ottocento. C'erano treni già piuttosto veloci, l'Autostrada del
Sole aveva legato Milano a Roma quattro anni prima. L'aeroplano che fischia
sopra i tetti era ancora una metafora di viaggi di lusso, ma via terra,
volendo, ci si poteva spostare con tempi paragonabili a quelli di oggi.
Volendo. Ma lo volevamo davvero? Il baratro di mezzo secolo che ci separa
dall'Italia di Azzurro, mirabile elegia musicale socio-psicologica di Paolo
Conte, non è fatto di siderali progressi tecnologici che rendono praticabili
oggi, subito, i desideri che ieri erano impossibili. Quegli interminabili
abbacinati pomeriggi di domenica estiva urbana non erano la conseguenza di una
arretratezza materiale, di una povertà di risorse materiali: non in quell'alba
radiosa di consumismo inebriante, di Seicento lucide, moplen infrangibili e
lavatrici servizievoli. Passeggiare in cortile, in silenzio, senza neppure
"un prete per chiacchierar", non era per niente obbligatorio. Il
telefono c'era. Su in casa, ok, sulla mensola del corridoio, legato al muro, ma
c'era: avendo voglia di chiacchierare, lo si poteva fare. Ma non lo facevamo.
Per molti anni ancora, solo due italiani su dieci avrebbero fatto più di una
telefonata al giorno. E solo una su cento era un'interurbana. E certo, allora
non eravamo connessi col mondo in qualsiasi momento, anche sotto l'oleandro e
il baobab giù in cortile. Ma la televisione, su in casa, intronata come un
altare nel buco del mobile del tinello, col centrino di pizzo sopra, c'era già
da ben quindici anni. Almeno in un appartamento su due. Centosessanta
abbonamenti tv ogni mille abitanti. Potevi scegliere solo tra Primo Canale e
Secondo Programma, d'accordo, ma qualcosa da guardare per interrompere la noia
c'era. Volendo. Ma volevamo? Non era un diverso rapporto con le cose, quello
che la voce di Celentano nel vero inno nazionale dell'Italia del benessere ci
riporta alla memoria con l'irruenza irrazionale di una madeleine proustiana.
Era un diverso rapporto col tempo. Che era una risorsa naturale abbondante,
ecologica, non esauribile, almeno così ci sembrava. L'interminabile monotonia
di un pomeriggio assolato è il sapore agrodolce che qualsiasi bambino
posteggiato a casa dei nonni ha conservato nel frigorifero della memoria.
Quella noia svogliata di una sedia a sdraio, di un libro leggiucchiato nella
frescura di un giardino, tra l'ipnosi meridiana delle cicale, che Luca
Guadagnino ha saputo magistralmente rievocare nel suo Chiamami col tuo nome. La
noia è un lusso della gioventù, età azzurra. Gioventù degli individui, ma anche
delle società. Quell'Italia partorita dalla guerra era ancora un paese giovane.
Poter scialare con munificenza il tempo, questo era l'otium dei romani, è la
vera ricchezza di chi il tempo sente di averlo tutto davanti, e ha la
ragionevole certezza che il tempo che alla fine arriverà sarà generoso. Perché
mettergli fretta? Pur avendo passato l'esame di maturità, i ragazzi aspettavano
senza scalpitare troppo il ventunesimo compleanno per poter votare, o anche
solo per poter firmare un documento. Intanto accettavano con benevolo fatalismo
e anche un po' di divertimento un anno perso di inutile naja, questo prelievo
fiscale dello Stato di una percentuale di giovinezza. Ci stava. Ci sarebbe
stato tutto il tempo, più avanti, per assolvere gli obblighi sociali. Intanto,
scialla...
