Ricevo la e-mail – “A proposito di referendum” - del
dottor Nicotera – il “compagno” Ennio – che volentieri
posto: Nella Assemblea Costituente c’era il meglio dell’Italia del tempo. Mi
piace ricordare Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti,
Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Costantino Mortati. E poi i politici come De
Gasperi, Togliatti, Nenni, La Malfa Ugo e non Giorgio naturalmente. L’elenco di
quelli che possono essere definiti i padri della repubblica sarebbe troppo
lungo. Scrissero, nonostante le forti diversità culturali e come solevo dire ai
miei alunni, una sana e robusta Costituzione. Tre culture diverse erano
presenti in Costituente e per alcuni versi agli antipodi:la socialcomunista, la
cattolica e la liberale. Ma c’era un paese da ricostruire dalle fondamenta e
furono trovati i doverosi compromessi. Ricordo gli articoli dove, a mio
giudizio, il compromesso, tra le tre culture si realizzò più compiutamente. L’art
7 e l’art 8 dove da un lato si attesta che “tutte le confessioni religiose sono
egualmente libere davanti alla legge”e poi si
prefigura una situazione di privilegio per la religione cattolica e si
stabilisce che i Patti Lateranensi, per poter essere modificati
unilateralmente, abbisognano di un procedimento di revisione costituzionale.
(…). Altri articoli, diciamo compromissori, sono quelli cosiddetti economici. (…).
E poi c’è l’art. 33 che al 3° comma recita: “Enti e privati hanno il diritto di
istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. 4° comma:
“La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che
chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un
trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle Statali”. Sul
combinato dei due articoli le interpretazioni sono le più varie, né io voglio
avventurarmi in disquisizioni giuridiche, quanto meno in questa sede. (…). Voglio
in aggiunta riportare un breve stralcio della seduta dell’assemblea Costituente
del 29 aprile 1947. Viene presentato l’emendamento aggiuntivo “senza oneri per
lo Stato”. Corbino che è stato uno dei firmatari dell’emendamento così si
espresse: “Non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore di
istituti privati; diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il
diritto di avere aiuti da parte dello Stato. È una cosa diversa: si tratta
della facoltà di dare o di non dare”. Ed ancora Codignola a nome del gruppo
Calamandrei prese la parola per dire: “Dichiaro
che voteremo a favore dell’emendamento chiarendo ai colleghi democristiani che
con questa aggiunta non è vero che si venga ad impedire qualsiasi aiuto dello
Stato a scuole professionali; si ribadisce solo che non esiste un diritto
costituzionale a chiedere tale aiuto. Questo è bene chiarirlo”. E poi c’è la
questione “Del trattamento scolastico equipollente”. Come si può vedere la
questione del senza oneri per lo Stato è un po’ più complessa. (…). In una
delle ultime puntate di Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro,
un assessore del comune di Bologna spiegava il perché era giusto finanziare con
un contributo non grande le scuole dell’infanzia. Aggiungeva tra l’altro che il
comune di Bologna soddisfa con le scuole dell’infanzia comunali, e si sottolinea
comunali, il 60% del fabbisogno.
Nelle scuole comunali dell’infanzia
bolognesi trovano posto ben 5137 bambini. Aggiungeva l’assessore che il Comune
non aveva alcuna possibilità di aprire altre scuole per limiti di bilancio. Diceva
l’assessore che senza il finanziamento comunale le scuole parificate o
sarebbero state costrette a chiudere privando tanti bambini del servizio, o
sarebbero state costrette ad alzare le rette, con grave nocumento per le
famiglie meno abbienti. Vendola rispondeva ricordando l’art. 33 della Costituzione, e dissertando sul termine equipollente. Ma sul problema
concreto e cioè di una domanda sociale che il comune non riuscirebbe a
soddisfare e che viene soddisfatta dalle scuole paritarie, nessuna parola. Il
discorso lo affronta, come spesso fa, in termini ideologici. (…). Non
corro – non lo voglio - il rischio di farmi prendere la mano dai cosiddetti “termini
ideologici”, per la qual cosa resteremmo a discuterne sino a perdere la
voce se non la ragione. Al “compagno” Ennio – ed agli incauti,
avventurosi internauti capitati su questo blog – offro, in meditazione, una
riflessione dal tono contrario postata sul sito della rivista MicroMega a firma
di Wu Ming, del famoso collettivo di scrittura. Titolo della riflessione: “Perché votare A al referendum di Bologna”.
Wu Ming penso abbia carte certe in mano sulla situazione sottoposta a
referendum in quel di Bologna il 26 di maggio. Scrive infatti: (…).
