"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 25 novembre 2014

Oltrelenews. 12 “Austerità”.



Da “Se volete l’euro, volete la recessione” di Alberto Bagnai, su “il Fatto Quotidiano” del 7 di agosto 2014: (…). Nel 4° trimestre 2013 il Pil italiano era aumentato dello 0,13% rispetto al terzo trimestre, portando il risultato annuo a un “esaltante” -1.85%. Questo aumento, dopo nove diminuzioni consecutive, era il raggio di luce in fondo al tunnel che scacciava i gufi. Poi il primo trimestre 2014 era stato negativo, ora sappiamo che lo è stato anche il secondo: siamo nuovamente in recessione, e non una qualsiasi. Negli ultimi tre anni il Pil è cresciuto in un solo trimestre. Una cosa simile non si è mai verificata nella storia dell’Italia unitaria, escludendo i periodi bellici. (…).
Nel primo trimestre del 2012 il Pil italiano aveva fatto -1%, un tonfo paragonabile solo a quello successivo al default Lehman. Nel maggio successivo, a un giornalista della Cnn che gli chiedeva dove pensasse di andare a parare con l’austerità, Mario Monti disse una frase da manuale di economia (ma non di politica): “Stiamo guadagnando una migliore posizione competitiva a causa delle riforme strutturali: stiamo in effetti distruggendo la domanda interna attraverso un consolidamento fiscale”. Cosa voleva dire l’allora premier? Prima dell’euro per comprare una Audi o una Bmw occorreva comprare marchi: se tutti gli italiani si innamoravano delle “tedesche”, il valore del marco saliva, e magari qualcuno ripiegava su un’Alfa Romeo. Al cuore non si comanda, ma anche col portafoglio non si scherza. L’euro impedisce il funzionamento di questo meccanismo di mercato e così alimenta le importazioni nel Sud di prodotti del Nord. Un paese è in effetti come una famiglia: se esce per le importazioni più di quello che entra dalle esportazioni, la differenza va coperta con debiti. Avrete visto finanziarie tedesche offrire finanziamenti a prezzi stracciati per comprare auto tedesche? (…). Chi approfittava della cortese offerta, contribuiva ad aumentare il debito estero italiano. Notate che per il Nord prestare al Sud non è un problema, perché l’euro, oltre a drogare la competitività, elimina il rischio di cambio. Ma arriva il momento nel quale i crediti bisogna riscuoterli, magari perché scoppia una crisi, e i debitori devono “rientrare”. La prima cosa in questi casi è smettere di indebitarsi, e quindi, per un paese, ridurre le importazioni. Ma come si fa, se i rapporti di prezzo sono favorevoli ai beni esteri, e il cambio non può correggerli perché non risponde alle leggi del mercato? Semplice: si tagliano i redditi dei cittadini (aumentando le tasse o bloccando i rinnovi contrattuali). Se non hai soldi, non puoi spenderli, non puoi esprimere “domanda” di beni, nemmeno di beni esteri. “Distruggere domanda” significa tagliare redditi per ridurre le importazioni in modo da bilanciare i conti esteri. Mica avrete creduto che l’austerità servisse a ridurre il debito pubblico? Ogni economista sa che non è così: in recessione l’austerità riduce redditi e gettito, peggiorando la situazione. (…). Sui conti esteri, però, l’austerità fa miracoli. Fra 2011 e 2013 Monti ha ridotto il rapporto fabbisogno-Pil di soli 0,7 punti percentuali, ma il Prodotto interno lordo è crollato in due anni di più del 4%, e quindi il rapporto debito-Pil è aumentato di 12 punti. Una catastrofe? Per noi sì, per i creditori esteri no: il saldo estero infatti è andato in surplus. Certo, i crediti vanno rimborsati. (…). Distruggere l’economia di un paese per obbedire ai diktat di creditori incauti è immorale (perché anche i creditori avrebbero dovuto sopportare il peso delle proprie scelte sbagliate), e soprattutto sciocco. Il risultato infatti qual è? Quello che vediamo oggi in un’altra notizia: nell’ultimo mese gli ordinativi all’industria tedesca sono crollati di più del 3%. Strozzando i propri debitori, che sono il suo principale mercato, la Germania sta strozzando se stessa. L’unica prospettiva di salvezza è quella cortesemente offerta dai promotori del referendum “anti-austerità”. Eh già! Perché dopo averci sbriciolato per riavere indietro “il suo tesoro”, ora il Gollum tedesco, se vuole che qualcuno compri i suoi beni, deve far ripartire la domanda in Europa. Che c’è di meglio del permettere al Sud di ricominciare a indebitarsi? Vedrete: la Merkel sfoggerà presto il suo volto umano, non per far contenti i colleghi “anti-austerity”, perché le conviene. Ma a noi, invece di riprendere a indebitarci per aiutarla, converrebbe abbandonare l’euro, un sistema nel quale l’austerità è l’unico meccanismo di aggiustamento degli squilibri con l’estero.

