Ho avuto modo di conoscere,
letterariamente parlando, il professor Raffaele Simone, linguista, leggendo il
Suo straordinario lavoro che ha per titolo “Il
mostro mite” – Garzanti (2008) pagg. 170 € 12,00 -. E come mia abitudine,
nel corso della lettura, avevo preso nota di un passo molto interessante di
quel lavoro, alla pagina 113, che trascrivo: “(…). …si è indebolita la
capacità di tener distinte realtà e finzione, uno dei pilastri della
razionalità occidentale. La finzione si distingue in due livelli di natura
diversa: il finto e il fasullo. Verso il primo abbiamo di solito un
atteggiamento positivo, che può essere anche di desiderio e di ricerca: benché
le narrazioni fantastiche (letteratura, cinema, sogno) siano finzioni,
nondimeno ne abbiamo bisogno. In esse si appaga qualcosa che è connaturato alla
mente umana in modo complicato. Verso il fasullo, invece, abbiamo un
atteggiamento di diffidenza e sospetto: le cose fasulle rientrano nella sfera
della contraffazione, dell’inganno, della sostituzione abusiva, sono connesse
alla truffa e all’impostura. (…). Il finto si associa all’invenzione, al trucco
e anche al divertimento; il fasullo alla bugia e all’inganno. (…).”. Dotta
e sottile l’argomentazione dell’illustre Autore. Ci riconduce, essa, alla
condizione esistenziale vissuta da un buon quarto di secolo - imperante prima l’uomo
di Arcore, poi l’uomo venuto da tal Rignano sull’Arno - nel bel paese, nel
quale quarto di secolo si sono perse le giuste coordinate per una distinzione
chiara e pronta tra la realtà del vivere e la sua rappresentazione più becera e
malvagia al contempo, per cui si registra un navigare senza senso che
immancabilmente ha portato larghissimi strati sociali ad essere vittime,
inconsapevoli per tanti versi, del “fasullo” più sfrontato che si possa
immaginare. È che sembra siano venuti meno quegli atteggiamenti “di
diffidenza e sospetto” che in verità avevano fatto da sempre parte del
connaturato storico ed antropologico degli abitatori del bel paese. Come sia stato
possibile è l’arcano del tempo che ci è dato di vivere? Quale magia, o meglio
quale malìa, ha potuto ottenebrare menti e coscienze in larghissimi strati
sociali da condurre alle condizioni di smarrimento oggigiorno vissuto? Ho
ritrovato il professor Raffaele Simone su di una pagina del 3 di marzo dell’anno
2011 amorevolmente conservata del quotidiano “la Repubblica” in un’intervista
rilasciata a Franco Marcoaldi che ha per titolo “Le buone azioni dello scettico”. Di seguito la trascrivo in parte:
(…).
«Cominciamo col dire che in italiano, a differenza di altre lingue, si può
credere a qualcosa o a qualcuno, ma anche in qualcosa o in qualcuno. A, in –
queste due diverse preposizioni aprono una crepa semantica interessante.
Credere a significa dare credito alle dichiarazioni verbali di qualcuno.
Credere in ha invece una doppia valenza. Se io credo in un mio alunno, è perché
penso che nel futuro farà belle cose, avrà fortuna. Confido nella speranza di
una sua affermazione positiva. L´altro senso del credere in poggia invece con
fiducia su ciò che qualcuno fa, asserisce o è. Se affermo di credere nella
sinistra, per esempio, questo non implica che avrà fortuna o si imporrà, ma che
i suoi valori e il suo progetto politico mi convincono».
Proviamo a calare queste
distinzioni semantiche nell´Italia di oggi. «Quanto al credere a qualcuno, gli
italiani credono sin troppo. Siamo anzi un popolo di creduloni. Ovvero di
persone che per una serie di motivi storici tendono a prendere per buono tutto
ciò che viene loro raccontato. Anche perché abbiamo una scarsa cultura del dato
di fatto. Ed è un fenomeno che si riflette poi sulle più diverse forme di
credulità: dalla magia superstiziosa al bigottismo miracolistico, per finire
con il potente di turno, il quale può dichiarare ciò che vuole, tanto sa che
sicuramente qualcuno gli crederà».
