Da “La peste
della memoria inutile” di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 25 di maggio dell’anno 2017: «Essi provavano la sofferenza
profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati: quella di vivere con
una memoria che non serve a niente". In queste parole taglienti Albert
Camus ha condensato non solo il dolore, ma la trama quotidiana della città
appestata (Orano) che aveva scelto come osservatorio del mondo. Da Tucidide in
poi, la narrazione della peste che affligge una città e la isola dal mondo è
stata un esercizio letterario ricorrente, ma La peste di Camus ha una forza
speciale, perché la descrizione e il decorso del morbo vi sono concepiti come
una potente allegoria politica, che legittima la narrazione proprio mentre
svuota l’apparente verità del racconto. Come lo stesso autore ha scritto pochi
anni dopo, “il contenuto evidente del libro è la lotta della resistenza europea
contro il nazismo”: in questa luce, personaggi e fatti del romanzo agiscono
come gli atomi o come le sillabe di un’unica, estesa metafora che corre per
tutte le pagine del libro. Abitanti e autorità di Orano dapprima non vogliono
neppur vedere gli indizi del flagello che li decimerà, poi esitano a dargli un
nome, e quando osano pronunciare la parola “peste” hanno già piegato la testa,
imparando a convivere con essa. La rimuovono due volte, prima perché rifiutano
di prenderne coscienza, poi perché la ritengono ineluttabile e vi si
rassegnano. Se la crisi dei valori che viviamo è come una peste che sta
serpeggiando e che non vogliamo riconoscere; se non sappiamo vedere la vastità
e la natura di un tracollo dei valori culturali che si nasconde così bene
dietro indici di Borsa e invocazioni al “realismo” e al “pragmatismo”; se
accettiamo a testa china una politica che devasta città e paesaggi, condanna i
nuovi poveri, relega al margine le istituzioni culturali, crea“generazioni
perdute” di giovani senza lavoro, esilia la giustizia e l’equità; se tutto
questo è vero, e se è solo l’inizio di un processo destinato a radicarsi e a
crescere, proviamo a rileggere in questa luce la diagnosi di Camus. Sarà ormai,
la nostra, “una memoria che non serve a niente”? Ma che cosa è la memoria
culturale di una società come la nostra, in cui gli esseri umani e le loro
culture si mescolano con ritmo disordinato ma incalzante? In questo nuovo
orizzonte, che troppo spesso rimuoviamo dalla coscienza, quella che rischia
davvero di non servire più a niente è prima di tutto la memoria degli
immigrati, che dalle profondità del loro esilio non vedono più intorno a sé i
punti di riferimento che fino a ieri erano familiari e rassicuranti. La loro,
nei termini di Camus, è la “memoria degli esuli”. Ma accanto agli esuli, e
condividendo nel lungo periodo il loro destino, ci siamo anche “noi”,
prigionieri di una crisi senza fine e senza nome. E anche la “memoria dei
prigionieri” finirà col non servire a niente se accantoniamo senza nemmeno
accorgercene le nostre coordinate più familiari: la forma della città e dei
paesaggi, la cura della dignità umana, la priorità del bene comune, la
giustizia sociale, l’eguaglianza, il diritto al lavoro, la democrazia. Sotto il
cupo ombrello della crisi, prigionieri ed esuli si somigliano e si affratellano
senza saperlo: gli uni e gli altri inseguono briciole di benessere (che
coincidono coi rituali del consumo), e intanto perdono il loro tesoro più
prezioso, la memoria. O meglio la conservano, ma come un arnese desueto da
riporre in soffitta. “Vivere con una memoria che non serve a niente” comporta
una sofferenza profonda (questa la parola di Camus), ma non sempre acuta: perciò
al basso continuo di questa deprivazione incessante ci abituiamo, ci facciamo
il callo.