Da “I costi dell’Europa non politica” di Jean Paul Fitoussi, sul quotidiano la Repubblica del 24 di novembre 2014: (…). Non esiste alcuna teoria, né alcune prova empirica a indicare che dall’austerità possa emergere un mondo migliore. L’Europa è ammalata della dottrina da lei stessa iscritta nei suoi Trattati, in nome della quale va perseguendo a qualunque costo — sia economico che sociale — il Graal dell’equilibrio di bilancio. Eppure una politica del genere non ha alcuna prospettiva di successo. (…). Ai governi non rimane più alcun margine di manovra, tranne che per l’attuazione di riforme strutturali, il cui risultato «involontario» potrebbe essere la deflazione. Privati degli strumenti del potere — la politica monetaria, di bilancio, di cambio e la politica industriale — non hanno oramai altra risorsa che quella di portare avanti una politica di competitività a breve termine, il cui strumento privilegiato è la compressione dei costi salariali. Per raggiungere quest’obiettivo possono disporre di alcune leve: sovvenzioni alle imprese sotto forma di riduzione degli oneri sociali, liberalizzazione del mercato del lavoro (o meglio, se vogliamo dir pane al pane, minori tutele per i lavoratori) e tagli alla spesa sociale della nazione. Ma se un Paese guadagna in competitività, vuol dire che altri l’hanno persa. Eppure esiste un’altra strategia, assai meno rischiosa, dato che non può in nessun caso portare alla deflazione; un modo più cooperativo per comprimere il costo unitario del lavoro e migliorare così i livelli di competitività, non attraverso la riduzione dei salari, ma accrescendo la produttività del lavoro. Il suo strumento privilegiato: gli investimenti, sia privati che pubblici; i quali ultimi portano infatti a migliorare l’efficienza del settore privato (basti pensare alle reti dei trasporti e delle comunicazioni). Ma questa strategia è preclusa alla maggior parte dei Paesi dell’Eurozona dai vincoli di bilancio. L’aspetto più sconvolgente di queste politiche europee, irragionevoli sul piano economico, è la loro durezza sul quello sociale. Le tutele vengono ridotte nel momento stesso in cui la società ha più bisogno di essere protetta. Il modello sociale europeo, concepito in un periodo di piena occupazione viene progressivamente smantellato nel momento del maggior bisogno. In altri termini: quando c’è lavoro per tutti si promettono alte indennità ai disoccupati, per poi ridurle, col pretesto di una buona gestione finanziaria, via via che la disoccupazione aumenta. Meglio sarebbe, per uscire dal binario morto su cui ci troviamo, riconoscere che l’architettura europea è fragile in ragione dei suoi vizi di costruzione, e tentare di porvi rimedio. Il principale di questi vizi sta nell’aver concepito l’Unione politica e monetaria come uno spazio ove i debiti nazionali sono sovrani, mentre la moneta non ha sovrano. Non si tratta di una formula. Gli stati membri dell’Eurozona emettono prestiti in una valuta sulla quale non hanno alcun controllo. In questo modo si lascia libero corso agli umori e alle profezie auto-realizzatrici dei mercati. Se questi ultimi diffidano — anche se a torto — di un dato Paese, i capitali si affretteranno a lasciarlo, creando al suo interno una crisi di liquidità (diminuzione della sua massa monetaria). La quale però non suscita alcun meccanismo di correzione (una svalutazione) e si trasforma di conseguenza in una crisi di solvibilità. A quel punto, lo Stato potrà ottenere prestiti solo a tassi notevolmente più alti, dato che non può costringere la propria banca centrale e sottoscrivere i suoi titoli. Ma c’è di peggio: questa minaccia sulla solvibilità di uno Stato mette in pericolo il suo sistema bancario, se i titoli pubblici che detiene si svalutano e i depositi bancari diminuiscono per effetto della riduzione della massa monetaria. E si vieta alla Banca centrale europea, pure consapevole di questo problema, di porvi rimedio. (…). Quella che ho raccontato è una storia triste. La storia di un deficit di democrazia crescente, della distruzione di un capitale umano e sociale, di un deprezzamento del futuro. Eppure l’Europa è ricca, per le sue risorse, la sua qualità di vita, il suo capitale di conoscenze, la competenza delle sue donne e dei suoi uomini. Una politica diversa avrebbe potuto rivelare queste ricchezze. Per quanto tempo pagheremo ancora i costi economici e sociali dell’assenza di un’Europa politica?

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