Da “La metamorfosi del Leviatano” di Franco Cordero, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 30 di maggio dell’anno 2012: 1 Il
berlusconismo è anche fenomeno religioso, molto volgare. Da qualche settimana
era nell'aria una rivelazione (in greco, apocalisse). Narra la Bibbia che Iddio
comunicasse col suo popolo attraverso gli angeli, e nel Pdl esiste l'omonimo,
addolcito dal diminutivo, segretario privato, indi guardasigilli, infine dubbio
condottiero del partito, flebile futuro leader. Nell'epifania a Palazzo Madama,
venerdì 25 maggio, sala Koch, Dominus fa quasi tutto da solo. Siedono in due al
tavolo. Finalmente riapparso dopo lunga latenza, ha l'aria grave. Sentiamo cosa
rivela: l'Italia soffre perché manca l'uomo munito d'adeguati poteri; ed esiste
il rimedio, mediante emendamento al ddl sulle riforme; gl'italiani eleggano in
due turni un presidente ai cui ordini il governo lavori, obbediente comitato
d'affari; se no, finiamo nell'abisso greco. L'evento era conferenza stampa. Gli
domandano chi sia il candidato Pdl al posto supremo: lo designerà il partito,
risponde, sottintendendosi pronto; e biascica una frase, da intendere nel senso
che incombano scelte estreme. La parola passa all'angelo, nella cui parlata
Berlusco Magnus presiede già la Repubblica. Lapsus o profezia? Confonde anche
«presidenzialismo» e «federalismo». Qualunque sia il senso della battuta,
gliel'applaudono. A corte regna una severa disciplina della comunicazione; i
singoli parlanti mettono ugola, faccia, mimica, imbeccati dal cervello
ventriloquo collettivo che ogni mattina detta frasi da compitare: niente esclude,
quindi, l'happening calcolato. (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 30 maggio 2018
martedì 29 maggio 2018
Quodlibet. 82 “Renzi ama se stesso e si occupa di se stesso a tempo pieno”.
Da “Renzi,
Obama, Trump: la politica è finita” di Furio Colombo, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 29 di maggio dell’anno 2016: Ciò che succede in America è come
una lezione di anatomia: corpi esausti e svuotati continuano a menare colpi in
modo sbagliato, in epoche sbagliate, ciascuno senza colpire. Trump e Sanders
sembrano in preda a una euforia da stress estremo. Ma hanno perduto del tutto
il senso del tempo, del luogo e del dopo di quello che stanno facendo. Trump
non sarà mai una persona rispettabile, e se dovesse vincere (nessuno lo vuole
ma potrebbe) resterebbe un uomo ridicolo, anche con l’atomica in mano. Sanders
è caduto, come un personaggio di Lewis Carroll, nel buco profondo di un mondo
rovesciato. Dice e ripete cose di un altro mondo che c’era ma non c’è. Trump ha
portato i suoi costosi giocattoli sulla strada dove nessuno potrà giocare con
lui, ma piace troppo a se stesso. Sanders è drogato dal lungo applauso di una
folla che non aveva mai sentito nulla di simile, dunque è attratta dalla
assoluta novità del copione. Ma il copione è di un altro mondo, piace proprio
perché è fantasia e non corrisponde a nulla che c’è o si può fare. Piace ma poi
finisce e non potrai dirgli che ti lascerà troppo poco quando la lunga tournée
sarà finita. Non ti lascia nulla. Ai margini del ring americano c’è una signora
per bene, per nulla esaltata ma spiazzata dalla grandiosità dello spettacolo.
Con distrazione votano per lei, in maggioranza, in quasi tutte le primarie e
poi si vedrà. Ed è rimasto Obama, il presidente uscente, che fa paura. Fa paura
perché, nonostante il potere, si comporta con dignitosa normalità. Nessuno più
è abituato alla dignitosa normalità, e ormai Obama è un grande estraneo.
Rimpiangi che, oltre alle doti di statista che ha dimostrato (continuo a
ripetere, il più grande dopo Roosevelt) non sia un poeta o scrittore, capace di
narrarti, dopo, il potere da dentro. Ma non lo sappiamo, e ormai corriamo il
rischio di essere oppressi da un grande spettacolo, pericoloso e inutile. In
Italia, Paese molto portato ai grandi cambiamenti al peggio (abbiamo inventato
il fascismo), avrete notato che sempre più personaggi autorevoli cominciano ad
“apprezzare” Trump. Potrebbe vincere, ed è bene non correre rischi. Del resto
la situazione politica italiana, pur con un solo protagonista incombente che
riesce a toccare da solo tutti i tasti, in una disarmonica ma robusta sequenza
sonora, non è molto diversa. Renzi ama se stesso e si occupa di se stesso a
tempo pieno. Ogni cosa (una legge, un cambiamento, un rischio, una speranza, un
momento difficile della storia locale, della storia europea, della storia
mondiale) si chiama “io” e di questo “io” dobbiamo occuparci dicendo “sì” e
“no” tutto il tempo. E la frase finale suona così: “Se dite no, io me ne vado”
che, tradotto, vuol dire “se dite no, voi ve ne andate”, nel senso che, alla
Erdogan, non c’è alcuno spazio per quella perdita di tempo che è il dissenso.
Il senso delle parola “io” sta per “voi”.
domenica 27 maggio 2018
Primapagina. 94 “La democrazia è quello che c’è di meno peggio”.
Quale miglior “primapagina” di “Non è democrazia, è bonapartismo” di Eugenio Ripepe - ordinario di
Filosofia della Politica all'Università di Pisa, già preside della facoltà di
Giurisprudenza, direttore del dipartimento di Diritto pubblico e direttore del
Centro interdipartimentale di Bioetica – pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 26 di maggio 2018, miglior “primapagina” – Ettore Scola ha insegnato - a
chiusura e coronamento di una “giornata particolare” che
certamente passerà alla Storia: (…). Persa la bussola dell’ideologia, troppo
spesso rivelatasi uno strumento che porta a sbattere sugli scogli, i partiti e
i loro succedanei, hanno pensato bene di affidarsi a qualche presunto
grand’uomo per farsi guidare da lui come meglio crede. Conseguenza? Un paese di
sessanta milioni di abitanti in mano a quattro persone, costretto a trattenere
il respiro in trepida (e non poco avvilente) attesa di sapere se e cosa di
volta in volta quelle persone hanno deciso, generalmente a due a due. E che
persone, del resto.
