La “borsa” muore, sembrava
essere l’angosciante pensiero/interrogativo che Marco Panara sollevava in una
Sua analisi pubblicata (2011) sul settimanale “Affari&Finanza” con il titolo
“Perché la Borsa non serve più”, analisi
che di seguito trascrivo in parte. Si dia per scontato che i tecnicismi propri
delle finanze e delle psuedo-scienze ad esse collegate non siano proprio una
gran bella “cosa”; sono impenetrabili a volte, sono aridi nella loro
comunicazione che vorrebbe essere neutra, non incantano con l’aridità dei
numeri e di quant’altro afferisca ad una teoria che vorrebbe farsi “scienza”.
Ma che, oltre certi limiti, non è “scienza”, mancando essa, accanto
all’esercizio della “predittività”, il fattore fondamentale del metodo galileiano, ovvero
la riproducibilità dei fenomeni a sostegno delle verifiche per le ipotesi di
scienza avanzate. Ma tant’è. All’uomo della strada non gliene importa proprio
della “borsa” o della finanza “creativa”, di tremontiana memoria.
Ma questo aspetto è un limite pericoloso per una democrazia dal basso, per una “cittadinanza”
che sia o voglia essere attiva. Infatti, è sulla pelle dell’uomo della strada,
anzi sulla pelle di milioni di uomini della strada, che alcuni fenomeni della
finanziarizzazione selvaggia della economia globale, della crisi
economico-finanziaria che attanaglia l’intero globo terracqueo, descritti nella
interessante riflessione di Marco Panara, hanno potuto fare strada lunga senza
grandi inciampi od accidenti vari. È indubbio che si sia giunti ad una svolta
importante; l’ombra lunga della povertà si estende sempre di più su larghissime
fasce sociali del mondo occidentale che sino a poco tempo addietro ne erano
immuni. Scrive infatti Marco Panara nella parte centrale della Sua analisi: “Negli
ultimi vent’anni in quasi tutti i paesi industrializzati, e in maniera
particolarmente significativa negli Stati Uniti, la distribuzione della
ricchezza si è progressivamente squilibrata, con una parte crescente che è
finita nelle mani di pochi e una quota calante è che stata distribuita tra i
più. L’esito di questo processo è che la classe media per mantenere il proprio
tenore di vita ha smesso di risparmiare (quindi ha meno soldi da investire in
azioni, ergo il capitalismo è meno diffuso) e anzi si è indebitata, mentre i
pochi superricchi, avendo a disposizione risorse finanziarie enormi, hanno
trovato meccanismi più elitari e sofisticati per investirli”.
Le capacità salvifiche e taumaturgiche del “libero mercato” si sono rivelate una menzogna e la più grossa montatura politica e mediatica di questo terzo millennio. Anche il “Moro” di Treviri, più di una volta nel corso della Sua vita, accarezzò l’illusione, sino a profetizzarne l’imminente avverarsi, della spallata definitiva al sistema capitalistico del suo tempo, allorquando il mercato del “cotone”, o di qualsiasi altra materia prima, entrava in fibrillazione dando segni evidenti di destabilizzazione dell’economia imperiale inglese. Ma erano altri tempi, allora; e della spallata non se ne rinvenne traccia alcuna, con scorno di quel grande che fu profeta. Continua Marco Panara: Nel 1997 le società quotate negli Stati Uniti erano 8 mila, ora sono a stento 5 mila. Nell’Europa continentale alla fine di gennaio del 2000 erano 13 mila, ora superano di poco 9 mila. Cosa è successo? Proprio negli anni d’oro del pensiero unico, che affidava al mercato che si autoregolava la soluzione di tutti problemi, la Borsa ha perso sex appeal. (…). L’intreccio delle ragioni non è semplice da districare, ma alcuni fili sono più chiari e visibili di altri. Il denaro a basso costo ha fatto certamente la sua parte. Ha ridotto il costo del capitale, ma ancora di più quello del debito che, grazie