Da “In cerca
di alternative alla Renzinomics” di Mario Seminerio, su “il Fatto
Quotidiano” del 19 di novembre 2014: Era partito come uno schiacciasassi, Matteo
Renzi. Un programma da cento giorni con venature miracolistiche, l’Italia
trasformata da carrozzone dilaniato da particolarismi e burocrazia a fuoriserie
in esemplare unico. E soprattutto, il premier aveva realizzato un vero e
proprio capolavoro di comunicazione politica, una sorta di programmazione neuro
linguistica ad uso di elettori angosciati da una crisi che ormai è depressione
conclamata. Il capo scout è un grande motivatore, sa toccare i tasti e le corde
giuste. Come la furba ed un po’ stralunata polemica contro la “tecnocrazia”
europea, che invece è pura politica degli interessi nazionali. Poi, lentamente
ma inesorabilmente, la realtà ha ripreso il comando delle operazioni.
Nessuno
aveva realmente creduto alle mirabilie renziane dei primi cento giorni, motivo
per cui al premier si è avallato senza troppo eccepire il programma dei mille
giorni, che ha posto Renzi in una dimensione più riflessiva e “matura”, di
grande destrutturatore e ristrutturatore di un paese in gravissimo affanno.
Allo stesso modo, Renzi è passato senza subire danni da bellicosi proclami di
sforamento della soglia del 3% del deficit-Pil alla rivendicazione
dell’inutilità di tali parametri, tuttavia rispettati per accreditarsi come
paese serio e responsabile. Poi è arrivata la bozza della legge di Stabilità, e
la realtà ha sfondato la porta di Palazzo Chigi. Una manovra in origine solo
blandamente espansiva ma ricca di criticità. Come la conferma del controverso
bonus di 80 euro, erogato secondo criteri del tutto disfunzionali, senza correzione
per nucleo familiare, ignorando incapienti e pensionati. Una erogazione da 10
miliardi annui che sta impiccando il bilancio pubblico e che è una tax
expenditure, cioè una spesa fiscale selettiva e non una vera riduzione
d’imposta che benefici erga omnes tutti i redditi uguali ed equivalenti, come
invece avrebbe richiesto l’obiettivo di massimizzarne l’impatto sui consumi.
Poi è giunto il baccanale di retroattività fiscale, con la cancellazione dello
sconto Irap introdotto solo pochi mesi fa e con l’assalto ad ogni forma di
risparmio, incluso quello previdenziale (con aliquote sul risultato dei fondi
pensione passate dall’11,5 al 20% con decorrenza primo gennaio 2014) e di lungo
periodo, come il Tfr, tassato di più sia in caso di approdo in busta paga che
di permanenza in azienda. Anche qui, il Grande Programmatore neurolinguistico
ed i suoi più stretti collaboratori hanno fatto il miracolo, riuscendo nella
perversione di etichettare il risparmio previdenziale come “rendita
finanziaria”. Misure fiscali assurdamente retroattive, in spregio dei più
elementari principi di uno stato di diritto, sono consolidata tradizione
italiana, ma con questo governo hanno trovato rinnovato slancio. Malgrado la
guerra di chiacchiere contro la Commissione Ue, il governo è stato costretto ad
una correzione in corso d’opera dei saldi, che con tutta probabilità non sarà
l’ultima, e la manovra è ora nella migliore delle ipotesi neutrale in termini
di pressione fiscale, al netto delle feroci distorsioni e penalizzazioni che
causerà al risparmio di lungo periodo. Perché Renzi si è dato questa priorità:
consumate o verrete tassati. Il concetto di risparmio precauzionale in quello
che è il paese più anziano del mondo (col Giappone) ed in dissesto economico
conclamato gli è del tutto alieno. C’è poi l’ampio capitolo dei numeri
liberamente interpretati: Renzi ha deciso che, da febbraio, cioè da quando
Enrico Letta è stato sfrattato da Palazzo Chigi, l’occupazione sta crescendo. E
pazienza che sia poco più che rumore statistico e non vera tendenza: la
