Da “Com'è
povero il mondo chiuso in un telefonino” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del 16 di gennaio dell’anno 2016: Siamo "malati" di
social network? No: è quel modo di comunicare la vera malattia. (…). …malata è
la forma che ha assunto la comunicazione di massa, dove chi riceve un messaggio
finisce per leggere le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente
scrivere, e chi scrive narra le stesse cose che potrebbe leggere inviate da
chiunque. Il risultato è una sorta di "comunicazione tautologica"
che, paradossalmente, finisce per abolire la necessità e, al limite, l'utilità
della comunicazione. Tuttavia non vi si rinuncia perché, (…), lo scopo di
questo tipo di comunicazione è "il desiderio di costruzione di un nuovo io
e la ricerca di approvazione". Due cose che denunciano da un lato la non
accettazione di sé, e dall'altro quella forma d'insicurezza che affida
all'approvazione degli altri il riconoscimento di chi si vorrebbe essere e non
si è. La non accettazione di sé incomincia dal corpo che, dall'adolescenza fino
alla vecchiaia, si chiede alla chirurgia estetica di poter modificare, per poi
estendersi all'immagine di sé, offrendo sui social network una descrizione che
non risponde a quel che si è, ma a quel che si presume possa essere approvato
dagli altri. Così ci si mette in mostra come i prodotti si mettono in vetrina.
E senza accorgercene diventiamo una "mostra" che chiunque può
visitare. E poi approvare o disapprovare, non argomentando - non si può con 140
caratteri - ma scrivendo semplicemente "mi piace" o "non mi
piace". Argomentare è difficile, perché per farlo occorre saper pensare e
parlare. Stante il livello culturale delle nostre scuole, tale che l'Ocse
colloca gli italiani all'ultimo posto in Europa per la comprensione di un testo
scritto, ci esprimiamo con il linguaggio atrofico e impoverito proprio dei
telefonini. Prova che le invenzioni tecniche non sono mai solamente
"tecniche", perché ogni tecnica comporta una modalità d'uso che
plasma chi la usa, indipendentemente dall'uso che ne fa. I messaggi diffusi nei
social hanno una vita breve che si consuma, come tutte le cose in una società
dei consumi spinta all'eccesso, per cui il tempo della riflessione e del
pensiero si estingue in quel tempo breve della risposta emotiva non pensata e
non riflessa. Se poi vogliamo considerare i danni fisici, che potrebbero
preoccupare anche chi non è interessato al pensiero, mi diceva un primario di
oculistica che i giovani d'oggi non sanno più vedere a distanza, e la preside
di un liceo artistico mi riferiva che i suoi alunni non riescono più a
percepire la prospettiva. È un mondo accorciato, un mondo ridotto a quella
breve distanza che separa il mio occhio dal telefonino, che mi fa vedere non il
mondo reale ma il mondo in immagine, non di rado manipolato dagli operatori di
mercato che riescono a intercettare anche i nostri gusti, per vendere gli
oggetti che li soddisfano. Ma si può prescindere da questi mezzi di
comunicazione oggi diffusi su vasta scala? No. Perché, siccome il mondo della
comunicazione passa attraverso questa rete, uscirne equivale a un'esclusione
sociale. E nessuno vuole provare l'angoscia e la solitudine di questa
esclusione.
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