"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 29 luglio 2015

Sfogliature. 42 “Vivere da puffi”.



L’otto di ottobre dell’anno 2011 compariva, sulle ultime pagine di questo blog allocato al tempo su di un’altra piattaforma della immensa rete e fortunosamente sopravvissuto, per la serie “Mediaculturapotere” il post numero 55 che portava per titolo “Vivere da puffi”. Un presentimento allora, non sospettandosi minimamente il “cambiamento di verso” che avrebbe portato il cosiddetto bel paese a “puffare” a più non posso, a tutti i livelli della scala sociale. E sì che al tempo nel bel paese si era alle prese con ben altri argomenti, ovvero si parlava con grandissima erudizione di “cene eleganti” e di “bunga-bunga” e di quant’altro ancora possa afferire al priapismo della “casta politica” al tempo dominante, ma da quegli indecorosi scenari di puro esibizionismo virile scivolare poi all’infantilismo proprio dei “puffi” ne passa ed avanza. No che quegli scenari fossero preferibili a quelli oggigiorno imperanti, ma una caritatevole speranza, alla conclusione di quell’infausto infernale periodo politico, spingeva a pensare ad una resipiscenza della politica e della gente tutta del bel paese affinché, allo stesso fossero, fossero evitate altre disavventure di carattere politico-istituzionale. Ed invece niente, dal priapismo di allora all’invadente, inconcludente, scanzonato “puffare” di questa canicolare stagione. Rileggiamo le “cosucce” di quel tempo, nell’era avanti a quella dei “puffi”:
(…). Adesso parliamo per i grandi. Perché le storie dei puffi hanno un grande rilievo filosofico, o almeno semiotico. (…). Dunque i puffi vivono nella foresta, sono blu, piccolissimi, di età indefinita, salvo il Gran Puffo, che è vecchio e ha la barba bianca (i puffi vivono in una società gerontocratica perfetta dove tutti sono più o meno infanti e c’è solo un anziano, depositario autoritario ma paterno di tutta la saggezza, compreso il laboratorio alchemico dove distilla filtri ineffabili e segreti). Hanno un nemico, un mago di formato umano (i puffi sono alti come un fungo ben messo), uno stregone cattivo che nella traduzione italiana si chiama Gargamella e che cerca sempre di catturarli e scoprirne i segreti. Tutti i puffi si chiamano Puffo e si assomigliano come gocce d’acqua. Ciascuno è peraltro diverso, c’è il puffo scontento, il puffo secchione con gli occhiali, il puffo goloso, il puffo ambizioso eccetera. Ma poiché, come si è detto, ogni puffo si chiama Puffo, li si distingue solo dalle azioni che compiono e dalle cose che dicono. Una volta decidono di fare le elezioni (per prendere il potere in assenza del Gran Puffo) e ciascuno vota naturalmente per Puffo, così viene eletto Puffo, ma come capita è difficile definire chi sia (anche se un puffo prende poi il potere sugli altri puffi, combinando un sacco di guai e instaurando il culto della personalità). Essi vivono nel paese dei Puffi, nel villaggio Puffo, sotto alla catena dei monti Puffi, vicino al ponte sul fiume Puffo e al lago Puffo. Cosa fanno i Puffi? La domanda mi pare idiota. Naturalmente puffano tutto il santo puffo. Puffano puffi, si puffano a vicenda, si scambiano puffi, e uno puffa l’altro. Quando uno puffa gli altri lo puffano, e il puffo che ne segue è di solito molto puffo. Qui ho confuso forse le idee al lettore, perché gli ho dato provocatoriamente una idea del linguaggio puffo, ma non gli ho permesso di capire cosa dicessi. In questo senso non ho parlato in puffo nel modo corretto: perché la qualità del puffo è che lo si capisce benissimo. Anche se – e qui veniamo al punto – in questo linguaggio, ogni volta che è possibile, nomi propri e comuni, verbi e avverbi vengono sostituiti da coniugazioni e declinazioni della parola «puffo». (…). …nell’originale francese, i Puffi si chiamano Schtroumpf e schtroumpfano. Si potrebbe dire che ciò cambia molto le cose sul piano fonetico, ed è vero. (…). Nella storia il puffissimo, un puffo decide di conquistare il potere e inizia una campagna elettorale. …la prima parte del suo discorso suona così: «Domani voi andrete alle urne per puffare il vostro puffo. A chi pufferete i vostri voti? A un puffo qualunque che non vede al di là del proprio naso? No! Vi occorre un puffo forte su cui voi possiate puffare senza puffa! E io son quel puffo! Forse qualcuno che stasera non è presente oserà puffare che io vado puffando onori! Ma questo è indegno di un puffo». (…). Ma continuiamo, nella vignetta seguente lo schtroumpf candidato dice: «Io voglio il puffo di tutti e mi pufferò sino alla morte perché la puffa regni tra voi. E quello che io puffo lo pufferò! Puffi, ecco il mio programma. E sono quindi convinto che voterete per me! Viva i puffi! Viva io!». (…). …il linguaggio puffo sembra mancare di tutti i requisiti necessari a una lingua funzionante. (…). Secondo i princìpi della linguistica tradizionale (o linguistica della frase) la lingua puffa non dovrebbe permettere la comunicazione tra i membri del