Da “Germania
incosciente se Atene cade nel dirupo dentro ci finirà l’Europa” di Eugenio
Occorsio, intervista all’economista Joseph Stiglitz – docente presso la
Columbia University e premio Nobel dell’anno 2001- sul quotidiano la Repubblica
del 9 di giugno 2015: «La posta in gioco è altissima, e non tutti
sembrano rendersene conto. E’ in ballo il destino dell’Europa e quindi, vista
l’importanza del continente, dell’economia mondiale». (…). «La Germania – (…) -
e con essa il forte schieramento dei Paesi nordici più ricchi, continua al di
là di ogni ragionevole evidenza a proclamare l’austerity come l’unica politica
possibile perfino per un caso come la Grecia. Non sono bastati gli errori
giganteschi compiuti: è come se l’Unione europea stesse spingendo oltre il
dirupo un Paese senza considerare che dietro ad esso crollerà l’intera Europa».
(…). Professore, non tutti sono d’accordo sull’effetto domino che un’ipotetica
Grexit avrebbe. «Pensi solo a un aspetto. Draghi ha giocato una carta molto
rischiosa proclamando nel 2012 che si sarebbe fatta qualsiasi cosa per salvare
l’euro. Finora l’ha vinta ma in caso di Grexit la scommessa sarebbe
completamente perduta. La consapevolezza che l'euro non è indistruttibile
danneggerebbe irreparabilmente la credibilità della Bce, così come quella dei
governanti europei: al primo attacco speculativo gli interessi sui titoli
europei schizzerebbero a livelli stratosferici, a partire dai Paesi più deboli
come l’Italia. E che ci sarà un attacco, e quindi una crisi che sarebbe molto
più profonda delle precedenti, è nella logica delle economie capitalistiche». È
sicuro che ci sia una così diffusa inconsapevolezza? «Il livello di incoscienza
diffuso specialmente in Germania, è spaventoso. C’è chi arriva a dire con
nonchalance che i mercati hanno già scontato la rottura dell’euro e perfino che
l’uscita della Grecia sarebbe un bene per l’unione monetaria. Mi sembra una
follia, pari se non superiore alla cecità con cui fu affrontata la crisi della
Lehman Brothers nel settembre 2008, per la quale pure esistevano vistosi
segnali premonitori come il fallimento della Bear Stearns nel marzo precedente.
Il sistema finanziario americano fu salvato a carissimo prezzo dalle autorità
federali, eppure ancora oggi sono aperte le cicatrici di quella ferita. In
Europa tutto sarebbe ancora più difficile». Però almeno converrà che molti
Paesi, compresa l’Italia, dall’inizio del decennio si sono rafforzati. O no? «Certo,
hanno fatto riforme strutturali che però per ora, qui sta la debolezza,
incidono sul lato dell’offerta: lavoro, pensioni, incentivi alle aziende.
Quello che manca è la domanda, tuttora compressa dall’impronta della Germania
ossessionata dall’austerity. Anni di sofferenze sembrano non aver insegnato nulla.
Si è inseguito l’irraggiungibile traguardo di forzare la Grecia ad arrivare a
un surplus primario del 4,5%: ma vi rendete conto? L’Europa ha perso un
decennio, e rischia seriamente di perderne un altro finché si dichiara
soddisfatta di una crescita dell’1%». Lei firmò una dichiarazione con l’altro
Nobel Amartya Sen in cui sosteneva che l’euro era costruito in modo da non
poter funzionare. È sempre della stessa opinione? «Intendiamoci: credo che
oggi, visto che c’è, l’euro vada sostenuto. E spero, nell’interesse degli
equilibri mondiali, che la Grecia vi resti dentro. Però la moneta unica così
com’è strutturata non può sostenere il bisogno della popolazione di crescere. Finché
le energie sono spese nell’affannoso tentativo di mantenerlo in vita, senza che
nel contempo si affrontino i nodi veri della crescita, l’euro non è uno
strumento di sviluppo. Né mi farei troppe illusioni sul quantitative easing :
come già in America, porta a una rivalutazione della Borsa e a un risparmio di
interessi, ma i meccanismi di trasferimento all’economia reale sono
insufficienti. È l’equivoco della propaganda sulla trickle down economy: dai
ricchi una volta che si sono arricchiti “trasuda”, “sgocciola”, qualche
beneficio verso il basso. È provato che si tratta di un’illusione e che a
guadagnarci sono solo i ricchi stessi e i “potenti” economici».