determinante della svolta è stata identificata nel decreto Poletti, sin quando
non vi entrerà in testa. La stagnazione è problema dell’Eurozona? Vero, ma
l’Italia è comunque drammaticamente deviante. Lo dicono i numeri, quelli veri,
che Renzi ha deciso di ignorare per sprigionare tutta la potenza della
persuasione motivazionale. Il premier vuole la flessibilità, magari
barattandola con zombie come la “riforma” delle province, un improbabile Senato
ed una riforma del mercato del lavoro che in un contesto meno onirico e
propagandistico sarebbe letta per quello che è: pura manutenzione al margine di
un sistema in grave sofferenza. Renzi strepita sui leggendari trecento miliardi
che la Commissione Juncker deve tirar fuori qui ed ora ma non riesce a fare due
conti sul reale impatto espansivo di quella cifra (ammesso e non concesso che
sia vera, e non il reimpacchettamento di fondi europei preesistenti), spalmata
su un quinquennio ed una regione di mezzo miliardo di persone. E intanto,
mentre impazza l’ennesima riedizione dello psicodramma nazionalpopolare su
quattro miliardi di tagli alle Regioni, dal 2016 arriva l’onda di piena di
clausole di salvaguardia che toccheranno nel 2018 i 30 miliardi di euro. Renzi
nuovissimo ma anche così fanfaniano, assicurano collaudati king maker della
sinistra cosiddetta riformista, quella che massacra il piccolo risparmio ma
lascia invariata la tassazione a chi possiede qualche milione in titoli di
stato. Esistono alternative a questa confusa e declamatoria renzinomics? Non
interne al paese, a meno di credere che l’alternativa siano patrimoniali “a
botta secca” o stampa di moneta per esaudire i desideri di grandi e piccini. Ma
prima di scoprire che abbiamo gettato via almeno sei anni di salassi fiscali,
vedrete che qualcuno riuscirà ad intestarsi l’alito di crescita prodotto dal
deprezzamento dell’euro causato invece dall’azione di Draghi e dalla divergenza
delle politiche monetarie tra Stati Uniti ed Eurozona. Si sa, noi italiani
siamo bravissimi a vedere cause dove ci sono solo correlazioni. Ed i risultati
di questo pensiero magico sono sotto i nostri occhi.
Da “Concertazione o concentrazione” di
Tito Boeri, sul quotidiano la Repubblica del 25 di marzo 2014: Se
c’è (…) una cosa che manca a questo governo non è la concertazione, ma la
concentrazione. Un governo più concentrato sui suoi obiettivi eviterebbe di
dimenticarsi di 4 milioni di incapienti (che non pagano le tasse perché hanno
redditi al di sotto della no tax-area) quando promette 1000 euro in più in
busta paga a tutti coloro che hanno redditi al di sotto dei 25.000 euro. Un
governo concentrato eviterebbe di accentuare ulteriormente le irrazionali
disparità di trattamento del nostro sistema fiscale, facendo di fatto diminuire
le aliquote all’aumentare del reddito per alcuni scaglioni. Un governo
concentrato non renderebbe immediatamente esecutivi provvedimenti, ricorrendo
alla decretazione d’urgenza, che vanno in direzione antitetica rispetto alle
proposte della legge del Jobs act su cui si chiede una delega al Parlamento,
aumentando con un mano il dualismo contrattuale che, con l’altra mano, si
intende ridurre. Un governo concentrato non cadrebbe nella schizofrenia di dare
più soldi in busta paga ai dipendenti dicendo di voler stimolare i loro consumi
mentre, al tempo stesso, si precarizzano ulteriormente i rapporti di lavoro.
Persone rese più insicure sul lavoro e che non possono accedere a mutui perché
hanno contratti a termine difficilmente utilizzeranno gli euro in più in busta
paga per acquistare beni di consumo. Molto più probabilmente (e
comprensibilmente) accantoneranno queste risorse preparandosi al peggio con
risparmi precauzionali. (…).
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