Carissimo Ninì, salto tutti i
convenevoli ed in questo nostro secondo incontro – un rendez-vous terra terra –
vengo subito alla tua graditissima email. Lasciamelo dire: caspitina che piglio
che hai! Scrivi nella email: L’aumento dei salari e degli stipendi e la
diminuzione delle tasse indurrebbero più tranquillità nell’italiano medio che
ancora ha un reddito, convincendolo a consumare senza restrizione alcuna: i
consumi interni subirebbero un immediato incremento, che produrrebbe commesse e
vendite per le aziende italiane ed estere. L’incremento delle vendite
produrrebbe più occupazione e più posti lavoro e quindi farebbe sì che le
aziende ricominciassero con serenità ad assumere a tempo indeterminato. Cosa si
oppone a questa semplice formula? Il Capitale! (…). Scopro in questo passaggio della tua
email il lungo, forse faticoso cammino che ti ha portato a tanto sostenere, da
individuare nel “Capitale” la causa prima della “crisi” che sta impoverendo le
nostre vite e distruggendo l’avvenire dei nostri figli e perché no forse dei
nostri nipoti. E dire che questa tua acquisizione qualcuno la classificherebbe
come cultura passatista ed oggigiorno senza valore alcuno. Forse ti sarà sfuggita
la mia posizione su quel tuo auspicio che hai sintetizzato laddove scrivi che
sarebbe opportuno tornare “a consumare senza restrizione alcuna”.
E qui caro Ninì non ci siamo proprio.
In una occasione precedente, su questo
blog, ho sostenuto come il ritorno a quel “consumare senza restrizione alcuna” fosse
proprio una cosa insana e da sprovveduti, considerato l’impatto ambientale e sulle
risorse che una corsa sfrenato al consumismo più becero e sfrenato potrebbe
comportare, con il lascito alle future generazioni dei disastri ambientali che
sicuramente non si faranno attendere. Sostenevo invece che fosse necessario e
non più eludibile un’azione di redistribuzione delle ricchezze dai pochi che
sinora ne hanno usufruito ai tanti tantissimi che ne sono stati privati. È in questo
senso che io auspicherei non una “ripresa” qualsivoglia ma la “ripresa” più
giusta ed umana, che attenui le disuguaglianze che il capitalismo finanziario
ha esasperato. Ed in questa mia posizione e consapevolezza mi trovo in buona
compagnia. Ha scritto infatti Massimo Fini su “il Fatto Quotidiano” – “Fermi e infelici, forse abbiamo avuto
troppo” - dell’8 di novembre ultimo: Cosa resta allora all'uomo occidentale? La
prigionia in un meccanismo anonimo che un gruppo musicale, i CCCP, ha
sintetizzato nel verso «produci-consuma-crepa», basato sull'invidia per cui
raggiunto un obbiettivo bisogna subito inseguirne un altro e poi un altro
ancora, senza poter così mai raggiungere un momento di equilibrio, di armonia,
di pace. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e, ora, anche
orientale (…), l'industrial-capitalismo (…) col postulato «non è bene
accontentarsi di ciò che si ha» ha creato la premessa programmatica dell'infelicità
umana, perché ciò che non si ha non ha confini. Ma adesso questo meccanismo,
basato sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura,
è arrivato al suo limite. È fermo, come una macchina davanti a un muro. Ed è quindi
vero ciò che scriveva Marcuse nei primi anni '70: «Al di sotto della sua ovvia
dinamicità di superficie, questa società è un sistema di vita completamente
statico, che si tiene in moto da solo con la sua produttività oppressiva».