Un pregiudicato spregiudicato, a dir le cui virtù – a parte
qualche milione di altre cose – basta il sorriso stampato sulla sua faccia in
similbronzo quando auspica che le sorti di uno stato siano affidate a lui che,
come risulta per tabulas, lo ha frodato in modo ignobile: (…).
venerdì 25 maggio 2018
Quodlibet. 81 “Vivere con una memoria che non serve a niente".
Da “La peste
della memoria inutile” di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 25 di maggio dell’anno 2017: «Essi provavano la sofferenza
profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati: quella di vivere con
una memoria che non serve a niente". In queste parole taglienti Albert
Camus ha condensato non solo il dolore, ma la trama quotidiana della città
appestata (Orano) che aveva scelto come osservatorio del mondo. Da Tucidide in
poi, la narrazione della peste che affligge una città e la isola dal mondo è
stata un esercizio letterario ricorrente, ma La peste di Camus ha una forza
speciale, perché la descrizione e il decorso del morbo vi sono concepiti come
una potente allegoria politica, che legittima la narrazione proprio mentre
svuota l’apparente verità del racconto. Come lo stesso autore ha scritto pochi
anni dopo, “il contenuto evidente del libro è la lotta della resistenza europea
contro il nazismo”: in questa luce, personaggi e fatti del romanzo agiscono
come gli atomi o come le sillabe di un’unica, estesa metafora che corre per
tutte le pagine del libro. Abitanti e autorità di Orano dapprima non vogliono
neppur vedere gli indizi del flagello che li decimerà, poi esitano a dargli un
nome, e quando osano pronunciare la parola “peste” hanno già piegato la testa,
imparando a convivere con essa. La rimuovono due volte, prima perché rifiutano
di prenderne coscienza, poi perché la ritengono ineluttabile e vi si
rassegnano. Se la crisi dei valori che viviamo è come una peste che sta
serpeggiando e che non vogliamo riconoscere; se non sappiamo vedere la vastità
e la natura di un tracollo dei valori culturali che si nasconde così bene
dietro indici di Borsa e invocazioni al “realismo” e al “pragmatismo”; se
accettiamo a testa china una politica che devasta città e paesaggi, condanna i
nuovi poveri, relega al margine le istituzioni culturali, crea“generazioni
perdute” di giovani senza lavoro, esilia la giustizia e l’equità; se tutto
questo è vero, e se è solo l’inizio di un processo destinato a radicarsi e a
crescere, proviamo a rileggere in questa luce la diagnosi di Camus. Sarà ormai,
la nostra, “una memoria che non serve a niente”? Ma che cosa è la memoria
culturale di una società come la nostra, in cui gli esseri umani e le loro
culture si mescolano con ritmo disordinato ma incalzante? In questo nuovo
orizzonte, che troppo spesso rimuoviamo dalla coscienza, quella che rischia
davvero di non servire più a niente è prima di tutto la memoria degli
immigrati, che dalle profondità del loro esilio non vedono più intorno a sé i
punti di riferimento che fino a ieri erano familiari e rassicuranti. La loro,
nei termini di Camus, è la “memoria degli esuli”. Ma accanto agli esuli, e
condividendo nel lungo periodo il loro destino, ci siamo anche “noi”,
prigionieri di una crisi senza fine e senza nome. E anche la “memoria dei
prigionieri” finirà col non servire a niente se accantoniamo senza nemmeno
accorgercene le nostre coordinate più familiari: la forma della città e dei
paesaggi, la cura della dignità umana, la priorità del bene comune, la
giustizia sociale, l’eguaglianza, il diritto al lavoro, la democrazia. Sotto il
cupo ombrello della crisi, prigionieri ed esuli si somigliano e si affratellano
senza saperlo: gli uni e gli altri inseguono briciole di benessere (che
coincidono coi rituali del consumo), e intanto perdono il loro tesoro più
prezioso, la memoria. O meglio la conservano, ma come un arnese desueto da
riporre in soffitta. “Vivere con una memoria che non serve a niente” comporta
una sofferenza profonda (questa la parola di Camus), ma non sempre acuta: perciò
al basso continuo di questa deprivazione incessante ci abituiamo, ci facciamo
il callo.
giovedì 24 maggio 2018
Sfogliature. 95 “La fattoria degli Italiani2”.
Sembra “cronaca” dell’oggi. La “sfogliatura”
che si propone risale alla domenica 20 di febbraio dell’anno 2011. Sette anni
addietro, ma sembra che l’orologio che misuri gli svolgimenti degli accadimenti
politici e sociali del bel paese si sia irrimediabilmente fermato ad un’ora X
che torna evidentemente comoda a caste e masnade dilaganti nelle sue ubertose
contrade. Scrivevo a quel tempo: Come un novello Orwell, l’Orwell de “La fattoria
degli animali”, Barbara Spinelli nel Suo “La
fattoria degli Italiani” si lancia in una Sua molto pregevole analisi, analisi
pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 16 di febbraio sugli ultimissimi “contorcimenti” o “avvitamenti” della questione politica nel bel paese che è,
essenzialmente, una “questione morale”.
Da sempre. Non si risolve la prima se non si affronta, nelle dovute forme, la
seconda. Ed a questo punto la faccenda si complica assai. Poiché,
nell’affrontare una non più ineludibile “questione
morale”, non si possono trascurare il peso che, sulle vicende politiche di
questi anni, hanno avuto, hanno ed avranno l’”impronta storica” e l’”impronta
antropologica” del bel paese. Affidata la prima agli specialisti del ramo,
gli storici, rimane la disamina della seconda, di non minore importanza
nell’evolversi di una situazione del sistema-paese che rischia di affondare
nell’inanità più assoluta. E per la disamina della seconda “impronta”, quella “morale”,
ci soccorre, nel difficile frangente, una interessante, recente pubblicazione
che ha per titolo “La questione morale” –
Raffaello Cortina Editore (2010), pagg. 186, € 14 - , per l’appunto, del filosofo Roberta De Monticelli. Scrive
l’illustre Autrice alla pagina 57 dell’interessantissima Sua pubblicazione: (…). …siamo un paese con troppi individui
non formati. Mai emersi dalle loro comunità vitali d’origine. Potremmo metterla
così: una parte troppo grande delle persone, in questo Paese, non è mai uscita
veramente dalla sua famiglia, ristretta o allargata. La nostra società civile è
fatta di personalità fragilissime dal punto di vista dell’assunzione di
responsabilità individuali – di persone non individuate. In un certo senso, di
non-individui. Quanto più vivace è il conclamato individualismo degli italiani,
tanto più importante è capire in cosa consista: nella più fantasiosa, a volte
geniale inventiva al servizio del particulare, non nella sostanza
dell’individualità personale e morale. Quando i partiti di massa novecenteschi
sono finiti, questa immaturità è venuta alla luce. (…).
mercoledì 23 maggio 2018
Cronachebarbare. 53 “Il trionfo dell’homo berlusconensis”.
