Ha dello straordinario il
“racconto”, se così lo si potrebbe definire, che del 25 di luglio di settanta
anni addietro ne ha fatto Jenner Meletti sul quotidiano la Repubblica del 22
Luglio 2013 col titolo, che sorprende anch’esso, “La pastasciutta della memoria”. Un titolo che potrebbe,
nell’occasione, sembrare dissacrante, irriverente. Ma non lo è. Poiché quel Suo
“racconto” è pregno di “Memoria” alta, altissima, di umanità piena, pienissima,
che ci soccorrono nei tempi cupi che siamo chiamati a vivere, cupi questi sì e
più di quelli, poiché essi sono senza visione di un futuro. Settanta anni
addietro erano tempi di guerra, di fame, di morte, ma dal “racconto” è come se quegli
anni cupi avessero una loro “leggerezza” che non la si ritrova nei giorni che
viviamo. La “leggerezza” della speranza. È a Giovanni Bigi che Jennerr Meletti affida la
narrazione di quelle giornate straordinarie: «E io ero là, quella mattina.
Ero ormai di casa. Agostino, uno dei fratelli, aveva sposato mia sorella Irnes.
Un altro Cervi, Gelindo, aveva sposato una sorella di mio padre, Iolanda.
Allora avevo 16 anni...». (…).«È passato uno in strada e si è messo a gridare:
"l'è caschè, l'è caschè...". È caduto, è caduto. "Ma chi è
casché?", chi è caduto? "Al Duce, i l'han mess in galera". È il
Duce, l'hanno messo in carcere ». L'intera famiglia si riunisce al fresco del
portico. Ci sono Alcide e la moglie Genoeffa, i figli Ettore, Ovidio, Agostino,
Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo. È a questo punto che vien fuori
la straordinarietà di quel tempo, di quella gente. E sì che la guerra e la
tirannide nazi-fascista avrebbero dovuto fiaccare quei cuori e quelle menti. Si
è in quel di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, terra di lavoro e di cooperazione.
Terra di “sentimenti” alti e forti di umanità che la bruttura di quei tempi non
era riuscita a cancellare. Continua il Bigi per la penna – oggigiorno il
computer – di Jenner Meletti: «L'idea della pastasciutta — (…) — è venuta
ad Aldo e gli altri si sono detti subito d'accordo. "Non possiamo fare una
manifestazione perché se il Duce è caduto i fascisti e i tedeschi sono ancora
qui e Badoglio ha detto che la guerra continua. Ma il popolo ha fame e allora
gli diamo da mangiare. Non credo che avremo problemi"». L'organizzazione
viene affidata a Gelindo. «È stato lui ad andare dal fornaio di case Cocconi
per ordinargli la pasta. La farina? Due quintali li hanno messi i Cervi e mezzo
quintale noi Bigi, che come i Cervi eravamo affittuari, più ricchi dei
mezzadri. Certo, il grano si doveva portare all'ammasso ma noi contadini
eravamo furbi. Prima dell'arrivo della trebbiatrice — sorvegliata dai militi
fascisti — noi battevamo i covoni per terra, così recuperavamo parte del
frumento. Nelle nostre case non si pativa la fame». Il fornaio chiede l'aiuto
delle donne di case Cocconi per impastare la farina. «Gelindo va poi alla
latteria sociale Centro Caprara per chiedere al casaro di cuocere la pasta
nelle grandi caldaie che servono a preparare il parmigiano reggiano. Anche il
casaro chiede l'aiuto delle donne del paese per grattugiare il formaggio che
sarà il condimento della pasta, assieme al burro. Non c'erano le grattugie
elettriche, allora. Si faceva tutto a mano ». (…). «E io, Bigi Giovanni, ho
avuto un incarico importante: con il mio carro e il mio cavallo ho portato i
bidoni pieni di pasta fino alla piazza grande di Campegine. Li ho caricati al
