Scriveva Karen Greenberg –
ricercatrice presso il Center on Law and Security della New York University -, in
una riflessione - “Qual è il punto di
equilibrio tra sicurezza e libertà” - pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del
5 di settembre dell’anno 2009: Qual è il punto di equilibrio tra sicurezza
e libertà. La questione della sicurezza non si risolve a colpi di pacchetti
legislativi e decreti d'emergenza. Non si risolve affidandosi allo Stato, ma
facendo i conti soprattutto con il fattore umano. Con la paura e la fragilità
delle nostre vite. La garanzia della sicurezza non esiste, così come quella
della libertà. Ci si può solo avvicinare a entrambe, per approssimazione. Il
punto di equilibrio si misura più attraverso le emozioni che nei fatti. La
paura del terrorismo, per esempio: è un sintomo dell'ansia generalizzata che ci
attanaglia, lo specchio della percezione individuale e collettiva. Sentiamo
ripetere che proteggere i cittadini è il compito fondamentale di ogni governo
ma spesso dimentichiamo che è nostra responsabilità negoziare quali rischi
siamo disposti a correre in cambio e cosa siamo disposti a sacrificare. La
storia recente degli Stati Uniti ci insegna che cosa accade quando ci si
abbandona alla paura: si lascia che un governo violi la legge, che faccia un
uso spropositato della segretezza in nome della sicurezza e imponga dei limiti
severi alle libertà civili. (…). E se tutto questo all'inizio ci ha
rassicurati, nel lungo termine ci ha reso infinitamente più vulnerabili. (…). Che
lezione impariamo da questo? Lo Stato non detiene il monopolio della sicurezza.
Deve aprire la conversazione e stabilire un tono, ma poi sta a noi cittadini e
alle comunità locali portarlo avanti. Il punto di partenza migliore è creare un
senso di solidarietà interno. Come trovare quella compassione, intesa in senso
non religioso, che leghi le persone e le spinga oltre paura, egoismo,
individualismo sfrenato e sospetto verso l'altro? Sicurezza e libertà nascono
anche da qui. Scrivevo la domenica 3 di aprile dell’anno 2011 in un post rinvenuto
alla pagina 2452 di quell’e-book che ha fatto sopravvivere la “memoria” di
questo blog: Non occorre spendere molte
parole per “contestualizzare” l’annoso problema. Sull’onda della “emotività” e
della “percezione”, categorie molto care ai “tromboni” reggitori della cosa
pubblica nel bel paese, e bandendo per sempre dagli orizzonti della
comunicazione sociale la “consapevolezza” che dovrebbe essere propria del “cittadino
riflessivo”, tanto per prendere a prestito un concetto sociologico – in verità
del “ceto medio riflessivo” - tanto caro allo storico Paul Ginsborg, il
problema della sicurezza è stato un asso nella manica per vincere le elezioni
politiche, falsando i dati sulla criminalità ed adombrando la possibilità che
dietro ad ogni “cristo in Terra” che tenti di sfuggire alla miseria ed alle
persecuzioni, si celi a tutti gli effetti un potenziale “terrorista”, islamico
per giunta. Questo aspetto miserevole d’affrontare il problema dei moderni
“migranti” è emerso con forza in tutte quelle occasioni che abbiano consentito
nel bel paese di parlare di “migranti”, alterando realtà e dati statistici
sempre, per legiferare in termini di totale chiusura verso i disperati del
secolo ventunesimo, ed accogliendo utilitaristicamente soltanto quelle persone
che soddisfacessero alle necessità d’impresa o familiari (raccoglitori,
stallieri, badanti e contorno). Anche in occasione delle rivolte del nord d’Africa
si è coltivata e propalata la più egoistica delle paure, adombrando, ancora una
volta e irresponsabilmente, dietro quei giovanili
sommovimenti, condotti in nome della libertà e per una speranza di vita diversa
e migliore, il rimontante pericolo del terrorismo islamico. Come suol dirsi,
“il lupo perde il pelo ma non il vizio”, vizio che diviene sempre più oneroso
nei termini della difesa dei diritti e delle libertà costituzionali dei singoli
cittadini anche nel bel paese. Uno spettro s’aggira nelle ubertose contrade del
bel paese: lo spettro del “prossimo” nostro, lo spettro di tutta quella umanità
che tenta, con difficoltà, di spezzare le catene dell’oscurantismo, della
miseria e della ingiustizia planetaria. Evitare che le masse emarginate ed
affamate spezzino le loro secolari catene di fame e miserie rappresenta l’impegno
massimo a livello di tanti governi di un Occidente oramai scristianizzato per garantire
un oramai indifendibile stato di benessere e di privilegio pagato,
“consapevolmente”, e senza l’ipocrisia
del dire “io non sapevo”, con la miseria nera dei più della Terra. Ebbene,
oggi il nuovo vescovo di Roma, Francesco, rendendo la “memoria” persa - in un
tempo nel quale solo il presente ha valore – a quell’immenso sterminio
consumato nel mar Mediterraneo, sbugiarda con coraggio ed al contempo condanna
una politica tutta che, nella risoluzione muscolare verso i deboli e gli inermi
dei problemi della migrazione nel secolo ventunesimo, ha cercato quel
consenso che oscurasse e facesse meglio
digerire gli insuccessi di governo nel mentre che la “crisi”, negata a più
riprese, avrebbe fiaccato e disperse le residue fantasiose elucubrazioni degli
inadeguati reggitori della cosa pubblica nel bel paese. E sì che i mercati
avrebbero, da lì a pochi mesi da quel 3 di aprile dell’anno 2011, preteso la
“cacciata” di un premier millantatore ed illusionista. I mercati e non la
politica resasi impotente e lontana assai dai problemi della “gente”. Ha
scritto Barbara Spinelli commentando sul quotidiano la Repubblica di mercoledì
10 di luglio – “Il crimine
dell’indifferenza” – il primo viaggio del nuovo vescovo di Roma Francesco: Gesù
non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo
dell`adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a
terra, e scrive sulla sabbia un`altra legge, che non si fissa perché sulla
sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s`incammini nelle menti,
aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia:
in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un
articolo sul Regno: esiste uno stile cristiano (lo stile di Gesù), non meno
sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo
di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni.
Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013). La Parola è
centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta
dottamente. Ma quella che dici all`altro: ai sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati
musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti
spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e
impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra
i colpevoli d`indifferenza: «Tanti di noi, mi includo anch`io, siamo
disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non
custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di
custodirci gli uni gli altri. (...). Ci siamo abituati alla sofferenza
dell`altro, non ci riguarda, non è affare nostro!». La Chiesa romana è
peccatrice, proprio come nella Commedia di Dante è responsabile del mondo
uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani
d`Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e
l`immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di
guadagno». Ecco: il messaggio vuole essere nuovo nell’indifferenza dilagante
nella quale sono state buttate le nostre vite. Si dirà: ma è il messaggio del
cristianesimo! Sì, ma era divenuto afono, poiché quel messaggio stava, in
termini e parole diversi, anche sulla bocca di coloro che oggigiorno possono
essere considerati i responsabili dell’immane tragedia nel mar Mediterraneo. E
Francesco ha parlato in questo senso. Solo che lo si voglia ascoltare. E
capire.
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