Da “Chi più
ha meno dà” di Paolo Biondani, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 21
di maggio 2018: (…). I padri della nostra Costituzione, nel 1948, avevano disegnato un
sistema fiscale opposto: il principio base, fissato dall’articolo 53 della
legge fondamentale, è la progressività. Significa che i ricchi devono pagare
più tasse dei poveri. E il fisco deve seguire questa via maestra per
raggiungere obiettivi di equità, giustizia sociale e crescita economica
duratura.
Per capirlo basta cambiare esempio e sostituire all’evanescenza della goccia la concretezza del cibo. Se una famiglia ricca ha mille pagnotte e lo Stato gliene preleva metà, con le altre cinquecento può continuare a ingrassare, far festa e magari lasciarne ammuffire gran parte in dispensa.
Ma se in casa c’è solo una misera pagnotta e le tasse se ne portano via mezza, la famiglia povera la consuma tutta e soffre comunque la fame. Nella storia dell’economia, questo concetto si chiama “utilità marginale”: il valore del primo pezzo di ricchezza è altissimo, mentre per ogni aumento successivo continua a scendere. Per capirlo non c’è bisogno di lauree: basta il buon senso. Al mercato la millesima pagnotta si vende allo stesso prezzo, ma vale infinitamente meno della prima, quella che ci fa sopravvivere. Per questo, in un’Italia uscita distrutta dalla Seconda guerra mondiale, la Costituzione aveva imposto a tutti i governanti, presenti e futuri, un sistema progressivo: chi ha di più, deve versare di più. Giusto ed efficiente, hanno scritto e ripetuto generazioni di studiosi.
Il quadro previsto dai politici migliori della nostra storia, però, è diventato realtà con un quarto di secolo di ritardo, nel 1974. E da allora è stato modificato e distorto da più di 200 leggine. Al punto che oggi il professor Franco Gallo, ex presidente della Corte Costituzionale, parla di «un sistema fiscale incrostato, al collasso, che favorisce chi più ha e ormai non è più né generale né progressivo». La storica riforma del 1974, intitolata al compianto ministro repubblicano Bruno Visentini, è quella che ha creato l’Irpef: un’unica imposta generale, cioè applicabile a tutte le persone, e fortemente progressiva, con tasse che salgono all’aumentare dei redditi. L’Irpef è tuttora basata su quel sistema a gradini, chiamati scaglioni: per i più poveri, niente tasse. Poi, per ogni fetta aggiuntiva di reddito, la percentuale di prelievo (l’aliquota) sale. La scala originaria aveva ben 32 gradini e per i più ricchi l’aliquota arrivava al 72 per cento. Rispetto alla precedente stratificazione disordinata di imposte statali e locali, il sistema originario era molto semplificato: la tassa è unica, conta solo il livello di reddito, con poche detrazioni e deduzioni (cioè tagli di imposte applicabili solo ad alcune categorie). Oggi l’Irpef continua ad essere la tassa più pagata dagli italiani, ma la sua struttura è stata stravolta. La differenza più vistosa è che in cima alla piramide, per i più ricchi, le imposte sono scese al 43 per cento. Mentre le aliquote si sono ridotte a cinque in tutto: per subire i livelli di tassazione più alti del mondo (dal 38 per cento in su) in Italia basta superare il gradino dei 28 mila euro lordi all’anno, tredicesima compresa. Il risultato è che la classe media è stritolata. Ad aggravare il problema è l’evasione fiscale, che in Italia è enorme: il 13,5 per cento del Pil, secondo un famoso studio della Banca d’Italia, che ha confrontato i consumi effettivi registrati dall’Istat con i redditi dichiarati al fisco. Questo significa che gli italiani onesti pagano anche per gli evasori: circa cento miliardi in più. E che il grosso dell’Irpef (82 per cento) si scarica sul popolo dei lavoratori dipendenti (52 per cento) e pensionati (30), che non possono evadere. «Di fronte alla crisi economica che stiamo vivendo», commenta Gallo, il massimo esperto di Costituzione e fisco, «bisognerebbe ridisegnare, anzi ricostruire la curva della progressività, per rimediare all’eccesso di pressione fiscale sui redditi di una classe media sempre più impoverita. Invece si continua a sottrarre tassazione all’Irpef con aliquote fisse e imposte sostitutive, che sono il contrario della progressività, dell’equità fiscale e della giustizia sociale». Tranne l’Irpef, che nel 2016 ha portato nelle casse dello Stato 166 miliardi di euro, tutte le altre tasse sono regressive. Cioè non distinguono tra ricchi e poveri: si paga sempre la stessa percentuale. E senza regole generali: decine di categorie hanno ottenuto privilegi e sconti dai governi amici. Il nostro sistema fiscale è diventato la giungla delle aliquote. Da sempre i meno tassati sono i redditi da capitale: