Da “Se
volete l’euro, volete la recessione” di Alberto Bagnai, su “il Fatto
Quotidiano” del 7 di agosto 2014: (…). Nel 4° trimestre 2013 il Pil italiano
era aumentato dello 0,13% rispetto al terzo trimestre, portando il risultato
annuo a un “esaltante” -1.85%. Questo aumento, dopo nove diminuzioni
consecutive, era il raggio di luce in fondo al tunnel che scacciava i gufi. Poi
il primo trimestre 2014 era stato negativo, ora sappiamo che lo è stato anche
il secondo: siamo nuovamente in recessione, e non una qualsiasi. Negli ultimi
tre anni il Pil è cresciuto in un solo trimestre. Una cosa simile non si è mai
verificata nella storia dell’Italia unitaria, escludendo i periodi bellici.
(…).
Nel primo trimestre del 2012 il Pil italiano aveva fatto -1%, un tonfo
paragonabile solo a quello successivo al default Lehman. Nel maggio successivo,
a un giornalista della Cnn che gli chiedeva dove pensasse di andare a parare
con l’austerità, Mario Monti disse una frase da manuale di economia (ma non di
politica): “Stiamo guadagnando una migliore posizione competitiva a causa delle
riforme strutturali: stiamo in effetti distruggendo la domanda interna
attraverso un consolidamento fiscale”. Cosa voleva dire l’allora premier? Prima
dell’euro per comprare una Audi o una Bmw occorreva comprare marchi: se tutti
gli italiani si innamoravano delle “tedesche”, il valore del marco saliva, e
magari qualcuno ripiegava su un’Alfa Romeo. Al cuore non si comanda, ma anche
col portafoglio non si scherza. L’euro impedisce il funzionamento di questo
meccanismo di mercato e così alimenta le importazioni nel Sud di prodotti del
Nord. Un paese è in effetti come una famiglia: se esce per le importazioni più
di quello che entra dalle esportazioni, la differenza va coperta con debiti.
Avrete visto finanziarie tedesche offrire finanziamenti a prezzi stracciati per
comprare auto tedesche? (…). Chi approfittava della cortese offerta,
contribuiva ad aumentare il debito estero italiano. Notate che per il Nord
prestare al Sud non è un problema, perché l’euro, oltre a drogare la
competitività, elimina il rischio di cambio. Ma arriva il momento nel quale i
crediti bisogna riscuoterli, magari perché scoppia una crisi, e i debitori
devono “rientrare”. La prima cosa in questi casi è smettere di indebitarsi, e
quindi, per un paese, ridurre le importazioni. Ma come si fa, se i rapporti di
prezzo sono favorevoli ai beni esteri, e il cambio non può correggerli perché
non risponde alle leggi del mercato? Semplice: si tagliano i redditi dei
cittadini (aumentando le tasse o bloccando i rinnovi contrattuali). Se non hai
soldi, non puoi spenderli, non puoi esprimere “domanda” di beni, nemmeno di
beni esteri. “Distruggere domanda” significa tagliare redditi per ridurre le
importazioni in modo da bilanciare i conti esteri. Mica avrete creduto che
l’austerità servisse a ridurre il debito pubblico? Ogni economista sa che non è
così: in recessione l’austerità riduce redditi e gettito, peggiorando la
situazione. (…). Sui conti esteri, però, l’austerità fa miracoli. Fra 2011 e
2013 Monti ha ridotto il rapporto fabbisogno-Pil di soli 0,7 punti percentuali,
ma il Prodotto interno lordo è crollato in due anni di più del 4%, e quindi il
rapporto debito-Pil è aumentato di 12 punti. Una catastrofe? Per noi sì, per i
creditori esteri no: il saldo estero infatti è andato in surplus. Certo, i
crediti vanno rimborsati. (…). Distruggere l’economia di un paese per obbedire
ai diktat di creditori incauti è immorale (perché anche i creditori avrebbero
dovuto sopportare il peso delle proprie scelte sbagliate), e soprattutto
sciocco. Il risultato infatti qual è? Quello che vediamo oggi in un’altra
notizia: nell’ultimo mese gli ordinativi all’industria tedesca sono crollati di
più del 3%. Strozzando i propri debitori, che sono il suo principale mercato,
la Germania sta strozzando se stessa. L’unica prospettiva di salvezza è quella
cortesemente offerta dai promotori del referendum “anti-austerità”. Eh già!
Perché dopo averci sbriciolato per riavere indietro “il suo tesoro”, ora il
Gollum tedesco, se vuole che qualcuno compri i suoi beni, deve far ripartire la
domanda in Europa. Che c’è di meglio del permettere al Sud di ricominciare a
indebitarsi? Vedrete: la Merkel sfoggerà presto il suo volto umano, non per far
contenti i colleghi “anti-austerity”, perché le conviene. Ma a noi, invece di
riprendere a indebitarci per aiutarla, converrebbe abbandonare l’euro, un sistema
nel quale l’austerità è l’unico meccanismo di aggiustamento degli squilibri con
l’estero.
