Ha scritto Claudia De Lillo, in
arte Elasti, sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la
Repubblica: La mia maestra si chiamava Irene. "Io sono Irene che in greco
vuole dire pace. Voi, però, mi chiamerete "signora", perché è quello
che sono. E dovrete darmi del lei, perché il rispetto si impara da
piccoli", disse il primo giorno della prima elementare, di fronte a una
ventina di sguardi rotondi e atterriti. Io tirai su con il naso e pensai che
non avrei mai avuto spalle abbastanza larghe per affrontare quel posto e la
signora Irene. Era il 1976. Ogni mattina, per cinque anni, ci fece cantare una
preghiera a gola spiegata, impermeabile alle proteste di alcuni genitori senza
dio, tra cui i miei. A lei devo una transitoria ma folgorante fase di fervente
religiosità, una passione viscerale per la grammatica italiana, una simpatia
balzana ma imperitura per la tabellina del 9, la fuga dei fantasmi acquattati
nella cartella o nell'astuccio, la convinzione che, a guardare bene, un talento
lo abbiamo tutti e si tratta solo di scovarlo e tirarlo fuori. Senza di lei non
saprei leggere, scrivere e nemmeno fare le divisioni con il resto. Senza di lei
ieri, non sarei quella che sono oggi. Perché loro, gli insegnanti, o almeno
alcuni di essi, tracciano solchi che segnano il nostro cammino, imprimono
direzioni al nostro movimento, aggiungono ingredienti decisivi alla pasta di
cui siamo fatti. Lo ha scritto per un “pezzo” di quel settimanale
veramente speciale che, chi per Lei, ha titolato “Perché le maestre hanno sempre ragione”. Non mi sento di
convenirne. Con il titolo, s’intende. Del mio maestro ho un ricordo vivissimo
che ho riportato nel mio libro “I
professori” – pubblicato nell’anno
2006 per i tipi di AndreaOppureEditore, pagg. 194 € 8,00 – che trascrivo: È tornare con i ricordi ad un fanciullo
goloso, al riparo del ripiano di un nero banco scolastico di legno, come lo
erano ai tempi della mia fanciullezza. Una leccornia amorevolmente infilata
nella cartelletta dalla mamma premurosa, il suo gustarne l’infinita
prelibatezza, al riparo dagli occhi vigili di un canuto maestro. Un ricevere,
inattesa, una pesante campana di ottone, strumento di richiamo solenne ed
imperioso al silenzio per noi scolaretti, sulla parte del capo non protetta dal
ribaltabile ripiano nero del banco. Un improvviso riemergere del fanciullo di
allora con le gote rigonfie, un palpitare del cuore come non mai, un sentirsi colpevole
ed inerme per un atto compiuto con l’infinita semplicità di tutti i fanciulli
di questo pianeta chiamato Terra. Un ricordo che ritorna ancora chiaro dopo
tanti e tanti lustri, a fissare in una perenne e folgorante immagine una oramai
lontana giornata di scuola, che il trascorrere veloce del tempo non cancellerà
mai più. Il mio maestro è stato per i cinque anni delle mie scuole
elementari P.C. Oggi mi osserva dalla foto a forma di ellisse che, di certo, un
caritatevole familiare ha fatto apporre sul freddo marmo che custodisce ciò che
è rimasto del mio antico maestro. Lo ricordo già canuto, alto nella sua figura,
possente, occhiuto abbastanza da scoprire quell’atto innocente compiuto al
riparo del ripiano di quel banco nero. Avrei ugualmente imparato a scrivere ed
a far di conto? Certamente sì. Con qualsiasi altro maestro. A quel tempo la sensibilità
della scuola e dei suoi operatori verso gli aspetti “emotivi” e “relazionali”
dell’insegnamento erano al grado zero. Zero assoluto. Ben diverso mi pare di
capire sia stato per Claudia De Lillo. Di quel maestro, in verità, mi vien poco
altro da aggiungere. Guardando la sua foto - che sembra quasi seguirmi nel
mentre transito per le visite ai miei cari - in quel posto di pace mi sovviene
del sacro terrore che il suo ingresso in aula suscitava a quegli innocenti
bimbetti di allora, quali noi si era. E venne così il mio ingresso nella scuola
media, al tempo non unica, ché esisteva il cosiddetto “avviamento”, una “scuola
di classe” destinata ai meno fortunati di quel tempo andato. Ne ho un
ricordo così nebbioso e sfumato che le figure di quasi tutti quegli insegnanti
sfilano come spettri indistinti, senza caratterizzazione alcuna, tra le volùte
di nebbia che si innalzano a rendere quasi irreale quel tempo andato. Ne
riservo un solo ricordo, quello del mio professore di lettere E.V., che nella sua
complessione fisica si avvicinava – anch’egli non è più di questo mondo - moltissimo
al ricordo del mio maestro P.C. È che il professor E.V. me lo sono ritrovato, tantissimi
anni dopo, io già adulto, quale preside di scuola media all’inizio della mia
attività d’insegnamento. Anche al tempo della scuola media nessuna attenzione
che sia alla sfera “emotiva” e “relazionale” di quell’arte sublime che
è l’”educare”.
