Scriveva Nadia Urbinati sul
quotidiano la Repubblica del 16 di luglio dell’anno 2010 – “I tre governi del cavaliere” -: Se il governo degli affari
privati è invisibile perché segreto, questo governo dell’immaginario mediatico
è una costruzione per il pubblico, pensata e messa in scena per un destinatario
che deve essere e restare passivo, un’audience priva di argomenti che servano a
formulare giudizi valutativi; un pubblico che è anzi fabbricato dal sistema
mediatico e da chi dovrebbe essere oggetto di monitoraggio affinché non veda,
non si renda conto, non sappia che dietro all’immagine propagandata o non c’è
nulla o c’è ciò che non si deve vedere. È l’allarme lanciato in quel
tempo, che appare tanto remoto, dalla insigne studiosa su quella che sarebbe
stata “una generazione di padri puerili” della quale ha parlato
Curzio Maltese. Questo post penso che possa fare il paio, integrandolo ed
approfondendone la tematica, con il post che lo ha preceduto. Continua Nadia
Urbinati: Il governo creato dai media è astratto, irreale: uno spettacolo che va
in onda tutti i giorni, alcune volte al giorno da diversi mesi e mette in scena
la favola del fare e dell’ottimismo, la rassicurazione che la corruzione
lambisce solo pochi, e poi la storia delle cospirazioni ordite da poteri
indiscreti come i giornali o eversivi come i magistrati. Questo governo
dell’immaginario mediatico non corrisponde a un governo esistente ma copre
quello che il governo esistente fa, cosicché nessuno alla fine sa da chi é
governato. Perché di questi due governi, uno segreto e uno immaginario - il
primo tragicamente reale ma nascosto, il secondo visibile ma irreale - nessuno
si basa sulla fiducia dei cittadini: il primo per l’ovvia ragione che vive nel
sottosuolo e nessuno dei suoi atti deve trapelare; il secondo perché è
un’invenzione commerciale fatta ad arte da chi governa con l’esito che i
cittadini non dispongono di una realtà di riferimento autonoma alla quale
rivolgersi per cercare conferme o smentite a quello che si vede e si sente.
L’Italia ha due governi molto potenti, gestiti e organizzati in modo da evitare
il giudizio, della legge e dell’opinione pubblica. È questa segretezza che li
rende a tutti gli effetti una negazione della democrazia, anche se sono il
prodotto di una maggioranza che governa con il consenso elettorale. È
mancato, bisogna pur dirlo, nel bel paese un punto di riferimento credibile che
smascherasse la tragica messa in scena di un governo d’improvvisatori ed
illusionisti. E questo sarebbe stato il compito di una opposizione che ne fosse
all’altezza. Così non è stato. E così l’”antipolitica”, che ha accomunato i
reggitori temporanei della cosa pubblica a chi avrebbe dovuto smascherarne
l’inanità ed il malaffare, ha scacciato la politica del bene comune, la
politica buona. Di quel che ne è rimasto raccogliamo oggigiorno amaramente i
frutti acerbi. È mancato il riferimento certo, credibile. Un disastro. Da ciò
ne è derivato quella condizione che Curzio Maltese, sempre sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 14 di gennaio dell’anno 2011 definiva: “La politica italiana? Un cinepanettone
lungo trent’anni”. Scriveva in quell’occasione l’illustre opinionista: La
parola «comunisti», usata come insulto, è tramontata in tutto l’Occidente,
tranne che in una nazione, l’Italia. Non è soltanto Berlusconi a riesumarla
ogni volta da quella che Carlo Marx avrebbe chiamato «spazzatura della storia».
La senti di continuo nelle conversazioni d’ogni giorno, al bar o al mercato.
Berlusconi in fondo non fa altro che usare un sentimento diffuso. Non la paura
del comunismo, che non c’è più, ma al contrario la nostalgia. Meglio, la
nostalgia del Muro. All’ombra del Muro, nel mondo diviso in due, l’Italia era
un Paese importante, una frontiera decisiva. Anche un Paese ricco, in
progresso, vitale. Nel mondo che è arrivato dopo la caduta del Muro e la
globalizzazione, siamo una nazione sempre più marginale, in declino. Siamo una
società che invecchia e dunque soffre di nostalgia. L’utopia di Berlusconi, la
ragione della sua popolarità, risiede in questo tentativo di fermare l’orologio
della storia ai favolosi anni Ottanta, interpretando così un bisogno profondo
di milioni d’italiani. È anni Ottanta la televisione, la nostra industria, il
nostro dibattito pubblico. Un infinito cinepanettone. (…). Quando Berlusconi
parla di comunismo, più che una battaglia ideologica, evoca un sentimento di
rimpianto per il bel tempo andato. Quando il mondo era più semplice da capire.
Il suo stesso orizzonte internazionale si limita al campo della nostalgia. Gli
ex comunisti Putin e Lukashenko, il vecchio dittatore Gheddafi. Prima anche
Bush junior, nel suo tentativo di rifare Ronald Reagan vent’anni dopo. Certo,
la finzione è aiutata dal fatto di avere dall’altra parte gli stessi dirigenti
del Pci di vent’anni fa. La nostalgia è diffusa anche a sinistra. Un
rinnovamento a sinistra farebbe apparire di colpo il progetto berlusconiano in
tutta la sua decrepitezza. Ma la nostalgia si respira un po’ ovunque, nella
nomenclatura italiana. Il sogno di Marchionne non è forse di rifare una bella
marcia dei quarantamila? Una borghesia senza rivoluzione, la nostra, incapace
di esprimere valori positivi, aveva trovato l’unico collante nell’anticomunismo
e resiste da vent’anni all’idea che quella guerra sia finita. Si andrà avanti,
anzi indietro, ancora per un po’. Poi un giorno la gente di colpo non andrà più
a vedere i cinepattoni. Sarà così? Chi lo sa, forse. Poiché, forse, la
gente se ne sarà nutrita – di “cinepanettoni” - oltre ogni ragionevole
misura. Ma non c’è molto da sperare: al cattivo gusto ed alle abbuffate non si
pongono limiti di sorta. E quello di Curzio Maltese voleva essere un auspicio o
il verdetto scaturito da un’analisi dell’evolversi di una incredibile,
a-storica, fallimentare – che accomuna tutte le forze “antipolitiche” del bel
paese - condizione della politica del bel paese? A tutt’oggi penso che possa
valere la prima delle ipotesi. Coloro che hanno concorso alla produzione dei “cinepanettoni”
ed alla loro inarrestabile distribuzione sono sempre lì, con qualche scossone
in più e tanti, tantissimi rinnovati mugugni collettivi, ma che non trovano la
forza per porre la parola “fine” ad un’indegna, tristissima rappresentazione.
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