L'Italia giovane scialava il tempo, perché sciallava. Il tempo degli anni Sessanta era più largo delle cose con cui lo si riempiva. Solo tre italiani su dieci leggevano quotidiani, solo 17 su cento leggevano un libro (c'erano libri solo in una casa su tre); solo tre su cento facevano sport in modo continuativo (oggi, uno su quattro). In vacanza, voglio dire la vacanza con il pernotto fuori casa, in albergo o in una casa affittata per le vacanze, solo uno su quattro ci andava per più di quattro giorni l'anno (oggi, uno su due). Se i vecchi si annoiano malinconicamente perché hanno già consumato tutto il tempo, l'Italia giovane aveva tutto il tempo davanti e poteva godersi la noia euforica di chi ne ha in abbondanza. La noia come suspence che riversa sull'attesa il momento fugace della sorpresa. I preliminari che allungano il piacere. Rapinata del proprio passato dalla guerra, una generazione si risarciva centellinando un presente senza minacce e differendo un futuro di certezze. Qualcosa stava accadendo, nel rapporto fra le generazioni. Non era solo che quelle nuove contestavano quelle vecchie. Succedeva questa cosa imprevedibile in natura, che le generazioni vecchie avevano meno bisogno di quelle nuove. Pochi anni prima del '68 era crollato il muro simbolico della natalità: la composizione media delle famiglie era scesa sotto la soglia critica delle quattro persone (3,6 nell'anno della rivolta generazionale), voleva dire che le coppie tendevano a fare meno di due figli a testa, rinunciavano a essere matematicamente rimpiazzate dagli eredi. Raggiunto il picco del baby boom, l'annuncio della decrescita demografica era il segno che, dopo essere stati figli, non si viveva più solo per i figli. Ci si poteva godere un lungo presente intermedio. "Che bella età, la mezza età", canticchiava Marcello Marchesi dal tubo catodico in bianco e nero. Difficile dire quando l'equilibrio si è rotto, e abbiamo sostituito l'attesa gratificante con l'impazienza ansiogena. La crescita del consumo di ansiolitici è costante e imponente da almeno un ventennio. Molto prima della grande crisi. C'entra il nostro rapporto con le cose, con il consumismo? L'esplosione del desiderio, l'ansia di acquisizione immediata? È la sindrome di Tantalo che ci ha fatto, letteralmente, perdere la pazienza? "Stanno annaffiando le tue rose", annota il solitario annoiato di Azzurro: a che punto abbiamo deciso che era meglio se il condominio comprava un impianto di irrigazione automatico? L'Italia del Sessantotto, tuttavia, consumava già. Cose diverse, però. Una lira su tre dal borsellino di mamma se ne andava in alimentari. Consumi in senso proprio. Mentre i beni durevoli erano soprattutto la casa, che durevole lo era davvero, era un investimento per la vita, per i figli. I beni durevoli di oggi durano poco. Sempre meno. Dall'auto al cellulare, appartengono a una terza categoria di beni: i beni obsolescenti. Il loro compito non è più entrare in servizio permanente effettivo, arredare a lungo le nostre vite là dove serve qualcosa di pratico; ma riempire i vuoti psicologici della nostra esistenza, che hanno cominciato a farci paura. La noia che ci aveva fatto compagnia, da dilazione zen del piacere cominciava a sembrarci pura rinuncia, angosciante perdita di piaceri e di occasioni. Più che le statistiche, qui serve la lucidità della memoria di Annie Ernaux, la scrittrice francese che ha fatto della biografia una scienza analitica. "Le persone non si chiedevano più a cosa servissero le cose", scrive nelle pagine dedicate agli anni Sessanta del suo bellissimo Gli anni, "avevano semplicemente voglia di possederle e soffrivano di non guadagnare abbastanza per potersele permettere subito". L'irruzione di quell'avverbio, subito, ha cambiato tutto, ha messo ansia alle nostre vite: lasciar passare il tempo era diventato sprecare tempo. Ogni minuto lasciato è perso. Ma questa corsa a riempire il vuoto davanti lasciava il vuoto dietro. "Il susseguirsi sempre più rapido degli oggetti faceva indietreggiare il passato", dice la saggia Ernaux. Non era più il treno dei desideri a viaggiare all'incontrario, ma quello del tempo: nell'ansia di perdere il futuro, abbiamo finito per regalare il presente al passato.
