«L’Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo,
che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.»
Da “Jobs act”
di Giacomo Pisani, sulla rivista online “alfabeta2” del 15 di ottobre 2014: Ha
ancora senso, in Italia, parlare di lavoro? Col Jobs act renziano sembra
rimasto ben poco dell’impianto teorico su cui si è retto questo principio
fondamentale nella storia moderna, costruito a suon di lotte e conquiste, anche
a livello costituzionale. Il lavoro è il fattore peculiare di realizzazione
della persona, è la tensione essenziale che lo connette al mondo. È col lavoro
che l’uomo dà forma al mondo realizzandosi e progettandosi dentro la frizione
continua che le cose fuori di noi esercitano sulle nostre decisioni,
esponendoci ai processi sociali e alla storia. L’uomo fa la storia per mezzo
del lavoro, per questo le grandi rivoluzioni della modernità sono state
determinate dalla volontà di liberare il lavoro dal ricatto e dallo
sfruttamento.
Il Jobs act è il culmine della degradazione dell’attività lavorativa, l’apice del ricatto, in cui il momento della pena espressione da parte dell’uomo della propria identità, con annesse capacità e competenze, viene ridotta a merce che il datore di lavoro può rimettere sul mercato a piacimento, anche senza motivazione. A ben guardare, il Jobs act è la formalizzazione istituzionale, abbastanza volgare, di un processo sociale che ha già portato alla graduale uscita di scena del lavoro garantito come elemento centrale nella costruzione dell’identità della persona e nella produzione della ricchezza. Sempre più il capitale finanziario mette a valore capacità cognitive e relazionali che si sviluppano nel campo sociale e, in particolare, nei media e nella rete, al di fuori del lavoro riconosciuto contrattualmente. La comunicazione generalizzata, anziché mettere in comunicazione gli orizzonti storici locali, decostruendo il principio di realtà e la stabilità totalizzante della ragione occidentale dominante,su cui si strutturano rapporti di potere e di oppressione, ha neutralizzato le forme di relazione immettendole in un’arena neutra in cui i soggetti sono stati deprivati degli strumenti ermeneutici indispensabili per comprendere la propria situazione e metterla in discussione. Oggi un potenziale di condivisione formidabile è neutralizzato per mezzo dello sradicamento dei soggetti dagli spazi comunitari in cui si è sostanziato storicamente un orizzonte significante di comprensione e progettamento, attraverso la precarizzazione dell’esistenza e del lavoro, fino all’assurdità del Jobs act. Restano le possibilità più neutrali, immediate, poco impegnative: quelle del consumo rapsodico non solo materiale, ma anche di immagini, stimoli, relazioni. Il mercato tende a consolidarsi come unico parametro del valore sociale, fino a regolarsi esso stesso, anche da un punto di vista giuridico (con una lex mercatoria da esso stesso generata), a livello transnazionale. L’aggressione alla dignità e ai diritti fondamentali della persona è dunque un fenomeno strutturalmente incardinato nella società postmoderna e il Jobs act è solo la formalizzazione, anche un po’ caricaturale, di un mutamento sistemico che già ha investito modi di produzione, forme di relazione e di vita. Come riappropriarsi di questo spazio comune, oggi presidiato dal mercato, se non con delle pratiche di resistenza generalizzate che ripartano dai bisogni eccedenti, che il mercato non riesce a riconoscere e tutelare? Come liberare il comune se non rompendo con il pubblico e il privato su cui si regge il nostro diritto privatistico, e lottando per una riappropriazione dal basso dei diritti e dei beni che possano renderne sostanziale la tutela? È un processo che già attraversa il campo sociale, presentandosi come contraddizione reale all’interno del sistema capitalista, e che investe una serie di soggetti che rappresentano oggi la negatività assoluta, pura emergenza, singolarità in esubero: migranti, lavoratori della conoscenza, precari, disoccupati. Lo spazio della condivisione è oggi il terreno in cui radicare un processo costituente pieno di vita e di potenza, che dissolve le rigidità dell’ordine costituito e ridà voce alla ricchezza del possibile.
Il Jobs act è il culmine della degradazione dell’attività lavorativa, l’apice del ricatto, in cui il momento della pena espressione da parte dell’uomo della propria identità, con annesse capacità e competenze, viene ridotta a merce che il datore di lavoro può rimettere sul mercato a piacimento, anche senza motivazione. A ben guardare, il Jobs act è la formalizzazione istituzionale, abbastanza volgare, di un processo sociale che ha già portato alla graduale uscita di scena del lavoro garantito come elemento centrale nella costruzione dell’identità della persona e nella produzione della ricchezza. Sempre più il capitale finanziario mette a valore capacità cognitive e relazionali che si sviluppano nel campo sociale e, in particolare, nei media e nella rete, al di fuori del lavoro riconosciuto contrattualmente. La comunicazione generalizzata, anziché mettere in comunicazione gli orizzonti storici locali, decostruendo il principio di realtà e la stabilità totalizzante della ragione occidentale dominante,su cui si strutturano rapporti di potere e di oppressione, ha neutralizzato le forme di relazione immettendole in un’arena neutra in cui i soggetti sono stati deprivati degli strumenti ermeneutici indispensabili per comprendere la propria situazione e metterla in discussione. Oggi un potenziale di condivisione formidabile è neutralizzato per mezzo dello sradicamento dei soggetti dagli spazi comunitari in cui si è sostanziato storicamente un orizzonte significante di comprensione e progettamento, attraverso la precarizzazione dell’esistenza e del lavoro, fino all’assurdità del Jobs act. Restano le possibilità più neutrali, immediate, poco impegnative: quelle del consumo rapsodico non solo materiale, ma anche di immagini, stimoli, relazioni. Il mercato tende a consolidarsi come unico parametro del valore sociale, fino a regolarsi esso stesso, anche da un punto di vista giuridico (con una lex mercatoria da esso stesso generata), a livello transnazionale. L’aggressione alla dignità e ai diritti fondamentali della persona è dunque un fenomeno strutturalmente incardinato nella società postmoderna e il Jobs act è solo la formalizzazione, anche un po’ caricaturale, di un mutamento sistemico che già ha investito modi di produzione, forme di relazione e di vita. Come riappropriarsi di questo spazio comune, oggi presidiato dal mercato, se non con delle pratiche di resistenza generalizzate che ripartano dai bisogni eccedenti, che il mercato non riesce a riconoscere e tutelare? Come liberare il comune se non rompendo con il pubblico e il privato su cui si regge il nostro diritto privatistico, e lottando per una riappropriazione dal basso dei diritti e dei beni che possano renderne sostanziale la tutela? È un processo che già attraversa il campo sociale, presentandosi come contraddizione reale all’interno del sistema capitalista, e che investe una serie di soggetti che rappresentano oggi la negatività assoluta, pura emergenza, singolarità in esubero: migranti, lavoratori della conoscenza, precari, disoccupati. Lo spazio della condivisione è oggi il terreno in cui radicare un processo costituente pieno di vita e di potenza, che dissolve le rigidità dell’ordine costituito e ridà voce alla ricchezza del possibile.
