Dobbiamo – devo – alla passione, alla
intelligenza ed alla tenacia dell’instancabile Franca Sinagra Brisca il
riemergere, dalle fitte nebbie che avvolgono spesso la memoria storica dei
popoli, della figura nobile ed altissima del perseguitato politico che ha nome –
poiché nella “memoria” si continua a “vivere” - Francesco Lo Sardo – Naso,
Sicilia, il 22 di maggio dell’anno 1871; Napoli, il 30 di maggio dell’anno 1931
-. Dobbiamo – devo – a Franca Sinagra Brisca aver potuto partecipare anni
addietro, in quel di C***, ad un convegno celebrativo della memoria di quel
grande martire e precursore della Resistenza, memoria andata perduta in un
mondo affetto da “cecità” ed indifferenza. Riporta Mimma Paulesu Quercioli, nel
volume edito da Feltrinelli (1977) “Gramsci
vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei”, una frase di quel grande
- che al tempo scontava la pena nel carcere di Turi, in compagnia di quell’altro
grande che è stato Antonio Gramsci – in risposta a coloro che lo sollecitavano
ad inoltrare domanda di grazia : « Hanno voluto la carne e si prenderanno
anche le ossa. Io non firmo». Ed oggi, un dono inatteso pervenutomi da Franca
Sinagra Brisca: il Suo straordinario racconto “Uno strano funerale”. Un dono inatteso ed un privilegio allo
stesso tempo, potendone disporre, su gentile concessione dell’Autrice, su questo
blog. Fu al termine di quel convegno che, avvicinato da una signora piacente e distinta,
ebbi a sentire commenti non proprio teneri sul “colore” politico dell’avvenimento.
Ebbi a rispondere, alla distinta, piacente signora, come ai tempi cupi di
Francesco Lo Sardo anche un altro personaggio di una grande famiglia liberale
avesse scelto i “comunisti” di allora per combattere la tirannide nera: Giorgio
Amendola, figlio del liberale Giovanni Amendola. È che i “comunisti” del tempo
erano tra i pochi a combattere senza tregua la tirannide fascista. A giorni è
il 25 di luglio. 70 anni dal 25 di luglio del “Gran consiglio”. Finiva la
rappresentazione in cartapesta del fascismo. Si dava inizio ad una
indimenticata tragedia storica e sociale. Ha scritto su la Repubblica di oggi –
“La pastasciutta della memoria” –
Jenner Meletti su quel 25 di luglio di 70 anni fa: “Alcide Cervi e i suoi sette
figli, quella sera del 25 luglio 1943, non avevano ascoltato la radio. Dovevano
alzarsi presto, per portare a casa il secondo taglio di fieno. Per questo alle
23,15 — quando ci fu il grande annuncio — erano già a letto. «Sua Maestà il Re
e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo
ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza Benito
Mussolini... ». La notizia arrivò il giorno dopo, nell'aia della famiglia
Cervi”. Il racconto, ora, di Franca Sinagra Brisca.
All’attracco del porto ferroviario
di Messina un numero esiguo di persone vestite di nero, molto dignitose e quasi
eleganti, puntavano gli occhi all’acqua livida dello Stretto, corazza metallica
cosparsa di lame d’acciaio luccicanti, il loro sguardo vitreo coglieva, oltre
la grande pancia galleggiante del traghetto bianco in lento avvicinamento,
altre squame d’opaco biancore sull’altra sponda, le case di Villa San Giovanni
avvolte nell’aria tersa del mattino. Tre squilli d’avviso per l’approdo
imminente erano già stati lanciati insieme al fumo della ciminiera, gonfiatosi
in uno sbuffo. Erette sulla schiena, alte e affusolate, battute dal vento
instancabile di quel corridoio marino naturale, quelle sagome sarebbero potute
sembrare pali vestiti da umani, se non che c’era là in mezzo uno sventolio nero
di gonna, a indicare che una donna era sicuramente fra loro, Teresina Lo Sardo,
da troppi giorni vedova priva di cadavere. Rimasero immobili quando lo scafo
beccheggiando imboccò l’invaso, nonostante avessero sentito riflesso nelle
proprie ossa lo squassare del cadavere amato che fra poco sarebbe stato
vomitato fuori bordo e restituito a loro, che l’adoravano d’immenso pianto e
amore. Non potevano immaginare, per consolazione, che la storia avrebbe risollevato di lì a una
decina d’anni la loro umanità ferita a morte, che questo sarebbe avvenuto nella
storia d’Italia per mano di altri, della Resistenza, loro già messi fuori gioco
in quel punto della vita. Non potevano prevedere cosa riservasse il futuro,
conoscevano soltanto la crudeltà disumana di una popolazione irretita nei
peggiori dei comportamenti che un amico
professore, di cui s’erano perse le tracce, aveva definito con frase latina
“homo homini lupus”. Parve ai soli occhi di Teresa, ma ne ebbe la sicurezza
interiore, il volto di quell’amico essere lo stesso apparso un attimo solamente
affacciarsi alla ringhiera della nave lasciando cadere in mare, con statuario
gesto di accompagnamento, un garofano rosso*.