rendite finanziarie, utili societari, guadagni di Borsa. L’aliquota più diffusa è del 26 per cento. Quindi il ricchissimo investitore che incassa dividendi milionari paga meno tasse della sua impiegata, che sopra uno stipendio di 2.153 euro al mese (lordi) deve sborsare il 27 per cento. Il miliardario americano Warren Buffett, nel 2011, scrisse al New York Times che gli sembrava ingiusto versare metà dell’aliquota dei suoi impiegati (17 per cento contro 33). L’iniquità fiscale però non spaventa i politici italiani, che invece di aumentare hanno tagliato l’aliquota ai capitalisti (era al 27,5). Sui titoli di Stato si scende al 12,5 per cento, anche qui senza differenziare tra il possidente che accumula decine di milioni e il pensionato con poche migliaia di euro. Anche i premi di produttività sono usciti dall’Irpef, con un’aliquota unica del 10 per cento che vale sia per i super-bonus dei manager sia per i miseri incentivi concessi, se la fabbrica va bene, all’operaio siderurgico. Al padrone di una società che vende la sua quota va ancora meglio: può pagare un’imposta sostitutiva dell’8 per cento. Senza distinzioni tra chi incassa plusvalenze stratosferiche e il piccolo imprenditore che cede l’aziendina di famiglia. I guadagni di una vita di lavoro pesano come un clic al computer di uno speculatore di Borsa. Agli studiosi non resta che misurare l’aumento dei privilegi e delle disuguaglianze. «La riduzione o azzeramento delle tasse sui redditi da capitale è una tendenza che si è estesa a tutto il mondo dagli anni Novanta ed è collegata alla globalizzazione», spiega Luciano Greco, docente di scienza delle finanze e direttore del centro di ricerca sull’economia pubblica delle università di Padova, Venezia e Verona. «Di fronte alla mobilità dei capitali finanziari, gli Stati reagiscono con una concorrenza fiscale al ribasso. Nel 1990 si contavano 12 paesi dell’Ocse con un’imposta generale sulla ricchezza netta, oggi ne restano solo quattro». Le tasse sui patrimoni, cioè sulla ricchezza totale anziché sui redditi annui, in Italia passano per un’idea vetero-comunista, anche se tra i fautori spicca Luigi Einaudi, capo dello Stato negli anni della ricostruzione, che proponeva di tassare i capitali improduttivi e i latifondi agrari, per spingere i possidenti a creare imprese e lavoro. «Il dibattito sulla tassazione dei capitali segna la storia dell’economia moderna, il primo scontro oppose David Ricardo, che era favorevole, a Malthus, contrario», fa notare il professor Greco. «I paesi dove è nato il capitalismo hanno tuttora imposte rilevanti sulle proprietà immobiliari e sulle successioni». Rispetto all’Italia, negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia si paga il doppio o il triplo di tasse sulla casa, con aliquote fino a otto volte superiori per eredità o donazioni. E queste imposte pagate dai figli di papà, ovviamente, riducono i carichi fiscali su lavoro e imprese.
Il tradimento della giustizia fiscale promessa dalla nostra Costituzione si completa con altre grandi imposte regressive. L’Iva ha tre aliquote fisse, dal 4 al 22 per cento, che variano secondo il prodotto, non in base alla quantità acquistata o al reddito, come le accise sulla benzina: due entrate da 130 miliardi, quasi come l’Irpef. I contributi che servono a pagare le pensioni e gli assegni sociali valgono oltre 220 miliardi, si sommano alle tasse sul lavoro e sulle imprese (formando l’insostenibile cuneo fiscale), ma non sono progressivi: c’è un’altra giungla di aliquote proporzionali fisse, che dipendono solo dal tipo di attività. Indifferenti alla ricchezza dei contribuenti sono anche le addizionali Irpef regionali e comunali (16 miliardi) e la cedolare secca sugli affitti, ferma al 21 per cento sia per il mono-proprietario che per il palazzinaro con decine di immobili. E in agricoltura i redditi non vanno neppure dichiarati: le tasse si calcolano su astratti valori catastali (estimi), bassissimi, varati nell’Italia dei mezzadri e dei pastori, ma applicabili anche ai moderni viticoltori doc con auto di lusso, camerieri, villa e piscina. In questa giungla di tartassati e di privilegiati, l’avvocato Sebastiano Stufano, uno dei migliori tributaristi italiani, vede una sola via d’uscita, rivoluzionare il sistema: «Sarebbe giusto e più efficiente ridurre le imposte sul lavoro e sulle imprese, senza cedolari o imposte sostitutive, per aumentare la tassazione sui grandi patrimoni, sulle ricchezze improduttive, possedute da chi non ha fatto nulla per generarle. Un sistema progressivo generale favorirebbe la crescita economica e risponderebbe ai principi di equità e redistribuzione dei redditi codificati dalla Costituzione».