caseificio alle ore 11». La voce si sparge, dalle case di campagna braccianti e
contadini escono con i piatti in mano, o anche con le zuppiere e si mettono
dietro al carro come in processione. (…). «Sul carro con me — racconta Giovanni
Bigi — c'erano quattro ragazze. Ricordo i nomi solo di tre di loro: Eletta Bigi
che era mia sorella, Amedea Barani e Maria Zaniboni. Diventeranno tutte
staffette partigiane. Alle 13 siamo in piazza e le ragazze cominciano a
riempire i piatti. Arriva subito il maresciallo dei carabinieri che parla con
Gelindo e dice: questa è una manifestazione e sapete bene che gli assembramenti
con più di tre persone sono proibiti. "No — gli risponde Gelindo — qui c'è
soltanto gente che ha fame. Maresciallo, prenda un piatto di pasta e torni in
caserma. All'ordine pubblico ci pensiamo noi, non succederà niente"». In
piazza c'erano anche gli altri fratelli Cervi. Se il “racconto” di
Jenner Meletti non fosse impresso sulla vile carta stampata di un quotidiano ma
fosse impresso sulla celluloide – come nei tempi andati del cinema prima che il
digitale la mandasse in pensione, alla celluloide intendo dire – assisteremmo
alla scena clou di quel film. In essa si coglierebbe la straordinarietà di quei
tempi e di quegli uomini e di quelle donne nei quali il nazi-fascismo non era
riuscito, con tutto il terrore disseminato a piene mani, a spegnere la
fiammella della umanità, dell’altruismo e di quel sentire che avrebbe poi dato
sostegno morale alla lotta partigiana che da quel 25 di luglio dell’anno 1943
avrebbe devastato gran parte del bel paese. E quella generosità e quella
umanità le ricorda, forse con grandissimo orgoglio, la voce narrante di
Giovanni Bigi: «Uno si avvicina ad Antenore e gli dice: c'è anche un fascista che
aspetta la pastasciutta, ed è in camicia nera. Antenore risponde: se è qui,
vuol dire che ha fame. Poi gli va vicino e gli dice: certo, la camicia nera te
la potevi togliere. E lui: ho solo questa. E Antenore, pronto: vedi come ti ha
ridotto il fascismo? Non hai nemmeno due camicie. Io ero lì, al fianco di
Antenore. E per la prima volta in vita mia vidi spuntare tre o quattro
cartelli, con scritto "Abbasso il fascismo", "Viva la
Pace"». Sono ormai vent'anni che, nell'aia e nei prati di casa Cervi, il
25 luglio si prepara la «pastasciutta antifascista». (…). «Io, quel pomeriggio (…),
rimessi i bidoni vuoti sul carro, credevo che tutto fosse finito. E invece...».
E poi la tragedia dei Cervi ad opera di un mostro morente. Scrive a
conclusione del Suo “racconto” Jenner Meletti: All'alba del 25 novembre 1943 la
casa dei Cervi viene circondata dai militi della Guardia nazionale
repubblicana. Alcide ed i suoi figli, assieme al partigiano Quarto Camurri,
vengono portati nel carcere dei Servi a Reggio Emilia. I sette fratelli,
assieme a Quarto Camurri, vengono fucilati alle 6,30 del 28 dicembre al
Poligono di tiro della città. Il 15 novembre 1944 la loro madre, Genoeffa
Cocconi, muore di crepacuore. «Oppressa dal dolore», scrissero sui manifesti
funebri. Riporta Jenner Meletti quel che ne scrisse papà Cervi a
proposito di quella “pastasciutta” collettiva: «È stato — (…) — il più bel
funerale del fascismo». E poi fu la guerra civile, quella vera, non
quella inventata (o sperata) per ottenere individuali salvacondotti. Dopo quel
25 di luglio dell’anno 1943 di salvacondotti non ce ne furono per nessuno. Si
morì, anche, per un futuro che fosse diverso.
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