"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 6 novembre 2014

Capitalismoedemocrazia. 52 “Chi aspira oggi a diventare operaio?”.



Ha scritto Nadia Urbinati, come sempre pregevolemente, sul quotidiano la Repubblica del 4 di novembre 2014 – “Chi aspira oggi a diventare operaio?” -: (…). La dimensione globale dei mercati e la decadenza del valore sociale del lavoro stanno insieme e si riflettono nella diaspora e trasformazione della sinistra. (…). È su questo punto che i sedicenti uomini della cosiddetta sinistra del secolo ventunesimo falliscono nella loro impresa; non riescono, poiché non possono, arrestare quella “decadenza del valore sociale del lavoro” che è un connotato del capitalismo non più manifatturiero ma dedito completamente alla speculazione finanziaria. Dobbiamo partire in verità da lontano, da un’analisi che oggi potrebbe apparire fuori tempo e che il “Moro di Treviri” elaborò nell’oramai remoto 1844, in quegli scritti che oggigiorno sono riconosciuti come i “Manoscritti economico-filosofici” di quel grande.
Scriveva: “Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene? Se un'attività che è mia non appartiene a me, ed è un'attività altrui, un'attività coatta, a chi mai appartiene? (13) Ad un essere diverso da me. Ma chi è questo essere? Son forse gli dèi? Certamente, in antico non soltanto la produzione principale, come quella dei tempi, ecc. in Egitto, in India, nel Messico, appare eseguita al servizio degli dèi, ma agli dèi appartiene anche lo stesso prodotto. Soltanto che gli dèi non furono mai essi stessi i soli padroni. E neppure la natura. Quale contraddizione mai sarebbe se, quanto più col proprio lavoro l'uomo si assoggetta la natura, quanto più i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell'industria, l'uomo dovesse per amore di queste forze rinunciare alla gioia della produzione e al godimento del prodotto. L'essere estraneo, a cui appartengono il lavoro e il prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del lavoro, non può essere che l'uomo. Se il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all'operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l'uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell'uomo”. È il risultato ultimo di quel lento ma inesorabile svuotamento e disconoscimento di ogni funzione sociale del lavoro. Scrive oltre Nadia Urbinati: Un mondo diviso ha significato per alcuni decenni una limitata possibilità per il capitalismo occidentale di attingere all’immensa riserva di mano d’opera offerta dalle aree più povere del mondo. Su quei confini si è costruita la cultura dei diritti dei lavoratori occidentali e la forza delle loro organizzazioni sindacali. I cui cardini erano tenuti insieme dalla filosofia lavorista, dall’idea che il lavoro fosse certamente fatica e necessità ma che l’azione politica e associata avrebbe avuto il potere di renderlo prassi e condizione di emancipazione. Lavoro prometeico come forza creatrice di beni materiali e immateriali, tanto per la sinistra marxista quanto per quella socialdemocratica. La condizione operaia, se non la meta più agognata, era certamente dignitosa e perfino nobile. Questa rappresentazione è stata per buona parte del Novecento condivisa da giovani e non giovani, da uomini e donne. Ora non lo è più. Chi oggi aspira a diventare operaio? Sembra quasi voler riproporre, l’illustre studiosa, in pieno secolo ventunesimo, quella tesi contenuta nei “Manoscritti economico-filosofici” dell’Uomo di Treviri che venne da quel grande definita “autoestraniazione”. Scriveva Karl Marx: “Se quindi egli sta in rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato come in rapporto ad un oggetto estraneo, ostile, potente, indipendente da lui, sta in rapporto ad esso in modo che padrone di questo oggetto è un altro uomo, a lui estraneo, ostile, potente e indipendente da lui. Se si riferisce alla sua propria attività come a una attività non libera, si riferisce a essa come a un'attività che è al servizio e sotto il dominio, la coercizione e il giogo di un altro uomo. Ogni autoestraniazione dell'uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall'altro. Perciò l'autoestraniazione religiosa appare necessariamente nel rapporto