Da “La
Storia non siamo (più) noi” di Marco Damilano, pubblicato sul settimanale L’Espresso
del 23 di novembre dell’anno 2017: (…). Il potenziale Astenuto di sinistra, il
nuovo personaggio che avanza in vista della campagna elettorale, non passa più
il tempo a pensare al futuro del mondo e dell’Italia. Ha deciso che basta così.
Si prepara a disertare le urne. Disgustato, indignato, o semplicemente
indifferente. È la fase dell’impolitica, l’ha definita l’ex presidente della
Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky sulla Stampa, «la fase suprema
dell’antipolitica, quando non si crede più neppure al populismo»:
«L’antipolitica è un’energia che può essere mobilitata “contro”: i partiti, i
politici di professione, la democrazia parlamentare, è un atteggiamento in un
certo senso attivo. L’impolitica è l’esatto contrario: è un atteggiamento
passivo, di ritrazione, di stanchezza. Un modo di dire: lasciatemi in pace». Un
intellettuale lontano da Zagrebelsky come Ernesto Galli della Loggia è arrivato
alle stesse conclusioni: «Certo, dietro l’astensione ci sarà in molti casi il
torpore, l’eco tuttora viva di un antico qualunquismo. Ma sempre più spesso
sembra di percepire in essa un sentimento ben diverso: qualcosa che assomiglia
a una rassegnata disperazione. O forse meglio una disperata rassegnazione. La
rassegnazione al vuoto politico», ha scritto sul Corriere della Sera (11
novembre). Un senso di stanchezza e di rabbia, o mancanza di fiducia nella
politica e nella sua utilità, rilevato in tutte le ultime consultazioni
elettorali: in Sicilia alle elezioni regionali del 5 novembre ha votato il 46
per cento degli aventi diritto; nel decimo municipio di Roma, a Ostia,
addirittura il 36 per cento. Certo, si votava per il presidente e per il
parlamentino di quelle che fino a qualche anno fa si chiamavano circoscrizioni.
Ma tre anni fa, quando andò al voto la regione rossa per eccellenza, l’Emilia
Romagna, il risultato non fu molto diverso: appena il 37 per cento dei votanti,
nella terra dove la partecipazione politica è considerata un pezzo
dell’identità individuale, non solo collettiva. Eppure in pochi, a sinistra,
colsero il segnale di allarme. Anche perché i politici di ogni colore preferiscono
contare i voti di chi va alle urne, non si interessano a chi resta a casa.
Sbagliando, quasi sempre, ancora di più se a commettere l’errore sono gli
strateghi delle varie formazioni di sinistra o di centro-sinistra. Perché è
sempre più evidente che è lì, nel cuore dell’elettorato impegnato o
post-impegnato, che si muove la tentazione del non-voto o comunque del
disimpegno. Il Neo-disimpegnato di sinistra, oggi potenziale astenuto, nei
decenni passati si è mobilitato per tutte le cause possibili: è stato via via
operaista, ambientalista, femminista, pacifista, girotondino. Ha sfilato con la
Cgil di Sergio Cofferati e con il movimento di Nanni Moretti, è stato
anti-berlusconiano, prima ancora anti-craxiano e nella notte dei tempi, ormai,
anti-democristiano, e ovviamente è stato comunista. Ha portato la lotta come
una moda, ma in realtà è sempre stato moderato. Per una certa generazione il
tempo si è fermato, forse, il giorno dei funerali di Enrico Berlinguer, nel
1984, come è successo al personaggio del romanzo di Walter Veltroni “Quando”,
che entra in coma durante le esequie di massa, l’ultima manifestazione
autenticamente popolare del Pci, e si risveglierà trentatré anni dopo in un
mondo mutato e irriconoscibile. «Era finito il partito, non quella voglia di
cambiare il mondo, vero?», domanda inquieto nel romanzo Giovanni (in una
precedente opera narrativa veltroniana di undici anni fa, “La scoperta
dell’alba”, il protagonista si chiamava profeticamente Giovanni Astengo). In
un’altra pagina Giovanni incontra il food, «ristoranti cinesi, indiani,
giapponesi, thailandesi. Cibi prodotti nel rispetto dell’ambiente e degli
animali. Per il suo sistema di valori, almeno nel mangiare, il socialismo, in
questi trentatré anni, sembrava davvero essersi realizzato». Almeno a tavola,
dove, si sa, finiscono le rivoluzioni. Il Neo-disimpegnato ha celebrato con
riluttanza i quarant’anni del Settantasette e altrettanto si prepara a fare con
i cinquant’anni del Sessantotto. Appagato di sé e del suo presente e futuro personale
e professionale, (…), non ha più tempo e voglia di occuparsi del mondo che nel
frattempo è sempre grande e terribile, ancor più di prima. Di fronte a questa
impossibilità di capire e di provare coinvolgimento per quello che un tempo era
la sfera delle passioni più forti, la politica, il Neo-disimpegnato preferisce
ritirarsi nel suo lavoro, nella coltivazione di soddisfazioni minori e
strettamente personali. E rifiuta di continuare a essere quello che è stato per
molti anni: un punto di riferimento, una bussola di orientamento, qualcuno che
aveva qualcosa da dire. Quel qualcosa oggi non c’è, non c’è più, e quel che c’è
forse imbarazza dirlo: ecco perché molti intellettuali negli ultimi anni hanno
scelto la strada del silenzio, dell’afasia che nasconde in alcuni casi una
difficoltà di capire e il pudore di intervenire su questioni che non si
comprendono più, in altri un adagiamento definitivo sulle comodità del tempo
presente, le loro, sia chiaro, e sull’impossibilità di cambiarlo. C’è poi
l’astenuto di sinistra per così dire militante. Il contrario del disimpegnato o
del qualunquista. Quello che non va a votare per scelta, per segnalare la sua
presenza, per partecipazione viscerale, la reazione ai tormenti esistenziali
cui lo stanno sottoponendo da anni i massimi leader e i piccoli capetti della
sinistra italiana. E che trova nelle cronache di questi giorni e di queste
settimane nuovi motivi per stare lontano dalle urne.
