Da “Il tempo
perso di Ingrao. Il valore della contemplazione” di Pietro Ingrao,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di giugno dell’anno 2017: (…). Io
nutro ancora una speranza, la mia unica speranza, senza la quale sarei
veramente disperato: che le cose possano cambiare. Nel corso della mia lunga
vita ho ricevuto tanto dagli altri, ben più di quanto meritassi, per cui non ho
una visione funerea dell’attuale società. Credo però che effettivamente si sia
aperta una grande questione, che si prospetti un grave pericolo. Io sono
vissuto tutta una vita nella lotta per la tutela e la salvezza del lavoro, di
quel grande fatto umano che è il lavoro. Fin da bambino ho imparato che il
valore dell’esistenza era inscindibilmente legato al lavoro. Sono del resto due
secoli che si parla di espressione della propria identità nel lavoro: è un
concetto che accomuna capitalisti e comunisti. Anche nella cristologia si
possono trovare visioni simili. Ora, tuttavia - (…) -, sento sorgere un dubbio su questa scala
di valori, che in passato ritenevo tanto assoluta. Un evento fondamentale è
stato per me lo sviluppo della macchina, prodotto dell’industria moderna. Chi
verrà dopo di noi scriverà che nel XX secolo le macchine hanno straripato, si
sono diffuse inondando il mondo, a seguito di una rivoluzione sconvolgente che
ha posto al suo centro l’atto meccanico del produrre. Io sono stato addentro a
questa logica e ho combattuto questa battaglia. Ora, però, temo che tutti
dormano, che si siano dimenticati momenti ulteriori dell’esperienza umana, che
ritengo invece essenziali al pari del lavoro. Ciò significa che è necessario un
grande passo in avanti. Non basta più chiedere una ulteriore settimana di
vacanza, bisogna invece spostare l’intero asse dei valori. Non bisogna più
avere soltanto la scala del reddito medio o minimo, oppure del tempo con cui si
produce qualcosa. Mi spavento quando sento il poco valore assegnato alla
“perdita di tempo”, quando vedo l’inganno che rappresenta l’espressione stessa:
“perdita di tempo”. Allo stesso modo mi spaventa il disprezzo verso il
notturno, verso quel che è l’io, che a me pare una soglia e che è in fondo
l’aprirsi di un’altra sfera, il liberarsi di qualcosa di sé, inteso però anche
nel suo senso più preciso e letterale, come disse Freud. Mi spaventa una
società che non se ne cura, che lo manda al diavolo se la macchina ha bisogno
di lavorare durante la notte. Al diavolo però vanno non solo le ore che si
perdono, poiché non si tratta soltanto di quantità di tempo: è la qualità di
quel tempo a essere perduta. Si perdono l’inoltrarsi nel sogno, il vagabondare,
il contemplare. Di nuovo, il contemplare.
Come ho detto, sono ateo, ma credo che l’esperienza dei cristiani sia importante per comprendere meglio questa dimensione. Cosa guardano, ad esempio, tutti i grandi mistici della storia cristiana? Cosa fissano? Per me contemplare è una parola multipla, polisensa. Qual è il suo reale significato? Guardare l’oltre? Rispecchiare? È o non è un elemento attivo? È solo rispecchiamento dell’oltre o è anche un’attività? E di che tipo, allora? Ho citato la bella espressione di Leopardi, “sedendo e mirando”, il cui fascino si vive grazie alla cadenza del verso. Non dice però “guardando”, bensì “mirando”. Mirare è cosa diversa dal guardare, c’è di più. Come lo raccontiamo? Come lo spieghiamo? E come lo spiegano i credenti? È poi importante anche l’utilizzo del gerundio, usato pure nel Canto notturno, che ha una sua temporalità, indica il prolungamento di questo stato. La contemplazione è quindi una particolare forma di rapporto, di sguardo, ma è anche un modo di durare di questo sguardo. Tant’è che il pastore errante attraversa i deserti, come il monaco contempla nel cenobio.
Come ho detto, sono ateo, ma credo che l’esperienza dei cristiani sia importante per comprendere meglio questa dimensione. Cosa guardano, ad esempio, tutti i grandi mistici della storia cristiana? Cosa fissano? Per me contemplare è una parola multipla, polisensa. Qual è il suo reale significato? Guardare l’oltre? Rispecchiare? È o non è un elemento attivo? È solo rispecchiamento dell’oltre o è anche un’attività? E di che tipo, allora? Ho citato la bella espressione di Leopardi, “sedendo e mirando”, il cui fascino si vive grazie alla cadenza del verso. Non dice però “guardando”, bensì “mirando”. Mirare è cosa diversa dal guardare, c’è di più. Come lo raccontiamo? Come lo spieghiamo? E come lo spiegano i credenti? È poi importante anche l’utilizzo del gerundio, usato pure nel Canto notturno, che ha una sua temporalità, indica il prolungamento di questo stato. La contemplazione è quindi una particolare forma di rapporto, di sguardo, ma è anche un modo di durare di questo sguardo. Tant’è che il pastore errante attraversa i deserti, come il monaco contempla nel cenobio.
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