Ci fu in un tempo, molto lontano,
un uomo a Nazareth che scelse di finire ignominiosamente sulla croce, una forma
di giustizia di quei barbari di romani degradante assai, per realizzare, a suo
dire, la volontà di un dio che questo esito finale tragico e cruento assai
aveva previsto, scritto e puntigliosamente perseguito e realizzato. Il sogno di
quell’uomo morto in croce era evidentemente quello di suscitare tante attese attorno
alla venuta, sul pianeta chiamato Terra, di una nuova forma di essere “pensante”
ed “umano” che rispondesse sommamente al suo canone prediletto, ovvero porgere “l’altra
guancia”. Che quell’uomo di Nazareth ci sia riuscito diffonde serissime
perplessità attorno, trascorsi oramai duemila anni dai suoi insegnamenti e da
quegli avvenimenti cruenti. Di quell’uomo nuovo dalla guancia sempre esibita,
evangelicamente parlando, se ne rincorrono ancora le tracce, disperse sempre ai
cosiddetti quattro venti. Avvenne poi
che di un “uomo nuovo” o di un “nuovo uomo” ebbe a parlarne un
movimento politico di ben diversa ispirazione e sostanza. E venne fuori il
cosiddetto “socialismo reale”. Non mi sovviene con esattezza se quel
movimento di anime e corpi proclamasse l’avvento dell’”uomo nuovo” o di un “nuovo
uomo”. Ché non ci sia poi una grande differenza tra le due “cose”
è cosa che filosoficamente e faticosamente bisognerà approfondire. Il dramma di
quel “socialismo
reale” è stato che, a seguito delle sue declamazioni, non si siano
visti esemplari né di un “uomo nuovo” né tantomeno di un “nuovo
uomo”. Non è che, messianicamente parlando, bisognerà attendere ancora
quella novella creatura del “socialismo reale”? Oramai morto e
sepolto sotto le sue macerie a testimonianza di quel fallimento storico? Intanto
non mi pare di poter dire che abbiano fallito in “toto” sia l’uomo di Nazareth
quanto il “socialismo reale”, poiché una piccola rivoluzione, in questi
ultimissimi lustri, la si intravede all’orizzonte e la si registra pure. È pur
vero che è una rivoluzione che abbandona nettamente i canoni proposti dall’uomo
di Nazareth come quelli proposti dal “socialismo reale”. Questa piccola
rivoluzione, piccola ma pur sempre rivoluzionaria è, abortisce un “uomo
nuovo” o un “nuovo uomo” – ma non voglio impantanarmi nella sottilissima disquisizione
- che è la negazione assoluta dell’uomo
pensato dall’ebreo di Nazareth quanto dell’uomo pensato dal “socialismo
reale”. Un obbrobrio della natura. L’ebreo di Nazareth, quanto le
faconde menti del “socialismo reale”, si staranno rivoltando nelle loro tombe; almeno
queste ultime, le menti faconde, ché l’altro sembra abbia preso la via del
cielo dopo aver reso l’anima sua al padre suo, padrone dei cieli.
martedì 22 maggio 2018
Primapagina. 93 “In questa giungla di tartassati e di privilegiati”.
Da “Chi più
ha meno dà” di Paolo Biondani, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 21
di maggio 2018: (…). I padri della nostra Costituzione, nel 1948, avevano disegnato un
sistema fiscale opposto: il principio base, fissato dall’articolo 53 della
legge fondamentale, è la progressività. Significa che i ricchi devono pagare
più tasse dei poveri. E il fisco deve seguire questa via maestra per
raggiungere obiettivi di equità, giustizia sociale e crescita economica
duratura.
Per capirlo basta cambiare esempio e sostituire all’evanescenza della goccia la concretezza del cibo. Se una famiglia ricca ha mille pagnotte e lo Stato gliene preleva metà, con le altre cinquecento può continuare a ingrassare, far festa e magari lasciarne ammuffire gran parte in dispensa.
Per capirlo basta cambiare esempio e sostituire all’evanescenza della goccia la concretezza del cibo. Se una famiglia ricca ha mille pagnotte e lo Stato gliene preleva metà, con le altre cinquecento può continuare a ingrassare, far festa e magari lasciarne ammuffire gran parte in dispensa.
lunedì 21 maggio 2018
Quodlibet. 80 “I giovani d’oggi e l’ansia di reidentificazione”.
Da “I
giovani «liquidi». Una, nessuna centomila identità” di Zygmunt Bauman, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 21 di maggio dell’anno 2015: Tra i
buoni motivi per interpretare l’avvento dell’era moderna come una
trasformazione promossa soprattutto dagli interessi della classe media (o per
riprendere la terminologia di Marx, come una “rivoluzione borghese” vittoriosa)
appaiono preponderanti il timore ossessivo, tipico del ceto medio, della
fragilità dello status sociale, e gli sforzi tesi a difenderlo e a
stabilizzarlo. Nel delineare il profilo di una società esente da infelicità, i
progetti utopistici che abbondavano all’inizio dell’era moderna riflettevano
soprattutto i sogni e i desideri della classe media; ritraevano una società
purificata dalle incertezze, e soprattutto dalle ambiguità e dalle insicurezze
legate alla posizione sociale, nonché dai diritti e dai doveri che quella
posizione portava con sé. Per quanto quei progetti potessero essere diversi
l’uno dall’altro, erano concordi all’unanimità nello scegliere la durata, la
solidità, l’assenza di cambiamento come premesse essenziali di una società
“buona” e della felicità umana. I progetti utopistici immaginavano soprattutto
la fine dell’incertezza e dell’insicurezza: in altre parole promettevano un
assetto sociale assolutamente prevedibile. La società “buona” e persino la
società “perfettamente buona” delle utopie era una società che aveva risolto
una volta per sempre tutte le paure più tipiche del ceto medio. Si potrebbe
dire che i ceti medi erano l’avanguardia che, prima del resto della società,
esplorava e faceva esperienza delle principali contraddizioni dell’esistenza
destinate, ce lo si volesse o no, a diventare caratteristiche universali della
vita moderna: la tensione perenne fra due valori, la sicurezza e la libertà,
valori ugualmente desiderati e indispensabili per una vita appagante, ma
difficili da conciliare, da possedere e godere simultaneamente.
domenica 20 maggio 2018
Primapagina. 92 “Chi l’ha detto? Renzi Matteo”.