Siamo fermi. (…). Il benessere ci ha fatto male. Ci ha tolto vitalità. (…). Carissimo
Ninì, condividi l’analisi dell’illustre opinionista? Scrivi ancora nella tua
email – “Aiutare le imprese o le
famiglie?” -: La crisi continua ad imperversare! Salari e stipendi bloccati perdono
ogni giorno il loro potere di acquisto! La povertà dilaga! Persino le famiglie del vecchio “ceto medio” rischiano di scendere sotto la soglia di povertà! E qui si ritorna
all’assunto tuo delle responsabilità dirette del capitalismo di questi anni. Che
mi pare rafforzi la mia convinzione che se ripresa c’è da essere essa deve
avere necessariamente l’imprescindibile valore della redistribuzione della
ricchezza planetaria sulle fasce sociali che ne sono state sinora escluse. Scrive
a questo proposito il sociologo Marco Revelli – “L’eguaglianza non è più la virtù” – su “il Fatto Quotidiano” del
30 di ottobre: L’opzione disegualitaria (o, più apertamente, anti-egualitaria) è stata
– e in buona misura continua ad essere, anche se più mascherata – parte
integrante della dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware
teorico all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per
l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni
Ottanta del secolo scorso. L’idea che “un eccesso di uguaglianza faccia male
all’economia” – o, più esplicitamente che “una buona dose di diseguaglianza
faccia bene alla crescita” –, ha alimentato le politiche di deregulation
prevalse nell’epicentro anglosassone e affermatesi nel circuito della
globalizzazione. Ha motivato la rivoluzione fiscale, che ha drasticamente
abbattuto le progressività delle aliquote e frenato le politiche redistributive
negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; e ha generato le dure conditionalities
dei Programmi di aggiustamento strutturale (Structural Adjustment Programs) del
Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, fortemente incentrate sulle
priorità del taglio della spesa sociale, sulla rimozione del controllo dei
prezzi e la riduzione dei sussidi statali, sulla focalizzazione della
produzione sulle esportazioni, sulle privatizzazioni e sul perfezionamento dei
diritti del capitale d’investimento estero rispetto alle leggi nazionali. (…). “L’eguaglianza
non è più una virtù” potrebbe essere assunto come il motto che ha
contraddistinto la massiccia e articolata reazione anti-keynesiana di fine
secolo: dopo un cinquantennio nel quale l’eguaglianza, in qualche misura, il
valore sociale prevalente – l’“idea regolativa” sulla quale si erano orientate
le politiche pubbliche dell’Occidente democratico e le stesse Carte
costituzionali dei paesi civili –, si registrava, esplicitamente, un punto di
rottura. Una sorta di rovesciamento, che anche là dove l’eguaglianza non veniva
identificata come un ostacolo al “progresso economico”, la si retrocedeva
comunque da valore finale a funzione strumentale. O la si poneva non più come
presupposto ma, tutt’al più, come conseguenza dello sviluppo, da perseguire con
altri mezzi, compreso quello di un’iniziale opzione disegualitaria. (…). Non
stupisce che in un simile contesto si sia strutturato, e sia diventato
rapidamente egemone, un paradigma socio-economico orientato alla rottura di
tutti i precedenti compromessi sociali – quelli che, fino ad allora, avevano
contribuito a formare l’idea prevalente di “società giusta” e che ora
apparivano responsabili dell’insopportabile overload delle finanze pubbliche –
e basato su una rinnovata centralità del mercato e sulla prospettiva di uno
sviluppo trainato prioritariamente dall’offerta (supply-side) – in
contrapposizione alle teorie keynesiane che si focalizzavano sulla domanda
aggregata (demand-side) – nonché sull’effetto incentivo di una minore
tassazione per la formazione di capitali disponibili all’investimento pubblico.
Un paradigma, possiamo aggiungere, nel quale i grandi temi che avevano segnato
il lungo ciclo precedente – la questione della piena occupazione, da un lato, e
quella della povertà, dell’altro – finivano per assumere una posizione
secondaria (così è per le politiche di contrasto alla povertà, ridimensionate
con l’argomento dell’“azzardo morale”) o addirittura alternativa (un certo
tasso di disoccupazione poteva essere considerato funzionale all’abbassamento
del costo del lavoro). Un paradigma, appunto, nel quale l’ineguaglianza cessava
di essere considerata un vizio per trasformarsi, entro certi limiti, in
risorsa. Carissimo Ninì, ne hai ben donde quando consapevolmente scrivi:
Le
imprese chiudono oppure falliscono! La disoccupazione è in continua evoluzione specialmente tra i giovani!Il lavoro è ormai una
chimera e quando raramente si trova è a tempo determinato La precarietà incombe
sulle nuove generazioni! I giovani sono stati privati del futuro! (…). La
politica si crogiola nel proprio egoismo e nella più completa apatia ed
indifferenza, trascura i problemi della gente comune e cancella se stessa ed i
principi fondamentali della democrazia! Le istituzioni languiscono o transigono,
in un inquietante e paradossale buonismo! Questo è il panorama di una Italia
ormai in declino, sul ciglio del baratro, purtroppo pressoché prossima al default!
Ed i cittadini? Ignari o guidati dai media, seguono di volta in volta il branco e gli
schieramenti, vinti dalla martellante ipnosi pubblicitaria. Ma come e perché
siamo giunti a questo stato delle cose? Errori? Politiche errate? Incapacità di
gestire la cosa pubblica? Forse tutto questo ed altro ancora! (…). Cosa fare
dunque? Aiutare le imprese con sgravi fiscali e quanto altro o aiutare le
famiglie? Aiutando le imprese non si
risolverà il problema, in quanto commesse e consumi interni non dipendono certo
dalle tasse che su di esse gravano: potranno sopravvivere per altro tempo ma
alla fine tutto si ripeterà. Aiutando considerevolmente le famiglie
probabilmente si riuscirà a incrementare la crescita. Considerevoli aumenti,
fin qui negati, a salari e stipendi sbloccherebbero i consumi interni e
produrrebbero la sbandierata “crescita”! Certamente non aumenti soltanto
sbandierati del tipo dei famosi “ 80 euro”, buona manovra elettorale che
comunque non tutti hanno preso o goduto, perché erano accompagnati da
consistenti aumenti di tasse e balzelli come l’Imu, la Tasi, la Tari,la Yuc e
quant’altro di locale o Nazionale!(…).
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