L'Italia giovane scialava il tempo, perché sciallava. Il tempo degli anni Sessanta era più largo delle cose con cui lo si riempiva. Solo tre italiani su dieci leggevano quotidiani, solo 17 su cento leggevano un libro (c'erano libri solo in una casa su tre); solo tre su cento facevano sport in modo continuativo (oggi, uno su quattro). In vacanza, voglio dire la vacanza con il pernotto fuori casa, in albergo o in una casa affittata per le vacanze, solo uno su quattro ci andava per più di quattro giorni l'anno (oggi, uno su due). Se i vecchi si annoiano malinconicamente perché hanno già consumato tutto il tempo, l'Italia giovane aveva tutto il tempo davanti e poteva godersi la noia euforica di chi ne ha in abbondanza. La noia come suspence che riversa sull'attesa il momento fugace della sorpresa. I preliminari che allungano il piacere. Rapinata del proprio passato dalla guerra, una generazione si risarciva centellinando un presente senza minacce e differendo un futuro di certezze. Qualcosa stava accadendo, nel rapporto fra le generazioni. Non era solo che quelle nuove contestavano quelle vecchie. Succedeva questa cosa imprevedibile in natura, che le generazioni vecchie avevano meno bisogno di quelle nuove. Pochi anni prima del '68 era crollato il muro simbolico della natalità: la composizione media delle famiglie era scesa sotto la soglia critica delle quattro persone (3,6 nell'anno della rivolta generazionale), voleva dire che le coppie tendevano a fare meno di due figli a testa, rinunciavano a essere matematicamente rimpiazzate dagli eredi. Raggiunto il picco del baby boom, l'annuncio della decrescita demografica era il segno che, dopo essere stati figli, non si viveva più solo per i figli. Ci si poteva godere un lungo presente intermedio. "Che bella età, la mezza età", canticchiava Marcello Marchesi dal tubo catodico in bianco e nero. Difficile dire quando l'equilibrio si è rotto, e abbiamo sostituito l'attesa gratificante con l'impazienza ansiogena. La crescita del consumo di ansiolitici è costante e imponente da almeno un ventennio. Molto prima della grande crisi. C'entra il nostro rapporto con le cose, con il consumismo? L'esplosione del desiderio, l'ansia di acquisizione immediata? È la sindrome di Tantalo che ci ha fatto, letteralmente, perdere la pazienza? "Stanno annaffiando le tue rose", annota il solitario annoiato di Azzurro: a che punto abbiamo deciso che era meglio se il condominio comprava un impianto di irrigazione automatico? L'Italia del Sessantotto, tuttavia, consumava già. Cose diverse, però. Una lira su tre dal borsellino di mamma se ne andava in alimentari. Consumi in senso proprio. Mentre i beni durevoli erano soprattutto la casa, che durevole lo era davvero, era un investimento per la vita, per i figli. I beni durevoli di oggi durano poco. Sempre meno. Dall'auto al cellulare, appartengono a una terza categoria di beni: i beni obsolescenti. Il loro compito non è più entrare in servizio permanente effettivo, arredare a lungo le nostre vite là dove serve qualcosa di pratico; ma riempire i vuoti psicologici della nostra esistenza, che hanno cominciato a farci paura. La noia che ci aveva fatto compagnia, da dilazione zen del piacere cominciava a sembrarci pura rinuncia, angosciante perdita di piaceri e di occasioni. Più che le statistiche, qui serve la lucidità della memoria di Annie Ernaux, la scrittrice francese che ha fatto della biografia una scienza analitica. "Le persone non si chiedevano più a cosa servissero le cose", scrive nelle pagine dedicate agli anni Sessanta del suo bellissimo Gli anni, "avevano semplicemente voglia di possederle e soffrivano di non guadagnare abbastanza per potersele permettere subito". L'irruzione di quell'avverbio, subito, ha cambiato tutto, ha messo ansia alle nostre vite: lasciar passare il tempo era diventato sprecare tempo. Ogni minuto lasciato è perso. Ma questa corsa a riempire il vuoto davanti lasciava il vuoto dietro. "Il susseguirsi sempre più rapido degli oggetti faceva indietreggiare il passato", dice la saggia Ernaux. Non era più il treno dei desideri a viaggiare all'incontrario, ma quello del tempo: nell'ansia di perdere il futuro, abbiamo finito per regalare il presente al passato.
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