Da “L’identità
greca contro il vuoto di questa Europa” di Oliviero Beha, su “il Fatto
Quotidiano” dell’8 di luglio 2015: (…). …il senso di appartenenza a se stessi e
alla propria storia: che cosa ci trovate di lontanamente simile a questo nelle
vicende dell’Unione Europea di cui parliamo tutti i giorni? Per tacere di
democrazia dal basso, di quell’Europa dei popoli e non delle banche e dei
mercati della cui latitanza si lamentano tutte le persone di buona volontà,
facciano il Papa o altro. C’è modo anche di parlare di noi, i prossimi della
lista nella scia della debacle finanziaria greca, che ahinoi non dipende dai
“no” di domenica (12 di luglio 2015, summit dei leader dei 28 stati
dell’unione europea n.d.r.) ma da quindici anni di “sì” sbagliati ed
equivoci. Dove siamo noi, dove ci collochiamo, qual’è la nostra identità, chi
ce la dà? Assodata la pochezza quasi commovente di Renzi, che in mancanza di
qualsivoglia statura politica bene fa a travestirsi da trainer di immagine e
comunicazione con i tapini del Pd che gli sono rimasti, un giro d’orizzonte
nelle nostre contrade ci dice che anche gli italiani, o soprattutto gli
italiani nel contesto europeo, hanno smarrito qualunque particella d’identità,
avendo dimenticato chi erano, non sapendo chi sono, non essendo in grado di figurarsi
nel futuro. Forse anche noi avremmo bisogno del tizzone di un referendum per
accenderci, andando oltre la peraltro sacrosanta preoccupazione del nostro
precipizio finanziario accentuato dalla slavina greca. Il mercato della vita
sembra aver preso il sopravvento sulla vita del mercato, e ne stiamo pagando un
prezzo politico e civico da usurai. E questa dipendenza totale è semplicemente
insensata e insopportabile. Dire “no” non è neppure una scelta, ma una
necessità.
Da “Debito uguale
colpa quella parola unica che separa i tedeschi dal mondo greco” di Silvia
Ronchey, sul quotidiano la Repubblica dell’8 di luglio 2015: Che cos’è
il debito? In tedesco il sostantivo femminile Schuld designa insieme il debito
e la colpa. «Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce
colpa e debito», scriveva già nel 1921 Walter Benjamin. (…). Le forme di
consumo illimitato basate sull’indebitamento privato, partite dall’America,
sono diventate, (…), il motore principale dell’economia. Dal 2009, con
l’immediato globalizzarsi della crisi americana, l’aumento esponenziale del
debito privato ha coinvolto il debito pubblico dei paesi economicamente
avanzati fino ad arrivare ai debiti sovrani. La finanziarizzazione della vita
quotidiana, la “democratizzazione del credito”, ha prodotto uno stato di indebitamento
generalizzato in cui ognuno, sia come lavoratore sia come consumatore, è
diventato per definizione anzitutto debitore. (…). …secondo Benjamin il
capitalismo può considerarsi in sé una religione, il culto di un dio minore,
privo di dogmi ma dalla legge implacabile. È proprio la connessione religiosa
fra debito economico e colpa morale — attinta peraltro a un’intuizione degli
scritti giovanili di Marx — che porta il povero insolvente, scriveva Benjamin,
«a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire,
così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco». Se in
tedesco i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale,
la lingua greca, che sta all’origine del nostro pensiero e della nostra
sintassi filosofica, distingue nettamente tra l’uno e l’altra. Nel greco
antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos , un
sostantivo che deriva dal verbo chraomai , “usare”, e dalla locuzione chre ,
“ciò che serve”, che si usa e di cui c’è bisogno; è inoltre connesso con chreia
, la “mancanza”. Il termine chreos viene usato ampiamente dagli storici, come
Tucidide, dai filosofi, come Platone, e dai giuristi, fino alle Novelle di
Giustiniano e ai Basilika : il greco bizantino assicurerà la continuità e
trasmetterà la certezza del diritto romano nel suo transito millenario dall’età
antica a quella moderna, attraverso i secoli solo in occidente oscuri del
cosiddetto medioevo dominato dal diritto barbarico. (…). …la prima attestazione
della parola chreos nella letteratura greca è già nell’ottavo canto dell’
Odissea , nel passo in cui Efesto incatena Ares e Afrodite dopo averli colti in
adulterio. Tutti gli dèi ridono tranne Poseidone, che gli intima di
scioglierli. Efesto rifiuta perché, dice, se lo facesse Ares fuggirebbe
eludendo insieme due vincoli, quello materiale della catena e quello morale, il
chreos , che lo lega ormai a Efesto. Questo secondo legame non è una servitù,
impossibile tra dèi, piuttosto una comunanza di destino, un pegno. Il dio della
guerra si è indebitato con il dio del fuoco, dell’ingegneria, dei fabbri, di
tutti gli artigiani: cedendo all’amore, condividendo il fascino della dea, si è
sottomesso al vincolo di un reciproco scambio. (…). La distinzione tra debito e
colpa è evidente nel Nuovo Testamento, anzitutto in uno dei suoi passaggi più
noti: la preghiera del discorso della montagna, che diventerà il padre nostro.