Per capirlo basta cambiare esempio e sostituire all’evanescenza della goccia la concretezza del cibo. Se una famiglia ricca ha mille pagnotte e lo Stato gliene preleva metà, con le altre cinquecento può continuare a ingrassare, far festa e magari lasciarne ammuffire gran parte in dispensa.
Ma se in casa c’è solo una misera pagnotta e le tasse se ne portano via mezza, la famiglia povera la consuma tutta e soffre comunque la fame. Nella storia dell’economia, questo concetto si chiama “utilità marginale”: il valore del primo pezzo di ricchezza è altissimo, mentre per ogni aumento successivo continua a scendere. Per capirlo non c’è bisogno di lauree: basta il buon senso. Al mercato la millesima pagnotta si vende allo stesso prezzo, ma vale infinitamente meno della prima, quella che ci fa sopravvivere. Per questo, in un’Italia uscita distrutta dalla Seconda guerra mondiale, la Costituzione aveva imposto a tutti i governanti, presenti e futuri, un sistema progressivo: chi ha di più, deve versare di più. Giusto ed efficiente, hanno scritto e ripetuto generazioni di studiosi.
Il quadro previsto dai politici migliori della nostra storia, però, è diventato realtà con un quarto di secolo di ritardo, nel 1974. E da allora è stato modificato e distorto da più di 200 leggine. Al punto che oggi il professor Franco Gallo, ex presidente della Corte Costituzionale, parla di «un sistema fiscale incrostato, al collasso, che favorisce chi più ha e ormai non è più né generale né progressivo». La storica riforma del 1974, intitolata al compianto ministro repubblicano Bruno Visentini, è quella che ha creato l’Irpef: un’unica imposta generale, cioè applicabile a tutte le persone, e fortemente progressiva, con tasse che salgono all’aumentare dei redditi. L’Irpef è tuttora basata su quel sistema a gradini, chiamati scaglioni: per i più poveri, niente tasse. Poi, per ogni fetta aggiuntiva di reddito, la percentuale di prelievo (l’aliquota) sale. La scala originaria aveva ben 32 gradini e per i più ricchi l’aliquota arrivava al 72 per cento. Rispetto alla precedente stratificazione disordinata di imposte statali e locali, il sistema originario era molto semplificato: la tassa è unica, conta solo il livello di reddito, con poche detrazioni e deduzioni (cioè tagli di imposte applicabili solo ad alcune categorie). Oggi l’Irpef continua ad essere la tassa più pagata dagli italiani, ma la sua struttura è stata stravolta. La differenza più vistosa è che in cima alla piramide, per i più ricchi, le imposte sono scese al 43 per cento. Mentre le aliquote si sono ridotte a cinque in tutto: per subire i livelli di tassazione più alti del mondo (dal 38 per cento in su) in Italia basta superare il gradino dei 28 mila euro lordi all’anno, tredicesima compresa. Il risultato è che la classe media è stritolata. Ad aggravare il problema è l’evasione fiscale, che in Italia è enorme: il 13,5 per cento del Pil, secondo un famoso studio della Banca d’Italia, che ha confrontato i consumi effettivi registrati dall’Istat con i redditi dichiarati al fisco. Questo significa che gli italiani onesti pagano anche per gli evasori: circa cento miliardi in più. E che il grosso dell’Irpef (82 per cento) si scarica sul popolo dei lavoratori dipendenti (52 per cento) e pensionati (30), che non possono evadere. «Di fronte alla crisi economica che stiamo vivendo», commenta Gallo, il massimo esperto di Costituzione e fisco, «bisognerebbe ridisegnare, anzi ricostruire la curva della progressività, per rimediare all’eccesso di pressione fiscale sui redditi di una classe media sempre più impoverita. Invece si continua a sottrarre tassazione all’Irpef con aliquote fisse e imposte sostitutive, che sono il contrario della progressività, dell’equità fiscale e della giustizia sociale». Tranne l’Irpef, che nel 2016 ha portato nelle casse dello Stato 166 miliardi di euro, tutte le altre tasse sono regressive. Cioè non distinguono tra ricchi e poveri: si paga sempre la stessa percentuale. E senza regole generali: decine di categorie hanno ottenuto privilegi e sconti dai governi amici. Il nostro sistema fiscale è diventato la giungla delle aliquote. Da sempre i meno tassati sono i redditi da capitale: rendite finanziarie, utili societari, guadagni di Borsa. L’aliquota più diffusa è del 26 per cento. Quindi il ricchissimo investitore che incassa dividendi milionari paga meno tasse della sua impiegata, che sopra uno stipendio di 2.153 euro al mese (lordi) deve sborsare