E la peste si diffonde, seminando quella morte morale che si chiama rassegnazione, indifferenza, cinismo. La nave all’orizzonte (minacciosa e invisibile), le rovine, la peste: metafore che nascono da una preoccupazione, ma sono alimentate dalla speranza. Una speranza che esige una memoria che serva a qualche cosa, e dalla quale qualche cosa si possa ricostruire, qualche cosa di nuovo si possa creare. In un itinerario che corre fra rovina e rinascita, la cultura e la bellezza, il pensiero analitico e la consapevolezza storica sono ingredienti essenziali. Ma quale memoria ci soccorrerà su questo cammino? L’idea di rinascita dalle rovine, a cui abbiamo fatto appello, non è forse per sua natura squisitamente eurocentrica? Richiamarsi a essa non equivale a immaginare una “fortezza Europa”, entro la quale “noi” (i prigionieri) possiamo sperare in una qualche salvezza, a cui “gli altri” (gli esuli) debbano restare estranei? Evocare una tradizione fatta di decadenze e di rinascite, secondo un ritmo così tipicamente europeo, non rischia di alzare una barriera fra i prigionieri e gli esuli? Il Rinascimento europeo è stato condannato senza appello, in anni recenti, da una tendenza politically correct che lo ha considerato una millanteria auto-celebratoria, colorata di arrogante eurocentrismo (o anche di nazionalismo, quando se ne rivendichi l’origine italiana). A questo “rinascimento trionfante”, che comporterebbe l’esclusione degli illetterati e dei colonizzati, si è voluta opporre l’immagine di una non triumphant Renaissance caratterizzata a partire dalle periferie e dal basso, o meglio ancora ridotta a pura etichetta cronologica (spesso sostituita da Early Modern, come se Renaissance fosse ormai un termine imbarazzante). “Rinascimento”è in tal modo diventato sinonimo di “alta cultura” o di elitismo, una sorta di preteso monopolio europeo da respingere a ogni costo. È anche per questo che si è intensificato l’uso del termine per definire periodi di particolare fioritura delle civiltà più varie, dall’epoca Song in Cina (960-1279) alla Harlem Renaissance in America (negli anni Venti del Novecento). Ma questo slittamento lessicale ha due gravi svantaggi: da un lato, oscura e consegna all’oblio la potente metafora di una nuova nascita, da cui Rinascimento ebbe origine; dall’altro lato, ricicla la parola riducendola a un’etichetta con particolari connotazioni di prestigio, e per questo da applicarsi tal quale anche fuori d’Europa. Torna qui, sotto altra forma, il modello storiografico che considera il Rinascimento come nascita della modernità, e cercare altri rinascimenti in altre culture corrisponde al desiderio di metterle al passo con gli orizzonti culturali europei; di rivendicare la loro presenza, accanto all’Europa, intorno alla culla del capitalismo, tacitamente considerato come il modello vincente.
E la peste si diffonde, seminando quella morte morale che si chiama rassegnazione, indifferenza, cinismo. La nave all’orizzonte (minacciosa e invisibile), le rovine, la peste: metafore che nascono da una preoccupazione, ma sono alimentate dalla speranza. Una speranza che esige una memoria che serva a qualche cosa, e dalla quale qualche cosa si possa ricostruire, qualche cosa di nuovo si possa creare. In un itinerario che corre fra rovina e rinascita, la cultura e la bellezza, il pensiero analitico e la consapevolezza storica sono ingredienti essenziali. Ma quale memoria ci soccorrerà su questo cammino? L’idea di rinascita dalle rovine, a cui abbiamo fatto appello, non è forse per sua natura squisitamente eurocentrica? Richiamarsi a essa non equivale a immaginare una “fortezza Europa”, entro la quale “noi” (i prigionieri) possiamo sperare in una qualche salvezza, a cui “gli altri” (gli esuli) debbano restare estranei? Evocare una tradizione fatta di decadenze e di rinascite, secondo un ritmo così tipicamente europeo, non rischia di alzare una barriera fra i prigionieri e gli esuli? Il Rinascimento europeo è stato condannato senza appello, in anni recenti, da una tendenza politically correct che lo ha considerato una millanteria auto-celebratoria, colorata di arrogante eurocentrismo (o anche di nazionalismo, quando se ne rivendichi l’origine italiana). A questo “rinascimento trionfante”, che comporterebbe l’esclusione degli illetterati e dei colonizzati, si è voluta opporre l’immagine di una non triumphant Renaissance caratterizzata a partire dalle periferie e dal basso, o meglio ancora ridotta a pura etichetta cronologica (spesso sostituita da Early Modern, come se Renaissance fosse ormai un termine imbarazzante). “Rinascimento”è in tal modo diventato sinonimo di “alta cultura” o di elitismo, una sorta di preteso monopolio europeo da respingere a ogni costo. È anche per questo che si è intensificato l’uso del termine per definire periodi di particolare fioritura delle civiltà più varie, dall’epoca Song in Cina (960-1279) alla Harlem Renaissance in America (negli anni Venti del Novecento). Ma questo slittamento lessicale ha due gravi svantaggi: da un lato, oscura e consegna all’oblio la potente metafora di una nuova nascita, da cui Rinascimento ebbe origine; dall’altro lato, ricicla la parola riducendola a un’etichetta con particolari connotazioni di prestigio, e per questo da applicarsi tal quale anche fuori d’Europa. Torna qui, sotto altra forma, il modello storiografico che considera il Rinascimento come nascita della modernità, e cercare altri rinascimenti in altre culture corrisponde al desiderio di metterle al passo con gli orizzonti culturali europei; di rivendicare la loro presenza, accanto all’Europa, intorno alla culla del capitalismo, tacitamente considerato come il modello vincente.
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