Il 26 di novembre dell’anno 2004,
giorno di venerdì, anno quello decimo dalla famigerata “discesa in campo”,
scrivevo un post che ha per titolo “A miracolo avvenuto…”, che “Sfogliature”
si fa carico di riproporre nella sua interezza. Dalla data del post sono
scivolati via altri dieci anni e ci si ritrova ignudi come allora e più
disperati e disorientati che mai. Sembra che il tempo si sia magicamente o
tragicamente fermato, a seconda dei personali punti di vista. Un imbonitore al
tempo del post riproposto, un imbonitore nella stagione novembrina presente che
si è aperta come sempre con la tristissima stagione dei morti. E che morti lo
si sia in un senso più esteso è un dato inconfutabile poiché, mentre il mondo
corre per il suo verso, giusto o sbagliato che sia, in questo disastrato paese
è sempre un ripetersi di una pantomima vista e rivista ma sempre assurda. Scriveva
nel Suo “diario” il conte Henry d’Ideville alla data del 26 di aprile dell’anno
1865:
(…). … l’Italia è davvero la terra dei morti. (…). Dove trovare un
popolo più vecchio, più usato, più corrotto, meno ingenuo? Le rivoluzioni, di
cui non si può contare il numero, le tirannie, le occupazioni straniere, le
servitù hanno pesato su questo bello e infelice paese e hanno lasciato nel
sangue stesso della nazione i vizi più svariati con una dolorosa esperienza e
in realtà un gran senso politico. Quando si parla della giovine Italia, questa
espressione fa ridere. Chi c’è di meno giovane, di meno ingenuo, di meno entusiasta
dell’italiano? Prima di tutto è sottile, scettico, astuto e interessato. Molto
più intelligente di noi, sa calcolare, aspettare, lusingare e dissimulare, cosa
a cui noi non arriveremo mai. Rifate le divisioni del paese, trasformatelo in
uno solo Stato, sconvolgete governi e frontiere, dategli tutte le costituzioni
che vorrete, non cambierete mai la razza e il temperamento del popolo. Per
quanto facciate, non lo renderete mai giovane. Conserverà coi suoi difetti
tutte le sue preziose qualità. Ha
un bello scrivere Eugenio Scalfari, acuto osservatore contemporaneo delle
nostre sempre ambigue vicende, sul quotidiano la Repubblica del 2 di novembre
ultimo, giorno dei morti per l’appunto – “La
Storia non si fa con un uomo solo al comando” –, che contribuisce con la
Sua riflessione a contestualizzare il mio post risalente a dieci anni addietro:
(…).
…tra le due guerre del secolo scorso e poi con sempre più opere e
approfondimento conoscitivi, nacque a Parigi L'École des Annales, di cui
maggiori ispiratori furono Bloch e Febvre e alla quale collaborarono Levi-Strauss
e Foucault. Questa scuola - ovviamente
fatta di intellettuali - sosteneva la
tesi che comunque non fossero i singoli, le persone con un nome illustre, gli
eroi, i poeti, gli scrittori di tragedie o commedie, i letterati a fare la
storia, ma piuttosto i ceti sociali, le numerose etnie, i ricchi, i poveri.
Bisognava aver letto Ricardo e Malthus e magari Marx ed Engels per capire chi e
come fa la storia. Fossero anche i renziani, che considerano il presente come
la sola vera realtà. Attenzione: non Renzi (che è il nome di un singolo) ma i
renziani che rappresentano la cornice di un quadro dentro al quale ciascuno può
fare un segno, disegnare un paesaggio, ravvivare un colore. È questa la realtà?
(…). Ci ho pensato a lungo e poi mi sono chiesto: chi sono gli intellettuali?
Quelli che intelligono, cioè capiscono. Capiscono se stessi e gli altri,
tengono abbassato il ponte levatoio tra il dentro e il fuori. Fanno la storia.
Sì, la storia la fanno loro e sono di parola. Vogliamo dirne i primi nomi?
Vogliamo cominciare da Omero? Da Esiodo? Da Solone? E poi avanti, fino a Dante,
Petrarca, Boccaccio, Marlowe, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Montaigne; e
finendo il nostro elenco che potrebbe durare chissà quanto, con Einstein,
Freud, Nietzsche? Ce ne sarebbero pareti e pareti della Leopolda dove stampare
alcuni di questi nomi. Forse perfino quello di Renzi. Lui è convinto di essere
l'uomo della storia di oggi. Attento però: la storia si può far bene oppure
male. Da soli si fa male. Ci vuole una squadra. Una squadra senza un nome non
ha senso. Un nome senza squadra meno ancora. Ed è in questo scenario
immutabile, che nega una possibilità di un reale “cambiare verso”, che si è
sempre svolta e si svolge la Storia nel bel paese. E la lettura di quel post di
un decennio andato perduto ne è una amara rilettura e riscoperta. Scrivevo… A miracolo solo annunciato scriveva il “Financial
Times” in un editoriale del 24 novembre: “(…).