Sotto la tesa nera a Teresa sembrò d’aver riconosciuto una certa ampia
fronte scendere sul profilo del naso aguzzo, nel momento in cui l’apparizione
aveva sollevato il cappello come a ripararsi da una ventata inesistente che
glielo avrebbe scalzato, proprio nel punto in cui la nave urtò in entrata contro i respingenti e i parabordi
dell’invaso. Quella visione arrivò a Teresa come una carezza, dedusse che il
suo uomo era stato scortato da un pari, l’amico professore Concetto, e
avvertito il pericolo incombente sul clandestino a bordo, bloccò perfino il
pensiero dal proferirne il cognome, mentre ancora un assalto del cuore le
ricordò la sua tacita presenza nella dovizia di libri per Francesco che riusciva a fargli pervenire
direttamente dall’editore. Fu strazio interiore il fragore dell’uscita del
treno merci dalla cerniera di poppa, mandibola spalancata della nave, con
stridio si ferraglia e scossoni sui binari. Poi senza incertezze avvenne lo
spostamento, compatto a passo svelto, del gruppo dei personaggi in nero lungo
il marciapiede che dall’attracco porta in linea dritta al primo binario della
stazione; la macchia nera era adesso contrassegnata da un punto centrale rosso
vivo trattenuto al petto da Teresa, il suo mazzo di garofani, ultimo contatto
di sé col suo uomo. Dal portellone scorrevole del vagone merci quattro di loro,
pieni di asciutta commozione, da due piantoni militari ricevettero sulle spalle
la reliquia leggera che c’era nella bara,
curvi sotto il peso dell’ingiustizia e già esausti per l’attesa. “Mio
marito è stato ucciso consentite che almeno mi sia restituito il cadavere”
aveva telegrafato a Mussolini la moglie Teresa Fazio in Lo Sardo, quella donna
magra che lì pareva di vetro tagliente tanto era rigido lo sforzo di non urlare
e antica l’abitudine temprata a non
reagire per non soddisfare il piacere sadico di chi la morte aveva preso a
usarla per dileggio. Gli uomini s’erano scoperti il capo e accennato un
inchino, quindi si avviarono muti all’uscita dopo che la signora Teresa ebbe
deposto sulla bara un bacio portato dalla bocca sulla punta delle dita insieme
al mazzo di garofani rossi. Fuori li attendeva un semplice carro funebre a un
tiro, nerissimi il carro e il cavallo. Nel rapporto della questura del 6 giugno
1931, redatto nelle prime ore del pomeriggio, si legge: - Treno ore 6.15 giusta
intesa questura Napoli è qui arrivata salma condannato politico Lo Sardo
Francesco che proseguita immediatamente per Gran Camposanto ove in atto avviene
tumulazione avvenuta senza alcuna pompa e feretro est proseguito cimitero
seguito appena qualche congiunto e per itinerario prescritto Questura. Nessun
incidente. Personale servizio Polizia ha proceduto fermo sei comunisti sorpresi
isolatamente lungo percorso con probabile intenzione seguire carro funebre - Una
strana cassa di legno chiaro, forse di comune pioppo con evidenti listelli
assemblati alla meno peggio, camminava a passo normale appena oltre il
marciapiede sulle gambe lunghe di quattro uomini in nero con cappello e, a
seguire, quella donna con veletta nera le cui mani, che prima
reggevano i fiori, erano ora intrecciate saldamente alla cintura, la testa
appena piegata a sinistra e ormai bianchi i capelli, sostenuta sottobraccio
sicuramente da un parente stretto, uno dei suoi fratelli il maresciallo
Salvatore, i cognati ingegnere Giovannino e Giuseppe, il caro nipote avvocato
Ciccino, i nipoti dottor Salvatore e un giovane, forse Vincenzo. L’estrema
austerità nel silenzio totale dell’ora mattutina rosata e l’incedere cadenzato,
conferivano alla scena un carattere di irrealistica atroce solennità. Fuori
dalla tettoia della stazione nella piazza inondata di luce, il legno fu accolto
nella pancia del carro funebre tirato come d’uso da un cavallo in gualdrappa
nera, e una nuova macchia nera semovente, ma sbriciolata e complessa, si mosse
verso il Gran Camposanto fra due file di poliziotti neri, obbligata a un
percorso a gimcana per vie secondarie.