Il balletto delle
alleanze, tra il Pd e quel pezzo di partito che a febbraio è uscito guidato
dall’ex segretario Pier Luigi Bersani. L’incarico di esplorare le possibilità
di un’intesa assegnato a un politico serio e tenace come Piero Fassino, che
però rischia di finire nella classica giungla dei veti incrociati. I due presidenti
delle Camere, due figure rispettabili e stimate come Pietro Grasso e Laura
Boldrini, che nel vuoto di leadership sono spinti da una dinamica inesorabile a
schierarsi, e finiscono contrapposti sul piano mediatico, nella babele senza
regista di assemblee e contro-assemblee. Il contrordine compagni del duo Tomaso
Montanari e Anna Falcone, che disdicono l’invito per la loro manifestazione e
tuonano contro i politici che hanno tradito i civici. Su tutto, l’ombra di
Massimo D’Alema, così presente nell’immaginario da spingere Oliviero Toscani a
proporre chissà quanto inconsciamente di mettere la parola Max nel simbolo del
futuro partito. I tentennamenti di Giuliano Pisapia che reprime a fatica la
voglia a sua volta di mandare tutti al diavolo. E le manovre di Matteo Renzi,
che dopo una legislatura tutta giocata su una strategia di raccolta di voti
centristi, moderati, post-berlusconiani, a poche settimane dal voto si
riconverte alle alleanze a sinistra. Intanto, il potenziale astenuto, per
rabbia o per disperazione, accumula nuove motivazioni. C’è poi l’astenuto che
rappresenta il corpo centrale della società italiana. «Un tempo si diceva che
le elezioni si vincevano al centro: ora è cambiato, gli estremismi fanno il
pieno di voti e il centro è diventato più piccolo, è spaventato, non va più a
votare», analizza il prodiano ex ministro Giulio Santagata. Il centro della
società, ovvero i lavoratori dipendenti, gli insegnanti, il pubblico impiego, i
pensionati, rappresentano il blocco sociale residuo del centro-sinistra e del
Pd. È lì che si combatterà la battaglia elettorale. Questo elettorato era stato
inizialmente gratificato da Renzi con gli 80 euro, una misura che doveva
servire a rafforzare il blocco antico e a porre le premesse per uno nuovo. Una
coalizione renziana da costruire nella società prima che nella politica, su
modello di quelle americane (la coalizione rooseveltiana), destinata nelle
intenzioni a durare anni. Invece la magia è svanita subito, lasciando posto
alla delusione. Che si è manifestata fragorosamente nelle urne un anno fa, nel
voto per il referendum costituzionale del 4 dicembre. Un anno fa l’affluenza fu
del 65, 4 per cento, elevatissima se paragonata a elezioni amministrative,
regionali e ai referendum abrogativi. Segno che la maggioranza silenziosa degli
elettori, invocata da Renzi nel 2016 alla vigilia del voto, non si è consegnata
all’area del non-voto in modo definitivo, una volta per tutte. Decide semmai
caso per caso. È il dato che più interessa in vista dello scontro elettorale del
2018, anche se non è scontato che l’appello a non astenersi porterà al
risultato sperato. C’è infine l’astenuto suo malgrado. Quello che vorrebbe
votare, ma non può. Come succede domenica 19 novembre a Ostia, dove si è
verificato quello che per poco è stato evitato un anno e mezzo fa alle elezioni
comunali di Roma: un ballottaggio tra una candidata del Movimento 5 Stelle e
una di Fratelli d’Italia, con il Pd che non si schiera al secondo turno e gli
elettori di sinistra che restano a guardare. Non solo il giorno del voto: alla
manifestazione antimafia della settimana scorsa iscritti e militanti del Pd,
tra loro molti giovani, hanno deciso di sfilare contro il clan degli Spada
nonostante l’indicazione contraria del partito. Hanno deciso che non si poteva restare
a casa. Perché la storia (non) siamo (più) noi, non passa più dalla sinistra.
Ma che non finisce la voglia di identificarsi con le sue bandiere: «Sono
rimasto “di sinistra” perché mi risulta tuttora impossibile credere che
l’umanità non rassomigli alle sue parole migliori, non si adegui alla loro
esemplare eloquenza, alla loro disciplina e al loro stile, che tutti gli esseri
umani non diventino “libertà, fraternità, uguaglianza” al semplice suono di
quelle tre parole», scrive Michele Serra in “La Sinistra e altre parole”, in
uscita per Feltrinelli. (…). E che, di sinistra o no, siamo stati privati
perfino della possibilità di cantare “Viva l’Italia”.
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