Scrive Claudia De Lillo dei Suoi ricordi di scuola Media: In terza media c'era Paola,
un'altra signora, capace di destreggiarsi tra i grovigli dell'adolescenza e di
aprire crediti anche là dove nessuno li avrebbe concessi. E qui colgo
il “buco
nero”, che ha risucchiato gli anni della mia scuola media al pari, mi
pare di capire, di quella di Elasti. Solo alla terza media, infatti, Elasti
scrive di una nuova disponibilità dell’istituzione scuola per concedere “crediti
anche là dove nessuno li avrebbe concessi”. Così ricorda Elasti le
scuole cosiddette superiori: Alle superiori c'era Salvatore, un latinista
iracondo e di grande fascino, che stilò un index verborum proibitorum che
appese accanto alla lavagna, diffidandoci dall'uso di evitabili inglesismi, di
verbi con troppe zeta, che lui chiamava sprezzante "verbi zanzara", e
di aberrazioni linguistiche che avrebbero svilito la nostra lingua oltre che, a
suo dire, la nostra integrità intellettuale e morale. Mi ricordo poi di
Antonia, che amava la storia e la filosofia, ci parlava delle idee platoniche e
sussurrava, materna: "Bòn, dai, su!", al cospetto delle nostre
reticenze durante le interrogazioni. Serbo memoria nitida di una Carla che
insegnava chimica e, durante la guerra, aveva fatto la Resistenza. La incontrai
qualche anno fa, alla manifestazione del 25 aprile: quasi novant'anni e, tra le
braccia, un gonfalone dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. Ognuno
di noi, nella sua formazione, ha incontrato un'Irene, una Paola, un Salvatore,
un'Antonia e una Carla che hanno lasciato tracce profonde del loro passaggio,
che danno un senso più alto alla scuola, al verbo insegnare, all'impegno e
all'esempio. E qui convengo con Elasti. Alle scuole superiori da me
frequentate ho avuto la fortuna – ché di fortuna bisogna parlare, nello zero
assoluto che la scuola superiore accordava agli aspetti che non fossero il mero
trasmettere le nozioni disciplinari - ho avuto la fortuna, dicevo, d’incontrare
F.M., mio insegnante di lettere. Solamente di F.M. ho conservato un ricordo
carico di un’umanità che ancor oggi mi scalda il cuore. Anche degli insegnanti
di quella fascia le sagome sono ombre che sembrano sfilare nei miei ricordi
come avvolte dalle volùte più spesse di una nebbia a momenti impenetrabile. Con
F.M. ho continuato a coltivare un rapporto che ha arricchito di umanità il mio
vivere e che mi ha spinto a privilegiare, nella mia attività d’insegnante,
quegli aspetti – delle “relazioni” e della “emotività”
- che mi sono stati negati nella mia vita di scolaro e di alunno. Al compimento
dei Suoi “primi ottant’anni” F.M. ha voluto incontrare, nella Biblioteca
Comunale della mia città, in un pomeriggio indimenticabile, amici ed ex Suoi
alunni per donare – Lui a noi, ancora una volta - un inatteso Suo volume - editato
in proprio - che ha per titolo “I miei
primi ottant’anni”. Per l’appunto. Nella occasione, nella generale, grande
emozione, ho pensato di rendergli omaggio dedicandogli una citazione – che ho
letto nel corso del pubblico incontro – tratta da una indimenticabile lettura -
“Essere insegnanti, divenire maestri”
del professor Raniero Regni –, lettura fatta sulla rivista di problematiche
scolastiche “School in Europe”, probabilmente oggigiorno scomparsa: Un
maestro ti aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che
sei in quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il
tuo. I grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi
e inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire
dal quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro
strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla. F.M.
è stato un “Maestro”. Il mio “Maestro”. Un grande. Gli altri,
ombre che vagano indistinte ed irrilevanti sullo scenario della mia memoria.
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