Da “Il
capitalismo senza idee che vede solo i dividendi” di Federico Fubini, sul
settimanale “Affari&Finanza” del 17 di novembre 2014: A guardarli così, sembra di
vivere in un altro Paese. La scorsa settimana ha portato un’infornata di
relazioni trimestrali delle società quotate ma, scorrendo i numeri, non
emergono molte tracce dell’Italia che ci circonda. Quest’ultima è la sola
economia che non ha mai smesso di contrarsi dalla primavera del 2011: da allora
Palazzo Chigi ha cambiato quattro presidenti del Consiglio, Mario Balotelli ha
cambiato tre squadre e l’Irlanda è passata dalla richiesta di aiuto alla troika
a una crescita che a metà di quest’anno superava quella della Cina. In Italia
invece la recessione è rimasta tale, ma si fatica a crederlo quando si guarda
ai dati delle ultime trimestrali.
La maggioranza delle imprese ha aumentato
l’utile netto o almeno il margine lordo, quello prima di contare gli
ammortamenti e pagare le tasse. Lo hanno fatto in tutti i settori e con tutte
le vocazioni, sia all’export che al debolissimo mercato nazionale, sia con
azionisti privati che pubblici. Le imprese del made in Italy sono riuscite a
guadagnare qualcosa di più nelle costruzioni, nei servizi urbani in rete, nella
moda e nel lusso, nella meccanica, nell’auto, nell’elettronica. Quest’anno un
gruppo pubblico controverso come Finmeccanica aumenterà il margine lordo e la
protagonista di una privatizzazione (quasi) mancata come Fincantieri accrescerà
l’utile netto. Sta guadagnando di più Acea, malgrado le invadenze della
politica, e ci stanno riuscendo gruppi ad azionariato tutto privato come Trevi
(elettronica di consumo), Brembo (freni per auto), Cementir, Ferragamo o, per i
margini lordi, Autogrill. La lista potrebbe continuare. I manager della
corporate Italy sanno come difendere gli azionisti e in questo non ci sarebbe
niente di male, anzi: il profitto è il dovere di qualunque impresa che voglia andare
avanti. Eppure quando si guarda al futuro viene qualche dubbio sulla qualità di
quegli utili. Il made in Italy di Piazza Affari, così come quello che non osa
affrontare i listini, sembra sempre più allergico agli investimenti. Oggi un
gruppo che aspira ad avere un posto nella competizione internazionale deve
impiegare almeno il 6% dei suoi ricavi in ricerca, nuove tecnologie, presìdi
nei mercati in crescita. In Italia non si vede niente del genere. A un
sondaggio condotto da General Electric all’inizio di quest’anno i capitani
d’impresa italiani dicevano che per il 2014 programmavano di ridurre gli
investimenti di un quarto (sono stati di parola), mentre in Francia, Gran
Bretagna o Spagna aumentavano. Ci sono molte importanti eccezioni nel panorama del
made in Italy. Ma la stessa Ge stima all’Italia spetti il record delle
«opportunità perdute», per decine di miliardi l’anno, a causa di impianti
vecchi e inefficienti. Le tasse, la burocrazia, la giustizia lenta saranno sì
degli ostacoli. Ma nessuno è più urgente da superare come quello di un certo
capitalismo senza un’idea in testa, se non quella di acciuffare in qualche modo
il prossimo dividendo.
Da “Quei
lavoratori poveri” di Luciano Gallino, sul quotidiano la Repubblica del 18
di novembre 2014: Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la
liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa di una
legge — di cui il governo parlerà, sembra, a gennaio — che ne sancisca anche
sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione
aziendale e territoriale. D’altra parte la strada verso tale esito nefasto era
già stata tracciata dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e del
novembre 2012 (non firmato dalla Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei
compiti del tutto marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel
difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai
lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e
immobiliari. Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale
quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si tratta
di oltre 100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno ai
possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle
disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Questo spostamento di reddito dal ai
profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda
interna. Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un
suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti,
non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.
Oltre
che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra
gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di
migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia
il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come
generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della
quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si
legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze
rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che
arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in
molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà
relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre
persone. Si può quindi stimare che il numero di “lavoratori poveri” aumenterà
in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e
l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un
tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base
salariale per tutti. Va però notato che il regime di bassi
salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche
la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese
italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue
quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli
impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la
produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e
investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età
media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni
contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole.
Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero
virgola sin dagli anni 90. Varando delle leggi sul lavoro che
consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi
azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno
efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di
ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale
posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare
salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e
non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo
degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro,
che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è
in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto
siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è
seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in
specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la
produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna
da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo
produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre
imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di
chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo
elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana
per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di
pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di
produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate
sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia
quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda
macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi
inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non
sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente
dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano
nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad
aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della
produttività, avranno ben poco da spartirsi.
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