Passiamo al credere in. «Temo che
non si creda in nulla, in senso proprio. I valori condivisi sono deboli e
quelli forti mancano del tutto: penso all´idea di patria, storia, bene
pubblico, istituzioni, memoria. Sì, ogni tanto vengono agitati in modo
pretestuoso, ma senza incidere nella convinzione intima delle persone. Non sono
uno storico, ma ormai tra esperienze, letture e incontri, qualche idea me la
sono fatta. Tutto rimanda a quella triade diabolica, ancor oggi viva e vegeta,
che fu raccontata con micidiale chiarezza nei Promessi sposi. E cioè: prima di
tutto, marcata presenza straniera, che allora significava dominazione spagnola
e oggi si manifesta in una colonizzazione culturale, oltre che economico-
politica, dettata dalla globalizzazione. Secondo, centralità delle mafie: si è
passati da don Rodrigo a Provenzano, ma la musica non cambia. Terzo, il ruolo
strabordante della Chiesa. Queste tre entità hanno reso inutile credere in
qualunque idea. Mentre invece si crede via via al potentato prevalente, per
opportunismo, convenienza o paura. La vicenda politica degli ultimi vent´anni,
in questo senso, è emblematica: è difficile pensare che la maggior parte degli
italiani che dicono di credere in Berlusconi credano veramente in lui».
E dunque? «Dunque ci deve essere
qualcosa sotto. Magari quella che nella Francia del tardo rinascimento veniva
chiamata servitù volontaria, la bramosia di sottomettersi a qualcuno. Oltre,
naturalmente, al desiderio di dare una lezione a quelli lì. Che sono poi la
sinistra, gli intellettuali, lo Stato».
Facciamo un passo indietro:
Nicola Chiaromonte, (…), sostiene che nel tempo della malafede le menzogne
utili sostituiscono le verità inutili. «Una definizione che si attaglia
perfettamente al nostro caso. Ormai tra ciò che si pensa, quel che si dice e
come stanno effettivamente le cose, c´è una totale scissione. La percezione del
reale, nel discorso pubblico italiano, si è talmente attenuata che si ha spesso
l´impressione che i fatti si siano dissolti».
L´alterazione strutturale del
rapporto vero, falso, fittizio, è un tema che lei tratta, su scala globale,
anche nel suo libro Il Mostro Mite, edito da Garzanti. E torna quanto mai utile
per indagare il tema delle credenze. «Abbiamo vissuto contemporaneamente due
curvature oppressive, che hanno avuto riflessi importanti in campo cognitivo:
quella della globalizzazione e quella del berlusconismo, che ha potuto
sfruttare il medium globale per eccellenza, la televisione, ormai completamente
scollata dalla realtà. I molti che la mattina per prima cosa guardano i
programmi di Rete Quattro o Canale Cinque non hanno più alcuna percezione della
vita reale. Pensi a un programma come quello della De Filippi: un vero e
proprio trionfo dell´irreale, un Truman Show dell´orrore. Quelli che ballano e
si dimenano seminudi sono assolutamente irreali».
In un contesto come questo, lei a
quali convincimenti si attiene? In cosa crede? «Io mi dichiaro, solo con una
sfumatura di scherzo, un marxista leopardista. Conosce questa etichetta?».
Se non sbaglio è di Sebastiano
Timpanaro. «Giusto. Filologo, storico, filosofo, tra le menti più acute che
abbia avuto questo paese, Timpanaro ci ha offerto di sé questa definizione.
Marxista, perché crede nei contrasti violenti della realtà sociale e cerca di
combatterli; leopardista, perché accompagna la sua lotta con una forma di
sostanziale scetticismo. E insieme confida in una riserva di energia mentale
sufficientemente ricca da permettergli di agire. In sintesi: finché stiamo qui,
sebbene sia tutto vano, diamoci da fare».
Se non altro per capire. Per
riconoscere, ad esempio, le nuove forme di credenza. «Centrali, tra queste, mi
sembrano il culto del corpo e quello dell´anima. Il primo è cosa relativamente
recente. L´operazione fitness, se portata alle sue estreme conseguenze, impone
anch´essa quella falsificazione della realtà di cui si parlava in precedenza.
Il mito dell´eterna giovinezza mi costringerà a guardarmi allo specchio, piena
o pieno di silicone, riconoscendomi in una persona che non sono più io. Quanto
al culto dell´anima, risale all´avvento della psicanalisi e si estende poi
grazie a forme sempre più plebee di psicologismo dozzinale. La scuola
occidentale odierna, e non solo quella italiana, è la più psicologizzata di
tutta la storia. L´anima del bambino, la sua affettività, il suo vissuto, sono
diventate preoccupazioni preminenti dell´istituzione scolastica. Del resto,
anche il vago bisogno di religione e spiritualità va in questa direzione, in
direzione del sincretismo. Io parlerei addirittura di fusion: si pesca un po´
qua e un po´ là, nella speranza che qualcuno, o qualcosa, faccia stare meglio
il fantolino che abita dentro di noi». (…).
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