Il giovedì 14 di aprile dell’anno
2011 appariva su questo blog – per la serie “Mediaculturapotere” - un
post che aveva per titolo “Lo strumento
del demagogo”. I tempi incerti e malmessi di allora ne giustificavano il
titolo. Trascorso un quadriennio abbondante ci si ritrova sempre di più incerti
e sempre di più malmessi. Per dare una misura in qualche modo certa dello stato
di degrado oggigiorno dilagante riporto quanto ha scritto di recente Silvia
Truzzi su “il Fatto Quotidiano” del 28 di giugno 2015 – col titolo “La reputazione è scomparsa, si può perdere
la faccia” -: (…). Il fatto è che le persone hanno molto più frequentemente qualcosa
da dire che qualcosa da chiedere. Perché chiedere implica curiosità, attitudine
all’ascolto. Una roba d’altri tempi. Oggi abbiamo sempre qualcosa da dichiarare
in proprio, anche su argomenti molto complicati: più la tecnologia semplifica
le comunicazioni, più aumenta il coro di commentatori ed esperti delle materie
più disparate. Spuntano come funghi improvvisati politologi che vogliono dare
lezioni a Sartori, insieme a critici televisivi, giornalisti narratori,
giuristi orecchianti che commentano riforme costituzionali sapendo a malapena
cos’è la Carta. I network creano mostri, in un frainteso senso di egalitarismo
per cui tutte le opinioni sono uguali. Il gioco però si trasforma, per forza,
in un appiattimento verso il basso. Dove vale tutto, compreso interrompere
urlando per “attirare l’attenzione” nell’equivoco (ormai insanabile) che il
proprio io sia davvero molto interessante. O che la propria battaglia sia al
centro degli interessi del mondo. L’educazione non è un valore, anzi. Piace la
boutade, la provocazione è diventata la miglior giustificazione alle
sciocchezze, l’insulto spopola. Il guaio è che è diventato impossibile perdere
la faccia, perché la reputazione non esiste più: si può dire e fare tutto,
senza rimetterci niente. Nulla ha più una sanzione sociale: dire sciocchezze,
fare sgambetti, comportarsi male, violare le regole, offendere. Del resto quel
che sono le élite è sotto gli occhi di tutti, perché il popolo – ammesso che
esista ancora e non sia stato sostituito con la più funzionale “gente” –
dovrebbe essere meglio? Il massimo che si può fare, forse, è mettersi in
disparte e non contribuire alla prevalenza del cretino. Scrivevo in quel
giovedì 14 di aprile dell’anno 2011…
Ha scritto
Jurgen Habermas nel Suo editoriale “La
politica senza qualità”, editoriale di recente pubblicato sul quotidiano
“la Repubblica”: (…)… si delinea un'idea
della democrazia che il New York Times, (…), ha bollato col termine di
post-truth democracy. Nella misura in cui la politica condiziona tutto il suo
agire all'imperativo di trovarsi in sintonia con gli umori del pubblico,
rincorrendoli da un'elezione all'altra, la prassi democratica perde il suo
significato. Il senso del voto democratico non è quello di fotografare la gamma
delle opinioni quali si manifestano allo stato brado, bensì di riflettere il
risultato di un processo pubblico di formazione dell'opinione. (…). I media non
sono certo estranei alla deplorevole mutazione della politica. Se da un lato si
inducono i politici a lasciarsi andare a esibizioni autoreferenziali di breve
respiro, dall'altro i palinsesti subiscono il contagio della fretta che nasce
dall'occasionalismo. Negli innumerevoli talk show, con i loro vivaci moderatori
(e moderatrici) - sempre gli stessi - ammanniscono al pubblico un impasto di
opinioni ridotte a una specie di poltiglia, tanto che anche l'ultimo dei
telespettatori perde ogni speranza di trovare tra i temi politici qualche
motivazione che conti veramente. Anche i media di maggior rilievo sono
contaminati da un processo di crescente fusione tra le classi politica e
mediatica - cosa di cui vanno addirittura fieri. (…). Sembra che la “cattiva” (o la “mala”) politica scacci la “buona”
politica così come, per una legge universalmente riconosciuta dell’economia –
coniata da tale sir Thomas Gresham, mercante e finanziere inglese del secolo
sedicesimo, legge invocata sorprendentemente più dai moralisti che dagli
economisti - la “cattiva” moneta
scacci sempre la “buona” moneta.
