“La politica non può tacere”
è stato il titolo di una analisi di Michele Prospero pubblicata il 4 di maggio dell’anno
2012 sul quotidiano l’Unità. Scriveva Michele Prospero, quasi in chiusura di quella
analisi che anticipava gli eventi dell’oggi: La pretesa di far rinascere il
prestigio dei partiti dinanzi alla povertà sociale e con l’enfasi sulla
regolazione della vita interna è del tutto vana. Prima che sia troppo tardi, la
politica, se non vuole soccombere, deve riprendere in mano gli eventi e
impedire che tagli, austerità, sacrifici, rigore diventino l’unica agenda
pubblica. Sono davanti ai nostri occhi resi increduli gli svolgimenti
della politica del bel paese, fatta di “tradimenti” (a detta di lor signori
del palazzo), di mancato rispetto degli impegni assunti solennemente dinnanzi
agli elettori e con l’avvio di una fase così nebulosa che solamente i più
spericolati giocatori d’azzardo avrebbero potuto disegnarne le traiettorie e
stabilirne i contenuti. Quali saranno agli occhi di quell’elettorato tradito (due
parti su tre degli elettori votanti) le traiettorie che la nuova fase
percorrerà? E di quali contenuti essa si farà portatrice? Quale credibilità
assegnare a così spericolati giocolieri? Allora, in quel 4 di maggio, Michele
Prospero saggiamente titolava “la politica
non può tacere”. Ed infatti essa, l’”antipolitica” che è al
potere, ha parlato, goffamente, non ha taciuto, dicendo del “bianco”
per il “nero”, tradendo così al contempo una ritrovata voglia di
partecipazione delle persone e tradendo le aspettative di quel “rinnovamento”
che avrebbe dovuto costituire l’altra sponda, quella della politica “buona”
e non maccheronica, rispetto alla sponda delle tanto invocate “larghe
intese” dalle quali, secondo le esperienze già maturate, ben poco ci
sarà da ottenere per il cosiddetto “bene comune”. Ha scritto Gad Lerner
il 3 di maggio sul quotidiano la Repubblica col titolo “Pd, la sindrome del rigetto”: È come se i dirigenti del Pd non avessero ben
valutato le conseguenze delle procedure democratiche con cui avevano chiamato
fino a pochi mesi fa l'elettorato e i tesserati alla partecipazione attiva.
Dibattito libero, frequente ricorso alle primarie per sciogliere i nodi
politici e selezionare i dirigenti. Con la democrazia non si scherza. Il
rigetto diviene inevitabile e incontrollabile quando i dirigenti, anziché
rivendicare uno spazio di autonomia decisionale, tramano nell'ombra; e una
parte cospicua di loro vota contro Prodi al Quirinale, già considerando
obbligata nei fatti l'alleanza di governo col Pdl che respingevano a parole.
Doppiezza inaccettabile dacché l'epoca del centralismo democratico è
archiviata. Un partito fondato sulla sovranità dei cittadini elettori non può
tollerare un cambio repentino di strategia, votato da una Direzione durata meno
di tre ore. Così l'imboscata dei 101 franchi tiratori, nessuno dei quali ha
avuto il coraggio di motivare la propria scelta, e la conseguente nascita del
governo di coalizione con la destra berlusconiana, ripropongono la categoria
(impolitica?) del tradimento. (...). Illudersi che la politica segua il suo
corso e che alla fine la base "digerirà" anche questo passaggio,
significa ignorare non solo le tensioni sociali ma anche le legittime
aspettative di condivisione che lo stesso Pd - novello apprendista stregone -
ha sollecitato. Come si fa a predicare l'attuazione dell'articolo 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di
associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale” n.d.r.) della Costituzione e al tempo
stesso rinnegare una linea politica democraticamente assunta? (…). Ma chi si
illudesse di ridimensionare il travaglio in corso a malcontento sopportabile,
non si rende conto che in poche settimane il Pd rischia di perdere il suo
popolo. E la sua anima. Solo allora, quella politica che si è fatta “antipolitica”
al potere, sarà messa a tacere. E la “politica”, quella “buona”,
potrà tornare finalmente a parlare forte.
(…). La crisi non è ancora giunta
al suo apice. Dopo l’euforia per una riduzione dello spread, che faceva sorgere
il mito del tecnico come salvagente, subito collocato al vertice delle
preferenze registrate dai sondaggisti compiacenti, cala mestamente
l’inquietudine e l’angoscia sulle sorti reali del Paese. È bastato che il vento
della crisi tornasse a soffiare per far saltare tutto il velo delle ipocrisie,
delle finzioni, dei sogni scambiati per realtà. (…). La crisi è anzitutto
sociale e rinvia alla perdita di valore del lavoro, alla eclisse della
produttività di imprese decotte per mancanza di investimenti tecnologici, allo
sfascio delle politiche pubbliche per lo sviluppo e per la lotta contro le
diseguaglianze estreme. I governi hanno finora fatto ricorso alla più classica
delle politiche dei due tempi. Prima viene l’emergenza che, in nome del
risanamento immediato dei conti, giustifica tagli, misure devastanti che
riconducono il tenore di vita delle persone indietro di almeno trent’anni. Poi
dovrebbe seguire una attenzione alla crescita. Ma con il prelievo fiscale
salito in poche settimane di ben tre punti, con addizionali regionali e
comunali che da due mesi decurtano circa il 10 per cento dello stipendio, con
bollette alle stelle, con rincari del costo della vita che si verificano senza
alcun contrasto, quale crescita potrà mai realizzarsi? La divaricazione
temporale tra rigore e crescita non ha mai funzionato. Il rigore poi è una
parola ingannevole in un Paese nel cui spazio convivono due società ben
differenziate: quella del lavoro, che paga tutto per tutti, e quella di una
fetta ampia di benestanti che fugge dal fisco e non è neppure sfiorata dai
sacrifici. Il rigore è nient’altro che la richiesta indecente al lavoro di
accollarsi per intero i costi durissimi necessari per salvare il Paese. Per
questo la crisi, da economica e sociale, sta diventando politica ossia crisi di
legittimazione. E in ciò si nascondono le insidie peggiori. L’antipolitica, in
tale congiuntura, non è solo una blasfema manifestazione che colpisce la sacralità
della bella politica. È anche uno spettro che si aggira con un fare
distruttivo. (…). Sulla base di quale presupposto un soggetto impoverito e
sfiduciato dovrebbe comportarsi come un elettore razionale? La ragione in
politica non è mai il punto di partenza scontato, è una difficile conquista che
suppone azioni di forza reale. Quando a una società umiliata da tagli, blocchi
di stipendio, inflazione, arriveranno anche il salasso dell’Imu, l’aumento
dell’Iva, molti paletti salteranno. E allora bisognerà fare attenzione ai
sondaggi, non a quelli odierni, che non dicono nulla della prospettiva, perché
la crisi solo ora comincia a mostrare il suo demoniaco volto. La pretesa di far
rinascere il prestigio dei partiti (…) dinanzi alla povertà sociale e con l’enfasi
sulla regolazione della vita interna è del tutto vana. Prima che sia troppo
tardi, la politica, se non vuole soccombere, deve riprendere in mano gli eventi
e impedire che tagli, austerità, sacrifici, rigore diventino l’unica agenda
pubblica. (…).
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