Da “Senti
chi parlava” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 20
di maggio 2018: “Fanno il Daspo ai tifosi, va fatto il Daspo ai politici che prendono
le tangenti: mai più” (7.5.2014). Chi l’ha detto? I giustizialisti
grilloleghisti che hanno firmato il contratto di governo? No, Matteo Renzi, lo
stesso che ora tuona contro i “giustizialisti” che vogliono il Daspo per i
politici corrotti.
venerdì 18 maggio 2018
Quodlibet. 79 “Le oligarchie, regimi dei privilegi”.
Da “Non c’è pacificazione senza verità e giustizia” di Gustavo Zagrebelsky,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 18 di maggio dell’anno 2013: (…).
«Si sta giocando una partita politica e la posta è elevatissima. È in atto un
tentativo di spoliticizzazione, una sorta di mascheramento ».
Un mascheramento, professore
Zagrebelsky? «Le maschere sono i tecnici, i saggi, gli esperti. Certo,
dell’efficienza un sistema politico non può fare a meno, pena il suicidio. Ma,
l’efficienza non esiste in sé e per sé».
Si è insediato un governo di
larghe intese che si propone tra l’altro di modificare la macchina dello Stato.
Non la convince? «A me pare piuttosto evidente che sia in atto un disegno di
razionalizzazione d’un potere oligarchico. In Italia non si è forse radicato un
sistema di giri di potere, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze
e clientele? Parlando di oligarchie, non si pensi solo alla politica, ma al
complesso d’interessi nazionali e internazionali, che nella politica trovano la
loro garanzia di perpetuità».
Appunto, quale occasione migliore
per cambiare quegli assetti, per riformare? «Sono decenni che se ne parla. Ma
ora sembra che sia giunta l’ora. Quel complesso d’interessi è sovraccarico e
non riesce più a trovare un equilibrio. Rischia l’implosione e s’inceppa. La
rielezione del Presidente della Repubblica (Giorgio Napolitano n.d.r.) - impensabile
in un sistema di governo anche solo minimamente dinamico - è rivelatrice.
L’applauso grato e commosso d’una maggioranza impotente è il segno
dell’impasse. Per il futuro, ci vogliono riforme. Ma dal punto di vista
democratico, sono in realtà controriforme».
Perché controriforme? «Guardiamo
le cose che si intende e le cose che non s’intende fare. Il presidenzialismo,
quale che ne sia il modello, è un modo di concentrare in alto la politica e di ridurre
dei cittadini a “micro-investitori” del loro voto, a favore d’un gestore
d’affari nel cerchio stretto delle oligarchie. In breve: è il protettorato d’un
sistema di potere chiuso. Altro che più potere al popolo! Anzi, il popolo deve
non sapere o sapere il meno possibile: si è ripresa infatti la discussione sul
“riequilibrio dei poteri” a danno dell’indipendenza della magistratura, e sui
limiti al giornalismo d’inchiesta (vedi la questione delle intercettazioni). E
poi, quel che non si intende fare: vedi il silenzio calato sul conflitto di
interessi e sull’inasprimento delle misure contro l’illegalità. Le oligarchie,
del resto, sono regimi dei privilegi. Hanno bisogno di compiacenze e
illegalità». (…).
giovedì 17 maggio 2018
Cronachebarbare. 52 “C’è un giudice (di sorveglianza) a Milano”.
Hanno un che da gioire, da postare
e da twittare i manutengoli dell’uomo venuto da Arcore. C’è un giudice di
sorveglianza a Milano che asserisce non esserci ostacolo al reintegro nella
vita pubblica del reo. È sempre cosa buona e giusta, come suol dirsi tra eminenti
legulei, attendere di leggere ciò che quel giudice ha scritto nella sua
disposizione a proposito di quell’uomo. Probabilmente quel giudice vive in un
altro mondo che non è per i comuni mortali e di conseguenza non gli saranno
giunte le notizie che le procure della Repubblica, da più parti d’Italia,
invitano quell’uomo a presentarsi nei tribunali per rispondere dei reati più
vari. C’è un giudice di sorveglianza a Milano che in cuor suo avrà considerato
il dispositivo della Corte di Cassazione esagerato laddove quella Corte ha a
suo tempo scritto essere quell’uomo una persona soggiogata e turbata da una "naturale
capacità a delinquere". Più di così. E proprio oggi 17 di maggio
dell’anno 2018 un altro giudice di Roma preposto alla cosiddetta udienza preliminare
– il gup - ha rinviato quello stesso uomo a processo nel tribunale di quella
città. E quel giudice di sorveglianza a Milano avrà meditato e pensato che
siano cosucce – la corruzione di testimoni e quant’altro attinente alla non
proprio commendevole vita di quell’uomo - che non possano di conseguenza condizionare
la sua sofferta (?) decisione. Scriveva Barbara Spinelli in “L'altro pianeta del Cavaliere”
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 31 di ottobre dell’anno 2012: (…).
La giustizia, i processi, le leggi, esistono in primo luogo per l'innocente,
per il senza-potere: non per il reo da condannare. Se c'è desiderio che sia
fatta luce su chi vilipende il bene comune (…), è perché l'innocente non sia
confuso con il colpevole, sprofondando in una melma dove non distingui nulla. È
questo bisogno di giustizia che l'ex Premier (l’uomo venuto da Arcore
n.d.r.) offende, (…). Ogni processo è ritenuto veleno, che ammorba la
democrazia e la spegne. La magistratocrazia si sostituirebbe eversivamente alla
democrazia, contro il popolo sovrano. Il dubbio che i processi siano al
servizio soprattutto degli indifesi non lo sfiora: lui, condannato per truffa
ai danni dello Stato, si presenta come vittima, perfino capro espiatorio. Non
sa che per definizione il capro è innocente: che proprio per questo il rito è
barbarico. Avrà meditato quel giudice di sorveglianza di Milano su
questa prosa? La conosce? L’avrà letta? Quale idea se ne sarà fatta? Ed all’uomo
della strada chi spiegherà che quel giudice di sorveglianza non ha potuto cancellare,
non avendone per fortuna la prerogativa, la condanna per la quale quell’uomo di
Arcore è stato condannato da un tribunale della Repubblica per frode fiscale? A
breve, anzi brevissima distanza da quella decisione, che la si potrebbe dire inconsueta
stanti le notizie che continuano a portare quel “delinquente naturale”
alla ribalta della cronaca peggiore, a breve anzi a brevissima distanza sarà
cosa facile, facilissima, per i manutengoli di quell’uomo, far passare quella sentenza
come lavacro che tutto cancella. È sulla mancanza della “memoria” del popolo
italiota, sul suo mancato collettivo esercizio, che i bellimbusti di tutte le
risme fanno leva affinché il furbo di turno torni mondato anche dei peggiori
misfatti. Che dire? C’è un giudice di sorveglianza a Milano. Che fiuta forse l’aria
dei nuovi rivolgimenti e che spera forse di stare nel solco giusto tracciato dagli
accadimenti che verranno. Ha scritto ancora Barbara Spinelli in quell’ottobre
dell’anno 2012:
martedì 15 maggio 2018
Primapagina. 91 “Tutti noi e «loro»”.