alle cartolarizzazioni, è anche diventato enormemente più accessibile e meno selettivo per tutti. Debito con le banche ma anche sempre più, per chi ha dimensioni adeguate, direttamente con gli investitori attraverso l’emissione di obbligazioni. (…). E qui siamo alla seconda ragione di questo declino dei listini: l’atteggiamento di investitori ed analisti, ormai abituati a considerare la borsa un gigantesco bancomat, un luogo dal quale si prendono soldi più che darne. (…). Accade quindi che prima di portare in Borsa la sua società l’imprenditore ci pensa mille volte e valuta tutte le ipotesi alternative. Tra le tante negli ultimi anni ne è emersa una nuova, ovvero quella di aprire il capitale non ad una platea indiscriminata di investitori, come avviene quotandosi al listino, ma ad un gruppo ristretto di investitori qualificati. (…). Il metodo classico con il quale da anni questo avviene è attraverso il ricorso al private equity, fondi sottoscritti da signori affluenti e da investitori istituzionali, che vengono impiegati acquisendo quote di capitale delle aziende. I soldi arrivati alle imprese per questa via sono tanti: negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2010 circa 350 miliardi di dollari, in Europa nello stesso periodo 450 miliardi di euro, nella piccola Italia oltre 30. Dietro la fortuna di questi collocamenti privati c’è una trasformazione profonda dell’economia e della finanza la cui radice è nell’evoluzione della distribuzione della ricchezza. Negli ultimi vent’anni in quasi tutti i paesi industrializzati, e in maniera particolarmente significativa negli Stati Uniti, la distribuzione della ricchezza si è progressivamente squilibrata, con una parte crescente che è finita nelle mani di pochi e una quota calante è che stata distribuita tra i più. L’esito di questo processo è che la classe media per mantenere il proprio tenore di vita ha smesso di risparmiare (quindi ha meno soldi da investire in azioni, ergo il capitalismo è meno diffuso) e anzi si è indebitata, mentre i pochi superricchi, avendo a disposizione risorse finanziarie enormi, hanno trovato meccanismi più elitari e sofisticati per investirli. Il fiorire dei private equity e degli hedge fund capaci di raccolte miliardarie è figlio di questa nuova distribuzione. E la Borsa, che è il tempio del capitalismo diffuso, di questa nuova geografia del benessere non poteva non soffrirne. (…). I numeri delle nuove quotazioni e delle cancellazioni negli ultimi anni sono impressionanti. Al Nasdaq tra il 2008 e il 2009 le nuove iscrizioni sono state 308, le cancellazioni 591; al Nyse le iscrizioni 165 e le cancellazioni 367. A Milano, piccoli numeri: 17 iscrizioni e 28 cancellazioni; a Londra 258 iscrizioni e ben 790 cancellazioni. È andata bene solo a Francoforte con 195 iscrizioni e solo 105 cancellazioni. (…). Infine c’è un dato sostanziale: le aziende non hanno bisogno di soldi. Non hanno mai guadagnato tanto come negli ultimi anni e non hanno mai investito meno, ragion per cui sono sedute su una montagna di liquidità. Il McKinsey Global Insitute, nel suo studio dal titolo Farewell to cheap capital, addio al denaro facile, rileva che da molti anni a questa parte le imprese sono risparmiatrici nette, tanto che quelle europee, americane e giapponesi dispongono ora complessivamente di una liquidità di oltre 3 mila e 500 miliardi di dollari. Che probabilmente si apprestano ad investire, anche se in parte non marginale in acquisto di azioni proprie. (…). In relativamente pochi casi l’obiettivo è quello principe, ovvero raccogliere denari per finanziare lo sviluppo, prevale invece quello di raccogliere denari per rimpinguare le tasche del proprietario dell’azienda o per pagarne i debiti.
