Oggi, il 1° di maggio, si celebra
la “Festa
del Lavoro”. Del lavoro che non c’è più, per i tanti di questo “tempo”.
Ed il 1° di maggio dell’anno 2010 Giacomo Papi pubblicava sul settimanale “D”
del quotidiano la Repubblica un pezzo pregevole assai che ha per titolo “Gli orologiai”. L’ho amorevolmente
custodito e l’ho per l’occasione ritrovato. A quel tempo la “scarnificazione”
del pensiero già era ben avviata. Come le nostre stesse vite. Le nostre stesse
fortune. E la “crisi” mordeva già da un triennio buono. Essa, la “crisi”,
sta segnando il “tempo” del nostro vivere, svuotandolo quasi di significato,
come se questo tempo che ci è dato di vivere non possa essere propedeutico al
tempo che verrà. Sarà anche una “scarnificazione” delle memorie. È
che il “tempo” che viviamo ha perso la sua circolarità, come han perso
la circolarità le nostre stesse vite, lanciate anch’esse come frecce verso un
qualcosa d’indefinito, d’indistinto. Nessuno che oggigiorno sappia descrivere
il senso del movimento di questo nostro “tempo”. Ha scritto Paolo Crepet nel
volume “Non siamo capaci di ascoltarli”:
Parlare
del tempo (…) è importante perché nella nostra vita è diventato una cosa rara e
sconosciuta: più ne abbiamo a disposizione e meno sappiamo impiegarlo. È quindi
necessario insegnare (…) che perdere tempo significa riempire di senso un
agitarsi frastornato e vano. (…) il tempo è luogo di comunicazione, transito di
affetti, crocevia di emozioni; (…) è silenzio, sguardo, ascolto; (…) è regno
dei sensi, dove tatto, gusto, manualità tornano a centrare un’esistenza
distratta. Il tempo è curiosità delle diversità, è immaginarle e riempirle di
fantasia, è passaggio segreto di desideri. Ma anche solitudine, a volte
disincanto. Riappropriarsi del “tempo” concesso alle nostre vite:
un’uscita di sicurezza contro la “scarnificazione” del pensiero.
Delle nostre “memorie”. E delle nostre stesse vite.
(…). I tempi cambiano, e cambiano
il tempo. Le lancette che disegnavano in cerchi i nostri giorni e le nostre
vite, che giravano pazienti tramutando i secondi in anni, hanno lasciato il
posto a numeri simili a immagini scollegate tra loro. È stato il segno, il
simbolo o la conseguenza di un cambiamento epocale. Per millenni la storia fu
percepita come un circolo in cui fine e inizio coincidevano. Il Paradiso
assomigliava all'Eden, il futuro all'Età dell'Oro e la società senza classi del
comunismo sembrava l'epoca in cui la proprietà privata non era ancora stata
inventata. Perfino il concetto di rivoluzione alludeva al compimento di un
circolo. Poi, la storia fu vista come una linea protesa all'infinito, passo
passo, verso un progresso inesauribile. Oggi, invece, sembra un succedersi di
istanti assoluti, così immensi da occupare tutto lo spazio e sciogliere ogni
legame con il prima e il dopo. Scriveva il regista surrealista Jules Le Jour in
Je n'existe pas: "Farò un film solo di primissimi piani. Avrà una trama
solida e inattaccabile. Ma nessuno sarà più in grado di rintracciarla".
Vediamo soltanto primi piani. Facce, voci e notizie giganti, urlate così forte
da inghiottire i contesti che le hanno originate. Ma se ogni momento diventa
assoluto, se non c'è più continuità e crescita, il legame tra prima e dopo è
reciso e i fatti non si snodano più come una trama, ma come una raffica. Come
lo zapping in tv o un po' di clic al pc. Tutto basta a se stesso finché riesce
a durare. Il lavoro, come percorso, tenderà a essere rimpiazzato dall'attesa
del colpo di fortuna o di genio. Il futuro non sarà immaginabile, e non si
potrà immaginare di costruirlo. Scomparirà la contraddizione. Ed è quello che
ci accade: nel presente perpetuo e incalzante in cui siamo immersi, verità e
bugia sono equivalenti e indistinguibili. È una metamorfosi che investe il
fondamento stesso del patto sociale, l'assioma segreto che viene prima della
lingua, della cittadinanza, della legge. Il principio di non contraddizione
(quello per cui è falso affermare A = non A) è la convenzione che gli esseri
umani sottoscrivono tra loro per non sbranarsi a vicenda. Dice che se qualcosa
vale X non può valere Y e che tendenzialmente della parola di un altro ti puoi
fidare. Neppure il potere è più tenuto a rispettarlo. (…).
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