Da “Neutrale
sarà lei” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 9 di
maggio 2018: (…). “Buongiorno, signori e soprattutto signore: sulla mia neutralità
fra mafia e antimafia, essendo prematuramente scomparsi Bontate, Teresi,
Mangano, Riina e Provenzano, può testimoniare l’amico Dell’Utri, ma solo se gli
date la grazia. Interessa l’articolo?”. “Come se avessimo accettato, dottor
Berlusconi. Grazie, si accomodi, ora abbiamo parecchio da fare”.
“Salve, sono l’onorevole Rosato, ma tutti mi
chiamano Rosatellum, espressione latina notoriamente neutra: posso servire?”.
“Guardi, non ci provi neppure: se siamo in questo casino è soprattutto colpa
sua. Sparisca”.
“Signori miei, ve l’avevo detto che prima o
poi da me dovevate tornare. Non credo di dovervi dimostrare la mia neutralità:
io tra Bersani e Verdini, tra Saviano e Berlusconi, tra Rai e Mediaset, tra la
Carta costituzionale e la carta igienica, non ho mai fatto differenze. E ora
tifo per il tanto peggio tanto meglio. Neppure la Svizzera è più neutrale di
me. Che dite, vado bene?”. “Senatore Renzi, ancora lei?”. “In subordine, vi
segnalo Maria Elena Boschi, assolutamente neutrale fra i banchieri di Etruria e
le vittime di Etruria”. “Si accomodi alla porta, e alla svelta: se la vede
Mattarella, fa uno sproposito”.
“Insigni esaminatori, sarò breve: la mia
esperienza di governo si contraddistinse per la più rigorosa neutralità, quindi
credo di aver diritto a una seconda chance, con la mia valida collaboratrice
qui a fianco”. “Senatore Monti, professoressa Fornero, pietà: voi non siete
neutrali, siete dei neutralizzatori. Se si viene a sapere che siete qui, la
gente dà l’assalto al Quirinale. Tornate a casa con i vostri cetrioli che
magari, quando partono, sono pure neutrali, ma quando arrivano a destinazione…
beh lasciamo perdere”.
“Greggi siggniori, amici cari, se cercate
pessoni neutrale, non dimenticato ché io mi candidabbi in Svizzero, la nazzione
asciatica più neutrala della storia”. “Grazie, onorevole Razzi, la terremo
presente, abbiamo giusto un buco all’Istruzione, Università e Ricerca
scientifica”.
“Cari concittadini, penso di fare proprio al
caso vostro: come capo politico, volevo allearmi sia con la Lega sia col Pd,
perché non sono né di destra né di sinistra. Quindi sono neutralissimo”.
“Scusi, onorevole Di Maio, ma lei non è dei 5Stelle?”. “Ah, già, non ci avevo
pensato. Chi l’avesse mai detto”. “Ci stia bene”.
domenica 13 maggio 2018
Capitalismoedemocrazia. 64 “La «borsa» muore?”.
La “borsa” muore, sembrava
essere l’angosciante pensiero/interrogativo che Marco Panara sollevava in una
Sua analisi pubblicata (2011) sul settimanale “Affari&Finanza” con il titolo
“Perché la Borsa non serve più”, analisi
che di seguito trascrivo in parte. Si dia per scontato che i tecnicismi propri
delle finanze e delle psuedo-scienze ad esse collegate non siano proprio una
gran bella “cosa”; sono impenetrabili a volte, sono aridi nella loro
comunicazione che vorrebbe essere neutra, non incantano con l’aridità dei
numeri e di quant’altro afferisca ad una teoria che vorrebbe farsi “scienza”.
Ma che, oltre certi limiti, non è “scienza”, mancando essa, accanto
all’esercizio della “predittività”, il fattore fondamentale del metodo galileiano, ovvero
la riproducibilità dei fenomeni a sostegno delle verifiche per le ipotesi di
scienza avanzate. Ma tant’è. All’uomo della strada non gliene importa proprio
della “borsa” o della finanza “creativa”, di tremontiana memoria.
Ma questo aspetto è un limite pericoloso per una democrazia dal basso, per una “cittadinanza”
che sia o voglia essere attiva. Infatti, è sulla pelle dell’uomo della strada,
anzi sulla pelle di milioni di uomini della strada, che alcuni fenomeni della
finanziarizzazione selvaggia della economia globale, della crisi
economico-finanziaria che attanaglia l’intero globo terracqueo, descritti nella
interessante riflessione di Marco Panara, hanno potuto fare strada lunga senza
grandi inciampi od accidenti vari. È indubbio che si sia giunti ad una svolta
importante; l’ombra lunga della povertà si estende sempre di più su larghissime
fasce sociali del mondo occidentale che sino a poco tempo addietro ne erano
immuni. Scrive infatti Marco Panara nella parte centrale della Sua analisi: “Negli
ultimi vent’anni in quasi tutti i paesi industrializzati, e in maniera
particolarmente significativa negli Stati Uniti, la distribuzione della
ricchezza si è progressivamente squilibrata, con una parte crescente che è
finita nelle mani di pochi e una quota calante è che stata distribuita tra i
più. L’esito di questo processo è che la classe media per mantenere il proprio
tenore di vita ha smesso di risparmiare (quindi ha meno soldi da investire in
azioni, ergo il capitalismo è meno diffuso) e anzi si è indebitata, mentre i
pochi superricchi, avendo a disposizione risorse finanziarie enormi, hanno
trovato meccanismi più elitari e sofisticati per investirli”.
venerdì 11 maggio 2018
Terzapagina. 30 “Non c’è democrazia senza uguaglianza”.