Da “Perdere
il lavoro catastrofe senza fine” di Furio Colombo, su “il Fatto Quotidiano”
del 5 di maggio 2013: L’autodistruzione in cui siamo coinvolti non
è una tragedia del destino, ma il frutto di una politica sbagliata e rovesciata
come buttare in mare i passeggeri per migliorare le condizioni di navigazione.
La metafora è giusta perché qui si sta raccontando qualcosa di irrimediabile.
La ripresa, se anche ci fosse, non interromperebbe la catena dei disoccupati da
lungo tempo. Questo è il nuovo grande fenomeno dei Paesi ex industrializzati,
grandi e piccoli, il frutto pericoloso e umanamente inaccettabile di coloro che
perdono il lavoro, restano fuori troppo a lungo e, persino nella più festosa
delle riprese, per ragione del tempo trascorso non sono più desiderati. Di
colpo si scopre il delitto di avere abbandonato i lavoratori al loro destino e
(negli stessi giorni, da parte degli stessi governi) di avere abolito, come
privilegi che hanno fatto il loro tempo, garanzie e protezioni. Si è creata
l’idea che sostenere il lavoro sia un’opzione che fa pendere un partito o un
governo a sinistra. Per correggere questa percezione fuori moda, si è
abbandonato il lavoro. Il risultato lo pagano milioni di esseri umani. E i
presagi non sono festosi.
Da “Il
miracolo Leopolda: c’è una cosa a destra del Pd” di Alessandro Robecchi, su
“il Fatto Quotidiano” del 29 di ottobre 2014: (…). …c’è il caso che per qualche
tempo il lavoratore in mobilità e l’imprenditore che lo licenzia possano votare
per lo stesso partito. Ma è possibile ciò in un momento in cui si prendono
decisioni storiche per le vite dell’uno e dell’altro? Un italiano alle prese
con l’angoscia del futuro e con la difesa del posto del lavoro, può sostenere
in modo convinto un premier che lo chiama dinosauro, accusandolo di non vedere
il luminoso futuro che è solo l’inizio? Ovvio, la società è una faccenda
parecchio complessa, tra il ragazzotto azzimato della Leopolda e il
metalmeccanico col fischietto di piazza San Giovanni ci sono milioni di
sfumature. Però è fatale che qualcosa si romperà. Io sento la frase “a sinistra
del Pci / Pds / Ds / Pd” da quando giocavano Mazzola e Rivera e mio padre aveva
la Millecento, dunque aspetto con la trepidazione mista a scetticismo
dell’abbonato di lungo corso. Ma è la prima volta che vedo distintamente in
atto la creazione di una cosa “a destra del Pd”. Segnali piccoli e grandi: i
dirigenti locali di Forza Italia che votano alle primarie del Pd, fascinazione
per Marchionne, applausi dalla destra giornalistica (Foglio, Giornale e Libero
battono le mani spesso), imprenditori del cachemire presentati come geni del
Rinascimento, articolo 18, Fanfani meglio di Berlinguer, il finanziere
londinese che discetta del diritto di sciopero, sberleffi al mondo del lavoro,
lotta ai corpi intermedi e rapporto diretto tra leader e popolo, tipo balcone. Ecco.
Con l’aggiunta che la piazza di San Giovanni interessa meno, ed è
elettoralmente molto meno pesante, della piazza televisiva della D’Urso,
gentilmente concessa dal capo dell’opposizione. I sostenitori entusiasti,
costretti a ripetersi come un mantra che loro “sono di sinistra”, forse per
convincersi, fanno il resto sul piano teorico. Il Partito della Nazione, di cui
si legge da qualche tempo, è un’idea forte e pare in corso di attuazione, anche
se strisciante. Un partito del Premier che si mangerà molto a destra, mentre la
grande incognita rimane a sinistra. Dove andranno gli elettori accusati di
essere trogloditi coi gettoni del telefono? Rimasugli ingombranti del secolo
passato? Per ora hanno solo i vecchi, cari corpi intermedi, come va di moda
chiamare il sindacato dei lavoratori. Per i resto sono soli. Politicamente
abbandonati all’autogrill, legati al guardrail perché non provochino incidenti,
con una ciotola d’acqua da ottanta euro e nient’altro. Nessuno che compaia per
adottarli e ridare loro una famiglia.
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