Da “I costi
dell’Europa non politica” di Jean Paul Fitoussi, sul quotidiano la
Repubblica del 24 di novembre 2014: (…). Non esiste alcuna teoria, né alcune
prova empirica a indicare che dall’austerità possa emergere un mondo migliore.
L’Europa è ammalata della dottrina da lei stessa iscritta nei suoi Trattati, in
nome della quale va perseguendo a qualunque costo — sia economico che sociale —
il Graal dell’equilibrio di bilancio. Eppure una politica del genere non ha
alcuna prospettiva di successo. (…). Ai governi non rimane più alcun margine di
manovra, tranne che per l’attuazione di riforme strutturali, il cui risultato
«involontario» potrebbe essere la deflazione. Privati degli strumenti del
potere — la politica monetaria, di bilancio, di cambio e la politica
industriale — non hanno oramai altra risorsa che quella di portare avanti una
politica di competitività a breve termine, il cui strumento privilegiato è la
compressione dei costi salariali. Per raggiungere quest’obiettivo possono
disporre di alcune leve: sovvenzioni alle imprese sotto forma di riduzione
degli oneri sociali, liberalizzazione del mercato del lavoro (o meglio, se
vogliamo dir pane al pane, minori tutele per i lavoratori) e tagli alla spesa
sociale della nazione. Ma se un Paese guadagna in competitività, vuol dire che
altri l’hanno persa. Eppure esiste un’altra strategia, assai meno rischiosa,
dato che non può in nessun caso portare alla deflazione; un modo più
cooperativo per comprimere il costo unitario del lavoro e migliorare così i
livelli di competitività, non attraverso la riduzione dei salari, ma
accrescendo la produttività del lavoro. Il suo strumento privilegiato: gli
investimenti, sia privati che pubblici; i quali ultimi portano infatti a
migliorare l’efficienza del settore privato (basti pensare alle reti dei
trasporti e delle comunicazioni). Ma questa strategia è preclusa alla maggior
parte dei Paesi dell’Eurozona dai vincoli di bilancio. L’aspetto più
sconvolgente di queste politiche europee, irragionevoli sul piano economico, è
la loro durezza sul quello sociale. Le tutele vengono ridotte nel momento
stesso in cui la società ha più bisogno di essere protetta. Il modello sociale
europeo, concepito in un periodo di piena occupazione viene progressivamente
smantellato nel momento del maggior bisogno. In altri termini: quando c’è
lavoro per tutti si promettono alte indennità ai disoccupati, per poi ridurle,
col pretesto di una buona gestione finanziaria, via via che la disoccupazione
aumenta. Meglio sarebbe, per uscire dal binario morto su cui ci troviamo,
riconoscere che l’architettura europea è fragile in ragione dei suoi vizi di
costruzione, e tentare di porvi rimedio. Il principale di questi vizi sta
nell’aver concepito l’Unione politica e monetaria come uno spazio ove i debiti
nazionali sono sovrani, mentre la moneta non ha sovrano. Non si tratta di una
formula. Gli stati membri dell’Eurozona emettono prestiti in una valuta sulla
quale non hanno alcun controllo. In questo modo si lascia libero corso agli
umori e alle profezie auto-realizzatrici dei mercati. Se questi ultimi
diffidano — anche se a torto — di un dato Paese, i capitali si affretteranno a
lasciarlo, creando al suo interno una crisi di liquidità (diminuzione della sua
massa monetaria). La quale però non suscita alcun meccanismo di correzione (una
svalutazione) e si trasforma di conseguenza in una crisi di solvibilità. A quel
punto, lo Stato potrà ottenere prestiti solo a tassi notevolmente più alti,
dato che non può costringere la propria banca centrale e sottoscrivere i suoi
titoli. Ma c’è di peggio: questa minaccia sulla solvibilità di uno Stato mette
in pericolo il suo sistema bancario, se i titoli pubblici che detiene si
svalutano e i depositi bancari diminuiscono per effetto della riduzione della
massa monetaria. E si vieta alla Banca centrale europea, pure consapevole di
questo problema, di porvi rimedio. (…). Quella che ho raccontato è una storia
triste. La storia di un deficit di democrazia crescente, della distruzione di
un capitale umano e sociale, di un deprezzamento del futuro. Eppure l’Europa è
ricca, per le sue risorse, la sua qualità di vita, il suo capitale di
conoscenze, la competenza delle sue donne e dei suoi uomini. Una politica
diversa avrebbe potuto rivelare queste ricchezze. Per quanto tempo pagheremo
ancora i costi economici e sociali dell’assenza di un’Europa politica?
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