Da “Non c’è
democrazia senza uguaglianza” di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 19 di aprile 2018: (…). Di eguaglianza parla l’articolo 3 della
Costituzione, e lo fa in termini tutt’altro che generici. Non è uno slogan, un’etichetta,
una predica a vuoto destinata a restare lettera morta. È l’articolo più
rivoluzionario e radicale della nostra Costituzione, anzi vi rappresenta il
cardine dei diritti sociali e della stessa democrazia. E non perché annunci l’avvento
di un’eguaglianza già attuata, ma perché la addita come imprescindibile
obiettivo dell’ azione di governo.
giovedì 10 maggio 2018
Primapagina. 90 “Il colossale equivoco rappresentato dal Pd”.
Da “Questo
Pd va sciolto” di Massimo Cacciari, pubblicato sul settimanale L’Espresso
dell’8 di aprile 2018: (…). C’è oggi chi ciancia di un’identità da
ritrovare. Ma quale identità può ritrovare chi mai l’ha avuta? Un po’ di
memoria non guasterebbe.
mercoledì 9 maggio 2018
Lalinguabatte. 56 “La democrazia come «possibilità»”.
Ora che il pifferaio pazzo d’America
ha tuonato con il suo orribile ghigno indicando in altri i sobillatori dell’ordine
terrestre riconosco che, seppur dopo tanto tempo oramai, non riesco ad
individuare con certezza l’inconfessabile motivo per il quale, nell’Irak di
Saddam Hussein, migliaia e migliaia di innocenti, donne e bambini soprattutto,
abbiano perso la vita a quel tempo in nome di una “democrazia” che
necessitava essere esportata sulle rive
del Tigri e dell’Eufrate.
martedì 8 maggio 2018
Terzapagina. 29 “Umberto Eco e l’«Ur-Fascismo»”.
Da “Il
Fascismo Eterno” di Umberto Eco, pubblicato da “La nave di Teseo” – (2018),
pagg. 51, € 5 - (pagg. 34/50): 1) La prima caratteristica di un Ur-Fascismo
è il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non
fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione
Francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al
razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni
diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a
sognare una rivelazione ricevuta all'alba della storia umana. Questa
rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai
dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai
testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova
cultura doveva essere sincretistica. "Sincretismo" non è solo, come
indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche.
Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi
originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o
incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva.
Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata
già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a
interpretare il suo oscuro messaggio. E sufficiente guardare il sillabo di ogni
movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi
nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti. La più
importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava
il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l'alchimia con il Sacro Romano
Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte
della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo
insieme De Maistre, Guenon e Gramsci è una prova lampante di sincretismo. Se
curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l'indicazione
"New Age", troverete persino Sant'Agostino, il quale, per quanto ne
sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant'Agostino e
Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo. 2) Il tradizionalismo implica
il rifiuto del modernismo.
lunedì 7 maggio 2018
Quodlibet. 78 “Il supremo inganno, la neutralità tra destra e sinistra”.
Da “Democrazia
open/close” di Ezio Mauro, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 7 di maggio
dell’anno 2017: (…). Nella società che si rinchiude tornano i confini e anzi le
barriere, rispuntano i muri e i fili spinati, la terra e gli spazi diventano
dominanti, la fissità è sicurezza, la paura nasce da tutto quello che si muove,
soprattutto in casa nostra, perché è paura della diversità, perdita di
uniformità, nella percezione di smarrire riferimenti tradizionali, omogenei,
costanti, di veder sbiadire la coesione comunitaria di fili biografici tra loro
intrecciati in una esperienza comune di vissuto, di condivisione, di scambio.
domenica 6 maggio 2018
Quodlibet. 77 “Chi non legge non sa perché sta al mondo”.
Da “Chi non
legge non sa perché sta al mondo” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del 6 di maggio dell’anno 2017: La realtà (…) non è fatta solo di
cose, ma di idee, storia e sentimenti di cui i libri sono i gelosi custodi. Non
so che fine faranno i libri. Non tanto per il loro trasferimento sulla strumentazione
informatica, quanto perché da molti anni la nostra scuola, nonostante il
lodevole sforzo di alcuni insegnanti, ha disabituato i ragazzi alla lettura, al
punto che oggi, come riferisce l'Ocse, noi italiani siamo all'ultimo posto in
Europa per la comprensione di un testo scritto. A questa non incoraggiante
condizione si aggiunge il fatto che, negli ultimi decenni, la maggior parte
delle cose che sappiamo non le abbiamo necessariamente "lette", ma
semplicemente "viste" sullo schermo della televisione o del computer,
oppure "sentite" dalla viva voce di qualcuno o da due fili inseriti
nelle orecchie.
sabato 5 maggio 2018
Terzapagina. 28 “Il declino del soggetto «classe operaia»”.
5 di maggio 2018: duecentesimo anniversario della
nascita di Karl Marx. Da “Un dio
chiamato «Capitale»” di Massimo Cacciari, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 29 di aprile 2018: Tacete economisti e sociologi in munere
alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne
comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico -filosofica. Marx sta tra
i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare
di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a
Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’ economia politica al centro
della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che
l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito , come espressione della
nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx
ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma
di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e
politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo.
venerdì 4 maggio 2018
Primapagina. 89 “Purtroppo, ieri, Martina non è pervenuto”.
Ha scritto oggi su “il Fatto Quotidiano” - dopo la
funambolica direzione del Pd di ieri 3 di maggio, funambolica in virtù dell’esito
finale di quella assise che è stato (l'esito) in perfetta linea con la definizione che ne
da il Sabatini-Coletti, ovvero essere “funambolico” nel senso di “Opportunista,
spregiudicato: le manovre f. di un deputato” - Marco Travaglio in “Il reggente non ha retto”: Una
sera, a Parla con me, Paolo Villaggio se ne uscì a freddo, mentre Serena
Dandini lo intervistava su tutt’altro, con una delle sue sortite insieme
surreali, feroci e geniali: “Mi scusi, signora, ma Brunetta è un nome d’arte?”.
Fosse ancora vivo, ora domanderebbe: “Ma Martina è un nome d’arte?”. (…). Purtroppo,
ieri, Martina non è pervenuto. Non che non ci fosse, anzi: il guaio è proprio
che c’era e, come sempre accade quando c’è, nessuno se n’è accorto. Quando va
al cinema, per dire, e prende posto su una poltrona, c’è sempre qualcuno che si
siede sopra di lui. Lo schiaccia e rimane lì per tutto il film, malgrado le sue
reiterate proteste. Inizialmente lui pensava che ciò dipendesse dalle luci
spente, infatti cominciò ad andare al cinema con largo anticipo per sedersi a
luci accese: “Così mi vedranno e siederanno nei posti liberi”. Ma niente: la
gente continuò ad accomodarsi nel posto già occupato da lui, a non udire le sue
lamentele (direttamente proporzionali al peso dell’occupante abusivo) e a
restargli sopra.
giovedì 3 maggio 2018
Terzapagina. 27 “La scuola non rende uguali poveri e ricchi”.