Lungo la strada lo sbattere di un’imposta persiana, aperta da una donna
prosperosa che restò interdetta a guardare, nell’ immobilità istantanea ruppe
il silenzio teso e sembrò commentare: “Madre di Dio, e che c’è il pericolo che il morto scappi o è
l’imbroglio di una carrozza piena di dinamite?”. Altri tizi con manganello in
camicia nera, a cui lo schermo dei muri a quell’ora ricusava al sole di proiettare l’ombra sul
basolato, e altri in borghese ma simili nel comportamento a scatti e
nell’occhiuto sguardo controllore, erano sparsi tutt’intorno per un centinaio
di metri. Sulla via deserta sbucavano dalle
traverse, qua e là alla spicciolata, uomini con le mascelle serrate e i
pugni stretti in tasca, qualcuno riconoscibile per il bavero della giacchetta
alzato fin sotto la coppola, che dava subito una occhiata finta indifferente
alla bara, per proseguire a torto con lo stesso passo del funerale, ma senza
affiancarsi, e qualcun altro commise l’ingenuità di scoprirsi il capo,
confidando nell’ovvio atto di civiltà per l’usanza funebre. Era stata vietata
la partecipazione a quel funerale e sapevano i rischi infelici della
disobbedienza. Quello era il feretro di un gran politico, nientemeno che il
siciliano Francesco Lo Sardo deputato al Parlamento Regio a Roma, fatto morire
di stenti in carcere, secondo dopo il primo assassinio impunito del collega
Matteotti. La presenza furtiva di quegli avventori durava poco, perché
scomparivano improvvisamente in una traversa o in un portone spalancato a bella
posta lungo il percorso, atterrati da una manganellata o costretti dal
perentorio ordine fascista di chi s’era accostato proditoriamente, per fargli
sentire la bocca d’una pistola puntata al petto o alla schiena. Pur avvertiti del divieto categorico e consci
dell’inevitabile pericolo, alcuni antichi compagni di strada e di lotta di
Francesco vollero testimoniare per
l’ultima volta la vicinanza a quel
relitto, che ancora in quelle condizioni continuava a rappresentare un grande
significato politico e una scelta di vita morale. “Il coraggio e la fede, in
questi tempi, sono la virtù di pochi. Amo essere tra questi pochi” aveva
scritto dal carcere. Rappresentava un baluardo dell’antifascismo, che i mandanti
dell’assassinio, incapaci di distruggerne l’eredità immateriale, intesero
occultare passando sotto silenzio per cinque anni, prima il sequestro
immotivato e poi il mortale abbandono carcerario, ora incarogniti nel divieto della cerimonia
funebre. Ma si può chiamare funerale questo
sparuto numero di nerovestiti attorno a una cassa senza corone né suono
di campane, con un semplice mazzo di fiori comuni evidentemente raccolti nel
giardino di casa? Quale sentenza poteva non risparmiare i morti e infierire su
quel deputato facendone un morto così derelitto anche nelle esequie? Ad ogni incrocio sostavano altre guardie
antirapina del feretro, che non doveva essere indagato né sulle cause né sul
giorno del decesso, tanto meno rapito e sequestrato da una folla di elettori
inferociti, contadini e operai per lo più, per offrirgli esequie più onorevoli.
Era in campo la certezza che qualsiasi rito funebre sarebbe diventato una
manifestazione di popolo rivelatrice di insofferenza politica e di ribellione,
ma era in campo anche la disumanità dittatoriale che da lì a qualche anno darà
prova della sua ferocia nelle deportazioni e nell’uso delle camere a gas per lo
sterminio organizzato, nella cui speciale attenzione era compresa la razza
ribelle e idealista dei comunisti. Lo scalpiccio martellante del cavallo
sull’asfalto si sentì lungo tutto il tracciato contorto per vie secondarie,
cosparse di sporcizia a Messina più di quanto non siano solitamente nelle città
portuali; nel deserto umano, raggiunsero l’entrata nel Gran Camposanto le
stesse sole persone che c’erano all’imbarcadero. Per l’occasione speciale in
impeccabile camicia nera, il custode del cimitero li aspettava a pochi passi a
sinistra del cancello con due laceri aiutanti, la tomba di famiglia interrata
già aperta e il loculo in vista: avrebbe controllato la tumulazione con
apposizione di lastra in segno di “ capitolo chiuso per sempre”. Teresa Fazio
Lo Sardo sarebbe tornata a vivere nella sua casa circondata da oggetti che le
avrebbero ricordato quel marito tanto amato e tanto sofferto, questa volta definitivamente sola ad aspettare l’evolversi
degli eventi politici, un panta rei che conosceva bene. Aveva vissuto
l’eccezionalità di due funerali
irregolari perché irrituali, eventi ambedue che, con l’aggravante dell’ingiustizia
da riscattare, renderanno nella madre e nella sposa quelle ferite non
rimarginabili. La sua vita travagliata s’era svolta dai bucolici pascoli dell’infanzia sui
Nebrodi alla vecchiaia inconsolabile funestata due volte da dolore amarissimo,
prima della perdita del figlio Ciccinuzzo nel terremoto del 1908 e ora del
marito Francesco nella barbarie delle carceri fasciste.
*Nota dell’Autrice. Il
riferimento alla presenza di Concetto Marchesi riprende la leggenda del
garofano da lui gettato nello Stretto al passaggio del feretro, secondo una
testimonianza orale raccolta nel 1982 da S. Saglimbeni .
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