Il taglio delle tasse voluto da Berlusconi non basta a ridare slancio
all’economia. Peraltro l’effetto derivante dalla minore pressione fiscale
rischia di venire azzerato dal dibattito politico che ha fatto capire agli
italiani quanto opinabili e temporanei siano i vantaggi di questa manovra.
(…)”. Avranno tempo gli abitatori del bel paese a verificare sulla propria
pelle, forse più che nelle proprie tasche, la natura esclusivamente mediatica
di questa “svolta storica”, come è stata definita dall’egoarca e dai suoi
corifei. Ciò che diventa a questo punto importante, più che interessante, a
miracolo di già avvenuto, è penetrare nei tortuosi meandri della personalità “politica”
del Cavaliere per disvelare le ragioni
primarie di una manovra, ovvero di un miracolo, che sino a poche settimane addietro
era stato riposto per tempi migliori. Ne offre una interpretazione davvero
preziosa Francesco Merlo in una sua nota apparsa sul quotidiano la Repubblica
dal titolo molto esplicativo “Le maschere del Cavaliere”. “(…). …il taglio delle tasse è come il cerone e il maquillage, è come
il rialzo sotto i tacchi, la calza sulla telecamera, il trucco e la chirurgia
plastica. Sempre, quando i sondaggi
gli annunciano la sconfitta, Berlusconi ricorre alla magia, agli stregoni
esoterici, alla politica malandrina che fa sparire l’oggetto reale della
contesa, con un ‘a me gli occhi‘ che ti ammalia e ti svuota le tasche. Eccoci infatti tutti a discutere sull’idea
antichissima e banale del taglio alle tasse, se sia irresponsabilità o
popolarità, se sia un furto o un regalo, se Berlusconi sia un Robin Hood o se
voglia invece limare le unghie allo sceriffo di Sherwood. E intanto di nuovo sparisce l’oggetto della
vera contesa. Una riduzione dell’Irpef, senza il danaro di copertura e comunque
misera, un rischioso ritocco da tre soldi diventa una disputa filosofica sui
balzelli, sulla demagogia, sull’arte di governare. Non si parla più di economia reale e ovviamente neppure
dell’università, delle pensioni, del razzismo leghista, del Mezzogiorno, delle
grandi opere, delle leggi ad personam e dell’etere ma solo di Berlusconi, del
suo carattere, del suo essere imprenditore o invece imbroglione, impolitico o
strapolitico, del suo ricorso al decentramento del proprio pensiero, ieri
consegnato al Doroteo Gianni Letta e ora affidato agli ex frondisti del Foglio
che lo inventano futurista, gli fanno firmare dichiarazioni di guerra che non
sa scrivere e neppure pensare, lo spacciano per un Majakovkij contro i
ragionieri, un poeta contro le cifre, un fine fabbricatore di parole e concetti
preziosi contro la gabbia degli aridi numeri. Ma al profeta Rasputin questa
volta non riuscirà il miracolo di farci credere che Berlusconi sia il nuovo
messia. È il solito vecchio demagogo
che ha raschiato tutti i barili vuoti della politica imbonitrice e del potere
per il potere. Vi è un punto a
partire dal quale ogni ulteriore sforzo aggrava la sconfitta, un punto che non
bisognerebbe mai oltrepassare. Sino
a quando Rasputin lavorava di nascosto, nelle alcove della zarina Alessandra
Fedorovna, negli incontri clandestini, l’arruffio della sua barba poteva essere
confuso con profondità di pensiero, i suoi occhi potevano suggerire visioni
estatiche, il suo farfugliamento poteva essere scambiato con balbettio mistico.
Ma quando lo zar Nicola si consegnò davvero
a Rasputin tutti si resero conto che era iniziata la fine dell’uno e
dell’altro. Dell’uno si scoprì l’essere imbelle e dell’altro l’essere
mistificatorio. Con la trovata
dell’Irpef secondo noi Berlusconi ha toccato il fondo del travestitismo. …
Rasputin l’ha svelato, l’ha consegnato nudo al dileggio degli italiani. Grazie
all’abracadabra dell’Irpef l’incantesimo è finito”. Sarebbe da cogliere con
spirito di grande sollievo per le sorti del bel paese l’auspicio con il quale
Francesco Merlo chiude il suo brillante pezzo di maestria giornalistica. Ma si
dia il caso che lo sfondo di questa tragicommedia sia proprio il bel paese che
non possiede, al pari dei personaggi richiamati quasi in vita, la grandezza
imperiale dei luoghi, dei tempi e perché no, di quegli esseri umani. Nel caso
così ben rappresentato si ha a che fare invece con teatranti di provincia,
della provincia più profonda della antica Europa, animati da un asservimento
smisurato, che, colti dalle vicende della storia non per costruire imperiali
imprese ma solo per difendere interessi più immediati e concreti, hanno fatto
strame di tutte le regole che il bel paese era faticosamente riuscito a darsi
all’indomani della tragedia del fascismo e della guerra. È da auspicare che il
sonno profondo delle coscienze sia proprio giunto al suo termine, e che questo
ultimo atto di illusionismo mediatico non abbia a prolungarlo nel tempo.
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