Da “La
scuola non rende uguali poveri e ricchi” di Marco Morosini – professore di
Scienze politiche e ambientali presso il Politecnico federale di Zurigo – pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 28 di aprile 2018: (…). La “scuola di classe”, è
quella che negli anni Sessanta Don Milani e i suoi scolari della scuola di
Barbiana denunciavano nella Lettera a una professoressa. Ma parlare di scuola
di classe ora è un tabù. Per aiutare a capire (…) consideriamo uno strumento
ideologicamente neutro, una bilancia pesa persone, invece che una (inesistente)
bilancia pesa-bullismo. Studi rigorosi rilevano in sempre più Paesi che il peso
medio pro capite dei poveri è superiore a quello dei ricchi: l’obesità ai
poveri, la fitness ai ricchi. Il cibo-spazzatura (a buon mercato e
ipercalorico) prodotto dalle fabbriche dei ricchi deve pur essere smaltito da
qualcuno. Per esempio dai poveri. Altrimenti i ricchi non potrebbero esserlo e
pagarsi sport e diete per pesare meno e vivere più a lungo dei poveri. C’è una
forte correlazione tra povertà, obesità, le relative malattie, e la minor
longevità, come indicano gli studi Obesity and poverty paradox in developed
countries e Poverty and Obesity in the US. L’obesità non è trasversale alle
classi. E credo che le “obesità mentali” siano altrettanto poco trasversali.
Per esempio le “obesità mentali” indotte dal diverso uso dei media: durata,
qualità, nocività, potenziale di intossicazione dell’uso di Internet. Di
conseguenza, ritengo che non lo sia nemmeno l’influenza di questi
sull’educazione e il comportamento delle persone. Secondo uno studio in Corea,
la performance scolastica è associata positivamente a un maggiore uso di
Internet per fini scolastici, ma negativamente al suo uso per fini non
scolastici. Un altro studio ha un titolo eloquente: The Rich See a Different
Internet Than the Poor (I poveri vedono un’Internet diversa da quella dei
ricchi). Se ci fossero misurazioni della durata e della qualità degli accessi a
Internet dei figli dei ricchi e dei poveri (di soldi e di cultura) presumo che
il numero di ore quotidiane e la buona o cattiva qualità degli accessi on-line
e del “gaming” non risulterebbero distribuiti ugualmente tra le classi sociali.
Niente di nuovo: da studi passati è nota la correlazione tra la durata della
esposizione dei bambini alla Tv e la povertà delle famiglie. Se è vero che
tutti mangiamo e tutti (o molti) accediamo a Internet, non lo facciamo tutti
nello stesso modo, nella stessa quantità, con la stessa capacità critica. E
queste differenze non sono casuali tra individui, ma riflettono in buona parte
(nella media) le differenze di ricchezza materiale e culturale. Anche per
l’Internet-spazzatura” e il “gaming” la fitness culturale è dei ricchi,
l’obesità culturale dei poveri. Se ci fosse un censimento degli adolescenti
patologicamente obesi e patologicamente Internet-dipendenti, vi aspettereste la
stessa percentuale tra i ricchi e tra i poveri? Questa distribuzione iniqua è
solo una delle distribuzioni inique di quasi tutti i beni e i mali in una
società di classi capitalista. Per ridurle, ci sono due modi. Primo, parlarne
senza tabù. Secondo, rimboccarsi le maniche perché lo Stato crei forti
correttivi sociali ed ecologici (all’estero la chiamano “economia eco-sociale
di mercato”). (…).
mercoledì 2 maggio 2018
Primapagina. 88 “L’impenitente narcisista”.
Da “Il
narcisista che non riesce a stare zitto” di Daniela Ranieri, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 1° di maggio 2018: Eravamo rimasti che voleva “tacere per due
anni” dopo il 4 marzo, e infatti rieccolo dopo due mesi in prima serata su
Rai1, a regolare conti interni, a mandare avvertimenti, a parlare a nuora (“chi
ci guarda da casa”) perché suocera intenda, ma soprattutto a liberare la sua
incontinenza narcisistica, il suo bisogno quasi ghiandolare di pubblico. Si sa
che una cosa detta da Renzi è scritta sull’acqua, quando non vuol dire proprio
l’esatto contrario, ma si resta abbastanza ammutoliti davanti alla performance
tutta psichica di questo ambizioso di provincia che ha scalato un partito
(spesso fallimentare, ma tutto sommato prima del suo arrivo rispettabile)
polarizzando ogni sentimento attorno alla sua persona, commissariandolo e
riducendolo a quel che è oggi: un campo di forze e ambizioni personali confliggenti
o coincidenti col suo ego patologico e dunque prive di qualsiasi orizzonte
credibile. In sostanza è andato a dire due cose: che non vuole andare al
governo coi 5Stelle; che se non si riesce a fare un governo è perché “dopo il
referendum il Paese è bloccato”. Visto che questa è palesemente falsa (sabato
abbiamo fatto il fact checking alle parole di Orfini, spedito a Otto e mezzo a
diffondere la stessa panzana in qualità di ballon d’essai: il referendum nulla
c’entra con la legge elettorale che precedeva il Rosatellum, dichiarata
incostituzionale dalla Consulta nelle parti relative al ballottaggio e alle
pluricandidature), abbiamo motivo di presumere che anche la prima lo sia. A
pensar male si fa peccato, ma noi siamo peccatori e scommettiamo che Renzi darà
mandato ai suoi più fedeli sottoposti di votare a favore dell’intesa col M5S,
in direzione o in qualunque altro consesso partorito dalla finta democrazia che
ha instaurato nel partito, se non proprio al Senato dove il governo dovrà
ottenere la fiducia, continuando in pubblico a escludere perentoriamente ogni
ipotesi di alleanza “coi populisti” per far contenti i twittatori del
#senzadime (e i 5 passanti da lui importunati in piazza della Signoria). “Su 52
senatori del Pd”, è l’excusatio non petita, “almeno 48 devono votare a favore.