Con il milione di euro stanziato per le scuole paritarie private nel 2011 si
sarebbero potuti creare, a settembre 2012, 330 nuovi posti alla scuola pubblica
comunale e statale ed esaurire abbondantemente la lista d’attesa. L’ipotesi di
un fallimento delle scuole paritarie private in assenza dei finanziamenti
comunali, con tanto di licenziamenti degli insegnanti ed esodo degli alunni
verso la scuola pubblica comunale e statale, è irreale e puramente
allarmistica. 26 delle 27 scuole dell’infanzia paritarie private di Bologna
aderiscono alla Federazione Italiana Scuole Materne (FISM), fondata su impulso
della CEI nel 1973. Le scuole della FISM dunque esistono da molto prima della
legge sulla parità scolastica, che è del 2000. Nel 1995, prima che il sistema
delle convenzioni venisse varato a Bologna, le scuole dell’infanzia private
accoglievano il 24% degli scolari; nel 2013 le scuole paritarie private ne
accolgono il 22%: è evidente che non è il milione di euro erogato dal Comune a
garantire la frequentazione di queste scuole. Infatti dividendo l’ammontare
dell’attuale finanziamento comunale – cioè 1.055.500 euro – per i 1.730 bambini
che frequentano le scuole paritarie bolognesi, si ottiene la cifra di circa 600
euro per bambino, che suddivisi sulle dieci rate mensili dell’anno scolastico,
equivalgono a un contributo per bambino di circa 60 euro al mese. Non è
credibile che un rincaro del genere produrrebbe un ritiro di massa dalle scuole
paritarie private e un’emigrazione di massa verso la scuola pubblica comunale e
statale, allungando a dismisura le liste d’attesa. Soprattutto è difficile
credere che le scuole paritarie private non possano reperire altrove quel
milione di euro l’anno, evitando così qualunque rincaro delle rette.
Considerando che tutte eccetto una sono scuole cattoliche, che la Curia di
Bologna possiede un patrimonio di circa 1.200 immobili in città, oltre a 22
milioni di euro dell’eredità FAAC depositati su un conto presso la LGT Bank di
Lugano, e che la Chiesa cattolica raccoglie l’8 per mille dai fedeli, un’idea
su quale partner potrebbe sostituirsi al Comune per integrare la cifra in
questione nasce spontanea. Le scuole dell’infanzia paritarie private
applicano criteri d’accesso diversi da quelli della scuola pubblica comunale e
statale. Si tratta infatti di enti privati no profit, a pagamento, che in base
alla legge 62 del 2000 fanno parte del sistema nazionale d’istruzione.
Attualmente, su 1.730 frequentanti le scuole dell’infanzia paritarie private
bolognesi, gli alunni stranieri sono 80, cioè il 4,6%, contro il 23,3% nella
scuola dell’infanzia pubblica comunale e statale; i bambini disabili sono lo
0,3%, contro il 2,1% nella scuola pubblica comunale e statale. Inoltre nella
scuola comunale e statale sono certificati 271 casi di disagio sociale. Questi
dati confermano che il sistema d’istruzione integrato pubblico-privato sta già
creando due tipologie di scuole molto diverse per composizione sociale e
culturale. Non ci sono dubbi su quale delle due sia la più inclusiva, si faccia
maggiormente carico dell’integrazione, rispecchi la varietà e la complessità
sociale e attitudinale, e di conseguenza debba avere la priorità nei
finanziamenti per esaurire le liste d’attesa. (…). Ho tralasciato, di
proposito, dalla lettera di Wu Ming, gli aspetti che afferiscono ai “termini
ideologici” molto abbondanti e ben circostanziati in essa. È che, per
la diffusissima paura dei cosiddetti “termini ideologici”, si è
contribuito a creare quella “scarnificazione” del pensiero, nelle
vaste moltitudini del bel paese, che vado da qualche tempo a questa parte denunciando
come il problema dei problemi. Con i risultati di una società che vive
nell’indifferenziato più spinto e senza quei termini di riferimento e di rappresentazione
che sarebbero necessari, contribuendo a costruire quella che il sociologo De
Rita ha definito, con grande intuizione, una “poltiglia sociale”. Ha scritto di recente – la Repubblica del 5 di
maggio, “Tutti ai remi per salvare la
nave” – Eugenio Scalfari: Quelli che chiamiamo la gente e che un tempo
chiamavamo il popolo, il “demos”, sostantivi nobilitanti perché ne sottolineano
la sovranità, non hanno più una visione del bene comune perché sono schiacciati
sul presente dai loro bisogni immediati, dalla loro povertà o dal timore di
sprofondarvi dentro, circondati da una nebbia che gli impedisce di costruire il
futuro. La gente altro non è che un popolo degradato dagli errori e a volte dai
crimini commessi da una classe dirigente anch’essa degradata; ma anche per
colpa propria perché ha subìto quel degrado senza reagire e addirittura
sguazzandovi dentro. È il recupero del senso più pieno e consapevole di
“bene
comune” che ci consentirà d’uscire dalla “crisi” diversi e con ben
individuate, irrinunciabili priorità sociali.
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