Da “Ma il rigore tedesco e le nostre debolezze rischiano di liquidare anche l’idea di Europa” di Lucio Caracciolo, sul quotidiano la Repubblica del 7 di luglio 2015: (…). Pur di preservare la sua stabilità la Germania ha esportato instabilità nel resto d’Europa, a cominciare dalla periferia mediterranea. Sotto il profilo economico e monetario, propugnando una ricetta unica — la propria — per contesti radicalmente diversi, sicché senza le pressioni americane e il pragmatismo di Mario Draghi l’eurozona sarebbe già saltata da tempo sotto i colpi dell’austerità. Sotto il profilo geopolitico, rifiutandosi di assumere ogni responsabilità nelle crisi del Mediterraneo e lasciando che lo scontro sull’Ucraina fosse appaltato ai baltici, per i quali la distruzione della Russia è obiettivo appetibile. E adesso lasciando andare Atene alla deriva. Smottamento economico, sociale e geopolitico che infragilisce l’euro e completa la destabilizzazione delle nostre frontiere mediterranee dopo la disintegrazione della Jugoslavia (incentivata dalla coppia austro-tedesca) e della Libia (follia franco-britannica), per tacere del Levante in fiamme e del solipsismo turco. Certo, il cuore tedesco del Vecchio Continente tiene. Ma al prezzo della liquidazione dell’idea stessa di Europa. Perché questo è il verdetto della crisi greca, qualunque sia il suo esito. Ci siamo scoperti tutti avvinghiati al presunto interesse particolare. Con la massima potenza economica continentale incapace di dirimere la più acuta crisi mai vissuta dalla scoppiatissima famiglia comunitaria. E nemmeno tanto desiderosa di farlo, nell’illusione che la Grexit sia faccenda greca, destinata a risolversi da sola incentivando l’autoesclusione di Atene dall’eurozona. Dopo di che la vita continuerà come prima, meglio di prima. Ma poi, fino a quando Berlino potrà considerarsi immune dalle crisi che ha contribuito a suscitare, non fosse che per neghittosità? Molti in Germania ambiscono a trasformarsi in Grande Svizzera, con i ponti levatoi alzati. Fisicamente e mentalmente. Si sentono protetti dalle alte mura della propria invidiabile fortezza, che esporta deflazione e importa liquidità grazie alla potenza commerciale, surrogando gli stagnanti mercati europei con la Cina. Già la Svizzera non è più un’isola felice, figuriamoci se può diventarlo la Germania. La galoppante deriva europea nasce da un equivoco. Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita: toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie. Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro. Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e monetaria. Anche qui mostrando la corda delle sue fissazioni ordoliberiste. Nella tempesta scatenata sette anni fa dalle dissennatezze della finanza privata americana, Berlino ha reagito infliggendo ai partner lezioni di ortodossia rigoristica dal forte retrosapore ideologico. L’austerità come bene in sé, sempre e dovunque. Come scrive Hans Kundani, direttore delle ricerche all’European Council on Foreign Relations, nel suo The Paradox of German Power di prossima pubblicazione presso Mondadori, l’instabilità diffusa dalla Germania in Europa è figlia di «una nuova forma di nazionalismo tedesco, basato sulle esportazioni, sull’idea di ‘pace’ e sul rinnovato sentimento della ‘missione’ germanica». Testimoniato dalle acrobazie geopolitiche di Angela Merkel, che l’hanno vista talvolta allinearsi con Pechino, Mosca, Brasilia e Pretoria, oltre che dal montante antiamericanismo nella società tedesca. Con ciò mettendo in discussione la stessa appartenenza della Bundesrepublik a ciò che resta dell’Occidente. Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee degne di appartenere all’Euronucleo — la moneta delle “formiche” evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro delle Finanze non ha mai cessato di pensare. Insieme, restiamo sufficientemente corrivi da rinunciare a ridisegnare l’unione monetaria in nome di un’idea politica di Europa, così condannandoci alla marginalità nel farraginoso processo decisionale comunitario. Francia compresa, perché fin troppo consapevole della sua vulnerabilità sui mercati finanziari, nel momento in cui osasse smarcarsi dall’ombra lunga della Germania. (…). Aiutare Atene a non affogare, dismettere i panni del moralismo e della facile censura, per sporcarsi le mani con quel solidale pragmatismo che può almeno alleviare la vita quotidiana di un popolo alla disperazione. La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica. Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea.
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