Io di disponibili alla fiducia a Di Maio non ne conosco uno”, ma ormai la pulce
è nell’orecchio e del resto sfidiamo chiunque a non vederlo nelle vesti di uno
che va al governo con Di Maio per poi farlo cadere alla prima fiducia tanto per
dimostrare che: 1) i grillini sono incapaci di governare; 2) serve la riforma
della Costituzione.
martedì 1 maggio 2018
Quodlibet. 76 “Sorpresa, i professori sono felici. «Noi, orgogliosi di stare in cattedra»”.
Da un reportage di Michele Smargiassi - “Sorpresa, i professori sono felici. «Noi,
orgogliosi di stare in cattedra»” - pubblicato sul quotidiano la Repubblica
del 1° di maggio dell’anno 2010: Docenti recidivi. Stressati ma non pentiti.
Orgogliosi e appagati da un mestiere malpagato e incompreso, più di otto su
dieci lo sceglierebbero di nuovo. Gli insegnanti italiani resistono sulla tolda
della cattedra, al timone di una scuola in affanno, alla guida di ciurme
turbolente, ma tutto sommato ottimisti, convinti che la loro microsocietà sia
meno scalcinata di come i media la dipingono. E forse lo è, vista la sincerità
con cui, alle domande della terza indagine Iard sulle condizioni di vita e di
lavoro nella scuola italiana, edita dal Mulino, ammettono anche limiti,
incertezze e malumori. C'è vita nella scuola; bene, perché quest'esercito di
ottocentomila pedagoghi è pur sempre il più potente intellettuale collettivo
del nostro paese. Un patrimonio che, scoprono i curatori dell'indagine,
Alessandro Cavalli e Gianluca Argentin, non sembra troppo logorato. A dispetto
di tutto. Vent'anni dopo la prima rilevazione, infatti, l'identikit del docente
italiano resta problematico: la classe insegnante più vecchia del continente
(alle medie il 70% ha più di cinquant'anni), la carriera più accidentata (fino
a 9 anni per entrare in ruolo), gli stipendi del 10-20 per cento sotto la
media, la femminilizzazione travolgente (otto donne su dieci cattedre, 95% alle
elementari) che tradisce ancora il mestiere-rifugio per donne incatenate alla
"doppia presenza". Ti aspetteresti, in simili trincee, truppe
demoralizzate. Nient'affatto. Gli insegnanti italiani sono molto più
soddisfatti di dieci anni fa. La quota di chi "sceglierebbe di nuovo la
professione di insegnante", ora l'82%, è cresciuta di 9-10 punti in ogni
ordine di scuola. Viceversa, quanti sognano la fuga verso la pensione o un
altro lavoro, i "bruciati", i burn-out, sono calati nella stessa
misura. Cosa mai è successo di tanto incoraggiante, in questo decennio, alla
scuola italiana? Nulla. La scuola non è migliorata. Forse è peggiorato tutto il
resto. E nella crisi generale la scuola ha sofferto di meno. Dicono gli
insegnanti: il "microclima" in classe è migliore di quel che appare.
Aule e corridoi sono spazi di relazioni umane soddisfacenti coi colleghi, i
dirigenti, soprattutto (91%) con gli studenti: "poter lavorare coi giovani"
del resto è la prima (63%) motivazione per scegliere questo mestiere. E le
scuole-inferno del bullismo, le scuole-babele delle mille nazionalità?
Problemi, ma affrontabili. Autostima o ottimismo della volontà? È incoraggiante
che più di 3 insegnanti su 4 dichiarino di aver scelto il loro mestiere per
vocazione e non per motivi pratici (garanzia del posto, tempo libero ecc.). Ma
cos'è una "vocazione"? Dieci anni fa sembrava affermarsi tra i prof
la più moderna auto-immagine di "professionisti", ora torna a
prevalere la rivendicazione della "funzione sociale". Retromarcia
difensiva: lo stipendio arranca, la precarietà aumenta, la considerazione
sociale crolla: ma di che professionalità parliamo? Eppure sono in genere buoni
insegnanti. Il rapporto mette un 20-30% addirittura nella fascia di eccellenza.
L'impegno cresce: ormai la metà dei docenti "stanno a scuola" ben
oltre l'orario di lezione. La vecchia "semiprofessione" da casalinghe
è per molti oggi un mestiere a pieno tempo; il "patto al ribasso"
democristiano (lavori poco, ti pago poco) sta saltando. Solo la busta paga non
se n'è accorta. Eppure la stessa autovalutazione dei prof è spesso severa.
Sanno di essere stati reclutati con criteri lontani dal puro merito, si sentono
competenti sulle proprie materie ma mal preparati a insegnarle (9 maestri su 10
non hanno mai seguito un corso di specializzazione). Confessano anche qualche
pigrizia nell'auto-formazione: benché più lettori della media e anche delle
altre professioni "intellettuali", un docente su cinque alle superiori
non ama i libri, i prof delle medie meno di tutti (il 44% ne legge meno di tre
l'anno), anche meno dei maestri elementari. Però molti si sforzano di tenersi
al passo. Del tutto volontariamente, i docenti italiani sono entrati nell'era
telematica, comprando a proprie spese computer e banda larga: quasi 9 su 10
sono connessi (la media fra i laureati è del 77%). Ma se ne servono ancora poco
(meno della metà si collega ogni giorno) e non in classe: a parte i laboratori
di informatica, il pc serve per preparare le lezioni, ma non per fare lezione. In
classe, poche novità, forse un vento d'antico. La "lezione frontale"
sembra tornare sovrana. Ma è una scelta pragmatica, non tradizionalista:
terminata l'era delle sperimentazioni audaci, prevale un dosaggio di "frontalità"
e "interattività". Se una rivoluzione c'è stata, riguarda l'ultimo
atto: il voto. Che non certifica più il raggiungimento di un certo livello di
conoscenze. Per un docente su quattro la "quantità di apprendimento"
non conta proprio. Timorosi (50%) di non possedere criteri di giudizio
"oggettivi" equi, preferiscono premiare i progressi e l'impegno
dimostrati dal singolo studente. La società esterna invoca rigore e severità,
ma le deresponsabilizzanti interrogazioni programmate sono ormai di rigore in
circa una classe su quattro (erano il 17% dieci anni fa), senza grandi
differenze tra licei e professionali, tra scuole del nord e scuole del sud.
Lassismo? O rifiuto di fare da foglia di fico, di essere gli unici controllori
implacabili in una società dalle regole rilassate? L'isola-scuola si difende
diventando autoreferenziale. Ma se non sono più i "custodi del lucignolo
spento" di don Milani, e neppure le "vestali della classe media"
della sociologia anni '70, i nostri insegnanti cosa vogliono essere?
Buon 1° di maggio.
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