del laico col prete, oppure - trattandosi qui del mondo intellettuale - con un mediatore, ecc. Nel mondo reale pratico l'autoestraniazione può presentarsi soltanto nel rapporto reale pratico con gli altri uomini. Il mezzo, con cui avviene l'estraniazione, è esso stesso un mezzo pratico. Col lavoro estraniato l'uomo costituisce quindi non soltanto il suo rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione come rapporto con forze estranee ed ostili; ma costituisce pure il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e col suo prodotto, e il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini. Come l'uomo fa della propria produzione il proprio annientamento, la propria punizione, come pure fa del proprio prodotto una perdita, cioè un prodotto che non gli appartiene, così pone in essere la signoria di colui che non produce, sulla produzione e sul prodotto. Come egli rende a sé estranea la propria attività, così rende propria all'estraneo l'attività che non gli è propria”. Si dirà: cultura passatista! Ma quel legno storto che diviene – o non diviene - l’operaio del secolo ventunesimo porta intatti, nel suo essere più intimo, quegli stessi aspetti di umanità da realizzare, e che non si realizza, attraverso la pratica di un lavoro che è divenuto disumanizzato e spersonalizzato, non appagante, con nessun legame col vivere del singolo e della comunità. Scrive nella Sua dotta esposizione Nadia urbinati: Chi coltiva l’utopia del lavoro produttivo come opportunità per ridisegnare i rapporti di forza nell’azienda e fuori? Il globo senza interni steccati è un luogo maledetto per il lavoro, perché qui vince chi offre mano d’opera a basso costo e possibilmente con scarsa professionalità e senza diritti. La globalizzazione da un lato ha aperto le porte ai mercati e alla diversità delle preferenze, dei gusti e delle culture, e dall’altro ha aumentato il numero dei concorrenti che si confrontano non più solo all’interno di un mercato nazionale protetto da barriere legali e/o culturali, ma nell’arena del mercato globale. In questa dimensione aperta si verifica l’attacco ai lavoratori “protetti”, non solo da parte degli amministratori delegati ma anche di altri lavoratori. Per chi è parte del mondo del lavoro, il lavoro con diritti è sempre più spesso un lusso e perfino un privilegio. Per chi non è parte del mondo del lavoro, il lavoro è sempre più spesso un non valore. Il lavoro manuale si fa non solo meno pagato e meno meritevole di diritti, ma anche meno dignitoso, e anzi oggetto di una rappresentazione sociale penalizzante e umiliante. È spesso visto come sinonimo di sconfitta sociale perché le aspettative dei giovani sono di avere una carriera, una professione magari precaria inizialmente, raramente di diventare operai. Il creatore di futuro, il Prometeo dei decenni passati non fa parte del loro immaginario perché le preferenze e le aspirazioni favorite dal mondo globale sono essenzialmente individualiste e associate alla gratificazione personale immediata. È la realizzazione individuale, psicologica e monetaria, e il riconoscimento sociale che danno valore all’occupazione. Fatte le dovute eccezioni (…) l’operaio corrisponde nella vulgata popolare a una condizione in molti casi di ripiego o perfino di sconfitta personale. Questa è del resto la rappresentazione che i media alimentano. Anche per questa ragione, il lavoro non trova facile e omogenea collocazione in una sinistra che vuole essere targata giovane. (…). Una sinistra che non riesce a vedere, come giustamente ha sostenuto Alfredo Reichlin ne’ “I nuovi oligarchi” - sul quotidiano la Repubblica del 24 di ottobre ultimo scorso – “le logiche dell’economia finanziaria in cui siamo immersi: l’economia del debito e delle grandi speculazioni del denaro fatto col denaro. Lasciamo stare le dispute tra economisti. Un politico serio non può fingere di non vedere questa gigantesca ondata di denaro che non rende conto a nessuno e che sta percorrendo il mondo arricchendo enormemente una ristretta oligarchia ma creando al tempo stesso nuove povertà”. Chi aspira oggigiorno a divenire l’operaio del secolo ventunesimo? Ben altri modelli s’impongono.

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