Da “La
pagnotta del Quarto Reich” di Marco d'Eramo, sul sito di “MicroMega.net” del 17 di luglio 2015: (…). Vittime si sentono i tedeschi delle
sanguisughe greche che stanno succhiando il benessere così duramente
conquistato. Perché non c'è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la
crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci,
disonesti meridionali che vanificano l'alacre, parca, industriosa morigeratezza
dei paesi dell'Europa del nord: è assai istruttivo il rendiconto che Jacob Soll
ha pubblicato sul New York Times di un convegno di economia tenutosi a Monaco
di Baviera all'inizio di luglio, convegno a cui partecipavano nomi tedeschi di
rilievo come Hans-Werner Sinn, Clemens Fuest, Henrik Enderlein, Daniel Gros. Mentre
per tutto il convegno l'atmosfera era stata equilibrata, “quando gli economisti
tedeschi presero la parola nella sessione finale, un tono completamente diverso
prevalse nella sala. Dietro le teorie economiche e dietro i numeri venne un
messaggio morale: i tedeschi erano gli onesti gonzi e i greci corrotti
inaffidabili e incompetenti. Ambedue le parti erano ridotte a caricature di se
stesse: questa storia l'abbiamo sentita durante tutte le trattative, ma in
quella stanza era chiaro quanto grande fosse il risentimento che plasma le
opinioni degli economisti tedeschi”. (…). …è quasi surreale la rabbia che
traspira dai media tedeschi nei confronti di Atene: (…). …un paese che è
costretto a vendersi tutto, persino le isole, leggere che sono i greci che
stanno derubando i tedeschi sembra di sognare a occhi aperti. Rendersi conto
del vittimismo tedesco è forse l'aspetto più preoccupante nell'attuale vicenda
europea. Semplicemente perché, dopo 70 anni, ripropone in Europa una questione
tedesca che sembrava essere stata risolta per sempre. E forse gli storici
ricorderanno il luglio 2015 non solo come il mese in cui fu affossato il
progetto europeo, ma soprattutto come il momento in cui riemerse con forza la
questione tedesca, dove l'aggettivo “tedesco” non riguarda i singoli cittadini
della Germania, ma designa lo Stato e il governo politico ed economico tedesco,
la classe dominante tedesca. (…).
Ricordiamo che la Germania unita è una
costruzione statale recentissima nel panorama europeo, persino più giovane
della stessa Italia unita. E fin dalla sua riunificazione nel 1866, la Germania
ha posto all'Europa un “problema tedesco”: in 79 anni, prima di essere ridivisa
di nuovo, aveva scatenato due guerre europee (con l'Austria nel 1866 e con la
Francia nel 1870) e due guerre mondiali (nel 1914 e nel 1939): una media di una
guerra ogni 19 anni; (…). Tanto che dopo la seconda guerra mondiale, quando la
Germania fu divisa in due, molti condivisero la battuta che viene attribuita
allo scrittore francese François Mauriac: “Amo talmente tanto la Germania che
sono felice che ce ne siano due”. Quasi a confermare le parole di Mauriac,
appena dopo la riunificazione nel 1989, alcuni segnali avevano suscitato un po'
d'inquietudine: il ruolo della nuova Germania unita nel favorire la
dissoluzione della Jugoslavia e quindi nel suscitare il susseguente conflitto;
la fretta nell'annettere all'Unione europea i paesi dell'Est, una fretta che ha
provocato non pochi scompensi e problemi di dissonanza politica; una certa
megalomania imperiale nei piani di ricostruzione di Berlino capitale. Vi si
riconosceva il senso di una nuova assertività politica, anche se questi segnali
potevano essere considerati errori d'inesperienza, prodotti da un'euforia che
si sperava transitoria. (…). …quando si parla di questione tedesca, non è in
gioco un ipotetico, improbabile carattere etnico collettivo di supposta
“teutonica” arroganza autoritaria, bensì di un atteggiamento proprio della
classe dominante che sembra discendere in linea diretta dagli Junker prussiani
perché, come loro, accompagna con una violenta svolta conservatrice ogni sua
spinta espansionistica. E bisogna spazzare dal tavolo il paragone con il Terzo
Reich, perché proprio l'enormità delle devastazioni prodotte dal nazismo, e
dunque proprio l'improponibilità del confronto, in un certo senso “assolve” la
Germania attuale da ogni responsabilità. Più utile sarebbe ricordare la
Germania bismarkiana e guglielmina. Innanzitutto perché proprio
quell'esperienza ha plasmato la nascita dell'euro. Vale la pena ricordare che
una moneta unica europea (prima il Serpente monetario europeo – Sme – poi
l'Ecu, infine l'euro) fu la condizione che il presidente francese François
Mitterrand impose per acconsentire alla riunificazione tedesca, come strumento
per imbrigliare lo strapotere prevedibile di una Germania unita. L'euro fu
quindi vissuto dalla classe dominante tedesca come l'ultimo diktat esercitato
dalle potenze vincitrici mezzo secolo dopo la disfatta della seconda guerra
mondiale. (…). Assistiamo (…) a un ennesimo esempio del fenomeno descritto
all'inizio: viene descritto come strumento dell'oppressione e umiliazione subite
dai tedeschi quell'euro che in realtà si è rivelato per la Germania il suo più
importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione. È l'euro che ha
permesso la metamorfosi del progetto europeo dal perseguimento di una Germania
europea all'instaurazione (destinata al fallimento) di un'Europa tedesca. Innanzitutto
perché nel XX secolo il progetto di unificazione europea ha preso a ricalcare
in modo sempre più pedissequo il processo di unificazione tedesca nel XIX
secolo: primo passo un’unione doganale col Mercato comune europeo, sulle orme
dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca, ognuno con
diritto di veto. Poi una nuova unione doganale come quella stabilita nel 1866
(dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli stati membri non avevano
più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 stati della
Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un parlamento comune con
però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale che rappresentava gli stati:
per continuare il paragone, il Consiglio federale era l’equivalente della
Commissione europea, mentre il Reichstag corrispondeva all’Europarlamento e la
distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollverein corrispondeva
all’Europa a due velocità, con l’Eurozona dei 17 rispetto all’Unione europea
dei 27 membri. La similitudine finisce qui perché, dopo soli cinque anni, nel
1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia e inglobata
nell’impero tedesco. Ma in realtà non finisce qui, perché in Europa la Germania
vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la
Prussia nell'unificazione della Germania. (…). Così la Germania ha usato la
crisi per sottrarre alla Francia una bella fetta di sovranità nazionale, con
l'ironico risultato che l'euro pensato per imbrigliare Berlino ha finito per
imprigionare Parigi (in questo scontro la Grecia è solo un birillo sul tavolo
da biliardo). Ma, appunto, il problema è definire il soggetto. Ed è chiaro che,
almeno dalla riunificazione in poi, la classe dominante tedesca ha pensato
sempre meno in termini di Europa e sempre più in termini di Germania. Tanto
che, a tutt'oggi, come scriveva sul Financial Times Wolfgang Münchau, l'euro ha
funzionato bene praticamente per la sola Germania (in misura minore per
l'Austria e l'Olanda, anche se adesso l'Olanda è in crisi). Ma l'euro è stato
disastroso per l'Italia; sta rivelandosi letale per la stessa Francia; la
Finlandia è in piena recessione; la Spagna e il Portogallo sono più poveri di
sette anni fa; per la Grecia non ne parliamo. Ancora una volta la narrazione
prevalente in Germania è il contrario della realtà: l'euro viene visto come un
regime di cui Berlino deve sopportare tutti i costi, da buona formica nordica
che paga per tutte le cicale meridionali. Mentre è l'euro ad aver garantito la
possibilità di esportate i prodotti tedeschi nell'eurozona: un ritorno al
marco, e la sua conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le
esportazioni tedesche nel mondo. Ed è questa la maggiore responsabilità storica
delle élites tedesche: quella di aver consentito, incoraggiato e infine imposto
alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia
che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi
più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti. Per cui assistiamo a una
commedia del potere, al gioco delle parti di una classe dominante che si dice
costretta a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti
perderebbe i favori di un'opinione pubblica che questa stessa classe dominante
ha plasmato nello stampo più reazionario; che è costretta a esercitare una
dittatura del capitalismo per ragioni democratiche, perché altrimenti
perderebbe il consenso popolare. (…). Quanto sia distante la narrazione che la
Germania racconta a se stessa della crisi greca e della gestione da parte della
Trojka, risulta lampante dalla vicenda dei panettieri greci. A prima vista può
sembrare ridicolo che in un disastro economico come quello greco, i paesi
creditori si ostinino a esigere misure urgenti come la liberalizzazione della
vendita del pane non solo presso i fornai ma perché no anche nei saloni di
bellezza, e che considerino l'equiparazione dell'Iva sul pane nelle panetterie
e nei supermercati (che finora pagavano di più per salvaguardare il piccolo
commercio). Ma il ridicolo si trasforma in grottesco quando la Trojka impone in
modo ultimativo il diktat sul peso delle pagnotte: finora nei negozi greci si
vendevano forme o da un chilo o da mezzo. Ora sarà obbligatorio venderne in
pezzature diverse e graduali. Ma che gliene può fregare ai creditori del peso
della pagnotta greca? Quattro anni fa avevo iniziato un editoriale del
manifesto con una frase che mi provocò indignate reazioni da parte dei miei
amici tedeschi: “Dove non era giunta la Wehrmacht, è arrivata la Bundesbank”
(mi riferivo per esempio a Lisbona e a Madrid). Rispetto ad allora, c'è da
aggiungere che neanche i generali prussiani si sarebbero mai sognati di
legiferare sulla pezzatura delle pagnotte in terra d'occupazione.
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