Le capacità salvifiche e taumaturgiche del “libero mercato” si sono rivelate una menzogna e la più grossa montatura politica e mediatica di questo terzo millennio. Anche il “Moro” di Treviri, più di una volta nel corso della Sua vita, accarezzò l’illusione, sino a profetizzarne l’imminente avverarsi, della spallata definitiva al sistema capitalistico del suo tempo, allorquando il mercato del “cotone”, o di qualsiasi altra materia prima, entrava in fibrillazione dando segni evidenti di destabilizzazione dell’economia imperiale inglese. Ma erano altri tempi, allora; e della spallata non se ne rinvenne traccia alcuna, con scorno di quel grande che fu profeta. Continua Marco Panara: Nel 1997 le società quotate negli Stati Uniti erano 8 mila, ora sono a stento 5 mila. Nell’Europa continentale alla fine di gennaio del 2000 erano 13 mila, ora superano di poco 9 mila. Cosa è successo? Proprio negli anni d’oro del pensiero unico, che affidava al mercato che si autoregolava la soluzione di tutti problemi, la Borsa ha perso sex appeal. (…). L’intreccio delle ragioni non è semplice da districare, ma alcuni fili sono più chiari e visibili di altri. Il denaro a basso costo ha fatto certamente la sua parte. Ha ridotto il costo del capitale, ma ancora di più quello del debito che, grazie alle cartolarizzazioni, è anche diventato enormemente più accessibile e meno selettivo per tutti. Debito con le banche ma anche sempre più, per chi ha dimensioni adeguate, direttamente con gli investitori attraverso l’emissione di obbligazioni. (…). E qui siamo alla seconda ragione di questo declino dei listini: l’atteggiamento di investitori ed analisti, ormai abituati a considerare la borsa un gigantesco bancomat, un luogo dal quale si prendono soldi più che darne. (…). Accade quindi che prima di portare in Borsa la sua società l’imprenditore ci pensa mille volte e valuta tutte le ipotesi alternative. Tra le tante negli ultimi anni ne è emersa una nuova, ovvero quella di aprire il capitale non ad una platea indiscriminata di investitori, come avviene quotandosi al listino, ma ad un gruppo ristretto di investitori qualificati. (…). Il metodo classico con il quale da anni questo avviene è attraverso il ricorso al private equity, fondi sottoscritti da signori affluenti e da investitori istituzionali, che vengono impiegati acquisendo quote di capitale delle aziende. I soldi arrivati alle imprese per questa via sono tanti: negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2010 circa 350 miliardi di dollari, in Europa nello stesso periodo 450 miliardi di euro, nella piccola Italia oltre 30. Dietro la fortuna di questi collocamenti privati c’è una trasformazione profonda dell’economia e della finanza la cui radice è nell’evoluzione della distribuzione della ricchezza. Negli ultimi vent’anni in quasi tutti i paesi industrializzati, e in maniera particolarmente significativa negli Stati Uniti, la distribuzione della ricchezza si è progressivamente squilibrata, con una parte crescente che è finita nelle mani di pochi e una quota calante è che stata distribuita tra i più. L’esito di questo processo è che la classe media per mantenere il proprio tenore di vita ha smesso di risparmiare (quindi ha meno soldi da investire in azioni, ergo il capitalismo è meno diffuso) e anzi si è indebitata, mentre i pochi superricchi, avendo a disposizione risorse finanziarie enormi, hanno trovato meccanismi più elitari e sofisticati per investirli. Il fiorire dei private equity e degli hedge fund capaci di raccolte miliardarie è figlio di questa nuova distribuzione. E la Borsa, che è il tempio del capitalismo diffuso, di questa nuova geografia del benessere non poteva non soffrirne. (…). I numeri delle nuove quotazioni e delle cancellazioni negli ultimi anni sono impressionanti. Al Nasdaq tra il 2008 e il 2009 le nuove iscrizioni sono state 308, le cancellazioni 591; al Nyse le iscrizioni 165 e le cancellazioni 367. A Milano, piccoli numeri: 17 iscrizioni e 28 cancellazioni; a Londra 258 iscrizioni e ben 790 cancellazioni. È andata bene solo a Francoforte con 195 iscrizioni e solo 105 cancellazioni. (…). Infine c’è un dato sostanziale: le aziende non hanno bisogno di soldi. Non hanno mai guadagnato tanto come negli ultimi anni e non hanno mai investito meno, ragion per cui sono sedute su una montagna di liquidità. Il McKinsey Global Insitute, nel suo studio dal titolo Farewell to cheap capital, addio al denaro facile, rileva che da molti anni a questa parte le imprese sono risparmiatrici nette, tanto che quelle europee, americane e giapponesi dispongono ora complessivamente di una liquidità di oltre 3 mila e 500 miliardi di dollari. Che probabilmente si apprestano ad investire, anche se in parte non marginale in acquisto di azioni proprie. (…). In relativamente pochi casi l’obiettivo è quello principe, ovvero raccogliere denari per finanziare lo sviluppo, prevale invece quello di raccogliere denari per rimpinguare le tasche del proprietario dell’azienda o per pagarne i debiti.
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