Sembra che si sia realizzata la più perfetta delle compenetrazioni tra due
delle sfere dell’agire umano, la sfera della politica, per l’appunto, e la sfera
dell’economia che, dalla prima, non viene regolata convenientemente ma lasciata
andare a briglia sciolta onde ricavarne lauti sostegni ed appannaggi vari.
Sembra che l’effetto perverso di cui si è parlato si sia potuto realizzare, al
meglio, proprio nell’era definita della massima “comunicazione” o della
“comunicazione” globale. Sembra che, dei tre poteri individuabili nella sfera
degli umani, il politico, l’economico ed il simbolico, per circostanze
colpevolmente trascurate dalle neglette caste della politica e non affrontate e
perseguite a tempo nelle forme proprie della democrazia, quelle tre forme dicevo,
sotto le quali il potere si esemplifica e si sostanzia, si siano trovate ad
essere appannaggio di singoli, assurti non inopinatamente al ruolo di demagoghi,
contro i quali ben difficile sarà la battaglia finale. Della terribile
commistione ne parla dottamente il professor Gustavo Zagrebelsky nella Sua
prolusione ai lavori della “Biennale
Democrazia” che si svolgerà nella città di Torino. Un estratto della Sua
prolusione è stato pubblicato dal quotidiano “la Repubblica” con il titolo “I padroni dei simboli”, estratto che
di seguito trascrivo in parte. (…). Il potere
simbolico, (…), di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più
debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed
è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una
relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo
medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti
d´una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una
formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile
fragile e bisognoso di sostegno e l´economia curtense non rappresentando un
centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la
cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a
visioni del mondo d´altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non
il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la
funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con
la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con
l´economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto
condizionare, se non comperare. Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico
nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le
cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee
che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel
blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in
senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un´epoca
definita come quella del finanzcapitalismo e del grande saccheggio, del valore
estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d´interessi
che nasce la commistione di schemi di pensiero, valori e modelli di
comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks,
opinionisti ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura
della loro consonanza. L´influenza sul pubblico è poi assicurata dall´accesso a
strumenti di diffusione capillari e omologanti. La funzione simbolica diventa
così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano
circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono
il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro
ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente.
Se increspature all´omologazione vi sono, riguardano il folklore o l´arte
d´avanguardia; l´uno a benefizio dei molto semplici, l´altra a beneficio dei
molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è
la massa quella che conta. Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso
è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio
di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in
particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo
così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia,
promozione di lealtà e di sentimento d´appartenenza. Se qualcuno se ne
impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come
pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di
dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare
strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il
diapason del potere totalitario. Lo strumento del demagogo opera la più ardita
delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo
popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la
stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli
terzi perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le
aspettative, le speranze convergenti del suo popolo. Napoleone, Franco,
Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim
il-Sung e, esemplarmente, l´orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure
moderne di questo genere d´identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità,
vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè
come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi,
cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati,
costruendole su simboli terzi. Sono soverchiate dagli uomini del potere che
esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte
riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi,
direttamente, in istituzione e legge. Il simbolo si confonde col corpo e viceversa.
(…). Le regole sono impicci, le costituzioni gabbie, la legalità angheria. Il
senso delle istituzioni, che distingue l´etica pubblica dalla morale privata,
diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono
equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune
private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono
disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano
non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto
il primo sia stato eletto dal secondo e l´elezione sia concepita come
investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall´identificazione simbolica del
capo con il popolo e del popolo con il capo. L´arbitrio del capo,
simbolicamente, non è più tale, ma diventa l´onnipotenza del popolo, che può
esibirsi come la forma più pura di democrazia. Questa versione del simbolo,
però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei
diaboli. Infatti, si traduce nell´esaltazione del potere personificato, che è
l´esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere
fattore d´unificazione terzo, cioè impersonale, cioè nemico d´ogni demagogia.
Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa
della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui
essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così
per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità,
disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si
mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te,
perché tu ti riconosci in noi.
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