Qui il greco della koiné usa, anziché chreos , il più materiale e umile
sostantivo ophèilema , che si ritrova in Matteo 6, 12: “rimetti a noi i nostri
debiti”. La clamorosa discrepanza dal testo di Luca 11, 4, che ha invece la
variante “rimetti a noi i nostri peccati” e usa il ben distinto sostantivo
amartìa, ha dato luogo a infinite dispute teologiche e fatto sospettare una
comune ascendenza dall’ebraico hôb , hôbot , insieme debito e colpa. Ma proprio
il fatto che il dettato neotestamentario debba adottare due voci diverse
sottolinea l’estraneità dei due concetti nella psiche greca. (…).
Da “Quel
conflitto tra democrazie che ancora divide l’Europa” di Timothy Garton Ash,
sul quotidiano la Repubblica del 10 di luglio 2015: Gli dei fanno prima impazzire
coloro che vogliono distruggere. In questo caso li fanno annoiare. I vertici
dell’eurozona sulla Grecia si moltiplicano, ogni volta annunciati come
“l’ultima occasione” e gli europei ormai sono quasi in preda alla narcolessia.
Sonnecchiamo sul sedile del passeggero anche mentre l’auto cade nel burrone. Ma
non c’è niente da fare. Se i capi di governo dell’Ue non trovano una via
d’uscita (…) il progetto di integrazione europea potrebbe iniziare a disfarsi.
Se pensate che in gioco ci sia solo il futuro della Grecia, be’, pensateci due
volte. Il problema è che la cronica incapacità dell’Eurozona di fare qualcosa
che non sia tirare a campare non è semplicemente frutto di politiche sbagliate
e di una leadership debole, che abbondano da ogni parte, governo greco, governo
tedesco e istituzioni europee e internazionali inclusi. Ma le cause sono ben
più profonde, radicate nella debolezza strutturale del progetto europeo già
decenni fa. (…). La realtà della democrazia europea resta nazionale: la sfera
pubblica europea non è cresciuta molto rispetto a quando ho iniziato a studiare
e a girare l’Europa 40 anni fa. Esistono pubblicazioni dirette a un pubblico
ridotto e colto in tutto il continente, ma la maggior parte della gente in
Europa si ferma ai media nazionali, anche quando la lingua è comune. A Vienna
mi hanno spiegato quanto sia diverso il tono con cui i media austriaci trattano
l’argomento Grecia rispetto ai media tedeschi. Quindi non esiste una sola
Grecia, bensì 28 grecie diverse, a seconda del paese in cui siete. La Grecia
estone o lituana sarebbe pressoché irriconoscibile agli occhi degli italiani,
figuriamoci dei greci. Analogamente non c’è una sola Germania bensì 28 — e
pochi tedeschi riconoscerebbero il proprio paese nella “Germania” dei
quotidiani greci. Queste narrazioni in netto contrasto sono alimentate dai
politici di ogni paese che emergono da ogni vertice di Bruxelles strombazzando
i loro successi e attribuendo ogni partita persa ad altri governi o alle malefiche
istituzioni europee. Il ministro degli esteri belga ha ironizzato sul fatto di
essere l’unico a non poter dare la colpa a Bruxelles (perché è anche la sede
del suo governo). John Stuart Mill ha scritto che l’unità dell’opinione
pubblica necessaria al funzionamento del governo rappresentativo non può aversi
tra gente che manca di senso di comunità, soprattutto se si parlano lingue
diverse. L’Europa non l’ha ancora smentito. Nelle scorse sei settimane sono
stato in sei paesi diversi riscontrando dolorosamente l’assenza, tra di loro.
di un senso di comunità. Contrapporre la democrazia alla tecnocrazia è ormai un
cliché. Purtroppo la verità è ancora più amara, perché nell’Eurozona è presente
il peggio di entrambi i termini. Istituzioni come la Commissione Europea e
l’Fmi mostrano alcune delle pecche (nonché delle virtù) della tecnocrazia,
inclusa la tendenza ad aderire a ortodossie irrealistiche, a un’economia a
taglia unica. Ma se parliamo dei leader europei allora lo scontro è tra
democrazia e democrazia. Subito dopo il no greco di domenica scorsa Tsipras ha
celebrato “la vittoria della democrazia” — le Termopili rivisitate e corrette
in modello agitprop. Ma, benché Angela Merkel non discenda direttamente da
Pericle, è un leader in tutto e per tutto democratico quanto Tsipras e
egualmente soggetto ai limiti imposti dall’interesse nazionale e (cosa spesso
più importante) dalle emozioni nazionali. Così i 28 leader (…) delle
istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni,
ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori andando
oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziando un processo per conciliare i
legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali. Se falliranno, non solo la
Grecia, ma l’intero progetto europeo precipiteranno in una crisi ancor più
grave. La crisi esistenziale finirà per essere colta come kairos , l’opportunità
di azione decisiva? Da europeo lo spero.
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