il 27 per cento. Il miliardario americano Warren Buffett, nel 2011, scrisse al New York Times che gli sembrava ingiusto versare metà dell’aliquota dei suoi impiegati (17 per cento contro 33). L’iniquità fiscale però non spaventa i politici italiani, che invece di aumentare hanno tagliato l’aliquota ai capitalisti (era al 27,5). Sui titoli di Stato si scende al 12,5 per cento, anche qui senza differenziare tra il possidente che accumula decine di milioni e il pensionato con poche migliaia di euro. Anche i premi di produttività sono usciti dall’Irpef, con un’aliquota unica del 10 per cento che vale sia per i super-bonus dei manager sia per i miseri incentivi concessi, se la fabbrica va bene, all’operaio siderurgico. Al padrone di una società che vende la sua quota va ancora meglio: può pagare un’imposta sostitutiva dell’8 per cento. Senza distinzioni tra chi incassa plusvalenze stratosferiche e il piccolo imprenditore che cede l’aziendina di famiglia. I guadagni di una vita di lavoro pesano come un clic al computer di uno speculatore di Borsa. Agli studiosi non resta che misurare l’aumento dei privilegi e delle disuguaglianze. «La riduzione o azzeramento delle tasse sui redditi da capitale è una tendenza che si è estesa a tutto il mondo dagli anni Novanta ed è collegata alla globalizzazione», spiega Luciano Greco, docente di scienza delle finanze e direttore del centro di ricerca sull’economia pubblica delle università di Padova, Venezia e Verona. «Di fronte alla mobilità dei capitali finanziari, gli Stati reagiscono con una concorrenza fiscale al ribasso. Nel 1990 si contavano 12 paesi dell’Ocse con un’imposta generale sulla ricchezza netta, oggi ne restano solo quattro». Le tasse sui patrimoni, cioè sulla ricchezza totale anziché sui redditi annui, in Italia passano per un’idea vetero-comunista, anche se tra i fautori spicca Luigi Einaudi, capo dello Stato negli anni della ricostruzione, che proponeva di tassare i capitali improduttivi e i latifondi agrari, per spingere i possidenti a creare imprese e lavoro. «Il dibattito sulla tassazione dei capitali segna la storia dell’economia moderna, il primo scontro oppose David Ricardo, che era favorevole, a Malthus, contrario», fa notare il professor Greco. «I paesi dove è nato il capitalismo hanno tuttora imposte rilevanti sulle proprietà immobiliari e sulle successioni». Rispetto all’Italia, negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia si paga il doppio o il triplo di tasse sulla casa, con aliquote fino a otto volte superiori per eredità o donazioni. E queste imposte pagate dai figli di papà, ovviamente, riducono i carichi fiscali su lavoro e imprese.
Il tradimento della giustizia fiscale promessa dalla nostra Costituzione si completa con altre grandi imposte regressive. L’Iva ha tre aliquote fisse, dal 4 al 22 per cento, che variano secondo il prodotto, non in base alla quantità acquistata o al reddito, come le accise sulla benzina: due entrate da 130 miliardi, quasi come l’Irpef. I contributi che servono a pagare le pensioni e gli assegni sociali valgono oltre 220 miliardi, si sommano alle tasse sul lavoro e sulle imprese (formando l’insostenibile cuneo fiscale), ma non sono progressivi: c’è un’altra giungla di aliquote proporzionali fisse, che dipendono solo dal tipo di attività. Indifferenti alla ricchezza dei contribuenti sono anche le addizionali Irpef regionali e comunali (16 miliardi) e la cedolare secca sugli affitti, ferma al 21 per cento sia per il mono-proprietario che per il palazzinaro con decine di immobili. E in agricoltura i redditi non vanno neppure dichiarati: le tasse si calcolano su astratti valori catastali (estimi), bassissimi, varati nell’Italia dei mezzadri e dei pastori, ma applicabili anche ai moderni viticoltori doc con auto di lusso, camerieri, villa e piscina. In questa giungla di tartassati e di privilegiati, l’avvocato Sebastiano Stufano, uno dei migliori tributaristi italiani, vede una sola via d’uscita, rivoluzionare il sistema: «Sarebbe giusto e più efficiente ridurre le imposte sul lavoro e sulle imprese, senza cedolari o imposte sostitutive, per aumentare la tassazione sui grandi patrimoni, sulle ricchezze improduttive, possedute da chi non ha fatto nulla per generarle. Un sistema progressivo generale favorirebbe la crescita economica e risponderebbe ai principi di equità e redistribuzione dei redditi codificati dalla Costituzione».
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