gruppo. Follia: i puffi si capiscono benissimo e noi capiamo loro. (…). La lingua puffa sarebbe incomprensibile se fosse tutta scritta o tutta parlata, senza riferimento alle immagini. Limite del fumetto? Macché! Una lingua umana è parlata a fumetti. Infatti noi la parliamo nelle circostanze concrete di emissione o di enunciazione. In verità la nostra lingua umana puffa sempre. Noi diciamo «questo» e «quello» e sarebbero espressioni incomprensibili se, nel contesto parlato, o nella circostanza esterna (rinvio alla percezione, a quanto si vede, si tocca o si è visto e toccato prima – o annusato) noi non vedessimo a fumetti quello di cui si parla. (…). Com’è l’universo psicologico dei puffi, ovvero il loro universo percettivo? Essi dicono «portami un puffo» e, a seconda della circostanza, sanno se il parlante intende un uovo, un fungo, un badile. Dunque hanno una sola espressione («puffo») ma un sistema abbastanza ricco di contenuti, almeno tanto vasto e articolato quanto le esperienze consentite dal loro Umwelt (quello che i segretari di sezione chiamano «territorio»). Potremmo addirittura supporre che in certi contesti essi dicano «portami un puffo» per chiedere un uovo, ma in altri contesti dicano l’«uovo di Puffa» per dire l’uovo di Pasqua. Quindi non è che non posseggano tutto il lessico della lingua-base, semplicemente decidono quando non usarlo, per ragioni di economia. Tuttavia l’usare una sola parola per tante cose non li indurrà a vedere le cose, tutte, unite da una strana parentela? Se è puffo un uovo, un badile, un fungo, non vivranno in un mondo dove i legami tra badile, uovo e fungo sono molto più sfumati che non nel mondo nostro e di Gargamella? E se fosse così, questo conferirebbe ai puffi un contatto più profondo e ricco con la totalità delle cose, o li renderebbe inabili ad analizzare in modo «corretto» la realtà, recintandoli nell’universo impreciso del loro villaggio senza storia? E in questo caso, la loro apparente felicità di eterni bambini non sarebbe pura mistificazione (…)? Forse che i puffi sono infelici? Sono tutte questioni che non mi sento di risolvere qui. Né chiedetemi di spiegare meglio i concetti tecnici con cui ho cercato di analizzare la lingua (o il linguaggio) dei puffi. Se foste dei buoni puffi non avreste bisogno di altre precisazioni, e puffereste per conto vostro. Ma era solo per dire che la saga dei puffi è abbastanza rivelativa, andrebbe insegnata e discussa a scuola (anche all’Università), ed è degna di ampie meditazioni. Non è solo un gioco, e se lo è, è un gioco linguistico: una cosa molto, ma molto schtroumpf. L’avete riconosciuto? È il celeberrimo saggio “Schtroumpf und Drang” che Umberto Eco pubblicò sul numero 5 della rivista «alfabeta» nell’oramai lontanissimo settembre dell’anno 1979. Un’era glaciale addietro. C’erano, forse, ancora i dinosauri. Quelli della politica, almeno. Scomparsi? Non mi pare. Vi sentireste di definirlo, quel saggio, un semplice “divertissement” dell’illustre semiologo? Leggetelo e rileggetelo. Non ci trovate alcuna attinenza con la semplificazione della lingua perpetrata in tutti questi decenni di imperante dominio “televisivo”? Una semplificazione della lingua che è andata di pari passo con la semplificazione del “pensiero” collettivo. Sino al terrificante “ghe pensi mi” dei tempi nostri correnti. E laddove il “puffo” candidato professa: «Io voglio il puffo di tutti e mi pufferò sino alla morte perché la puffa regni tra voi. E quello che io puffo lo pufferò! Puffi, ecco il mio programma. E sono quindi convinto che voterete per me! Viva i puffi! Viva io!». Non vi sarà di certo sfuggito che è stato il tentativo – naufragato? – di semplificare la vita politica da parte del grande “puffo” d’Italia. Poiché anche il “puffo” dei “puffi” – per farne una distinzione - ha un’alta considerazione di sé stesso. È l’unto di turno, è il “puffo” della “provvidenza” in terra: «Domani voi andrete alle urne per puffare il vostro puffo. A chi pufferete i vostri voti? A un puffo qualunque che non vede al di là del proprio naso? No! Vi occorre un puffo forte su cui voi possiate puffare senza puffa! E io son quel puffo! Forse qualcuno che stasera non è presente oserà puffare che io vado puffando onori! Ma questo è indegno di un puffo». Semplificare la lingua ed il pensiero collettivo. Esisteranno sempre “puffi” più “puffi” degli altri. Come difendercene? È questo l’azzardo. Per non parlare della fattoria orwelliana con il “vecchio Maggiore” - Old Major -, che è il “suino” più “suino” degli altri. Oggi viviamo finalmente felici nel paese dei “puffi” e c’è un “puffo” più “puffo” degli altri, che gli altri gli stanno stanno a ruota, per “puffare” come meglio non si potrebbe fare. “Puffo” io che “puffi” anche tu. Credo proprio di non averci capito un granché di tutto questo “puffare”! In fin dei conti, a chi interessa di capire? Per ora “puffiamo” tutti allegramente. È il grande “puffo” che ce lo chiede.

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