Da “Il dio
nero già in declino” di Federico Rampini, sul settimanale “D” del 20 di
agosto dell’anno 2011: “(…). …- Ma perché Obama ci ha tradito? Che
delusione tremenda -. I progressisti europei lo avevano eletto presidente del
mondo, Oslo gli aveva dato il Nobel della pace, e lui ricambia in questo modo?
Una volta, questo lo chiamavamo culto della personalità. è una malattia di cui
la sinistra ha sofferto fin da bambina: Lenin, Mao, Ho Chi Minh, Che Guevara...
Per generazioni la sinistra ha trasformato i suoi leader in semidei, santi
laici. Non bastava glorificare le loro idee, bisognava che fossero dei
superuomini. Forse la parola giusta è demiurgo. Da Wikipedia: in Platone il
demiurgo è una forza ordinatrice, plasmatrice, che trasforma e forma. Dal
dizionario Sabatini: Chi, in forza della propria personalità, riesce a
modellare gli eventi secondo il proprio volere. Della mia gioventù militante
conservo però la memoria di una sinistra che aveva sviluppato degli anticorpi
per immunizzarsi dal culto della personalità. Non tutta la sinistra,
naturalmente. Ricordo all'università i primi cortei cui partecipai a Milano,
negli anni Settanta, col Movimento studentesco che intonava evviva il compagno
Stalin, e mi venivano i brividi. Ma nello stesso periodo Enrico Berlinguer e
Luciano Lama erano anti-eroi per eccellenza. Anche nella sinistra giovanile,
movimentista ed extra-parlamentare, c'era almeno un principio valido: la
diffidenza verso la delega. Per cambiare la società non ci si poteva affidare
solo ai propri rappresentanti, bisognava agire in proprio. In alcune frange estremiste
purtroppo questo degenerava nella sfiducia verso la democrazia parlamentare,
l'avversione allo Stato di diritto, la tentazione della forza armata. Ma in
tanti di noi, radicali e pacifisti, utopisti e arrabbiati, l'avversione alla
delega era un principio sano: l'impegno politico e sociale non si può esaurire
mettendo una scheda nell'urna, la qualità del mondo in cui viviamo la si
costruisce giorno per giorno, l'ingiustizia va contrastata continuamente. C'era
anche l'idea, un po' cattolica e un po' ingenua, che una persona sinceramente
progressista si riconosce perfino dal modo in cui vive: nei rapporti umani,
nelle scelte di consumo, nel tempo libero, nei mestieri a cui aspiravamo,
bisognava distinguersi, riconoscersi. Questo poteva sconfinare nell'integralismo,
nel fanatismo, ma non era sbagliata l'idea che le idee politiche e la caratura
morale facessero tutt'uno. Obama ha commesso la sua brava dose di errori, ma
nella rapidità con cui si è passati dall'adorazione del "Dio nero"
alla delusione c'è il segno di una sinistra pigra, volubile, capricciosa, in
cerca di scorciatoie, in attesa di miracoli venuti dall'alto.”
Da “La
condanna senza appello: è debole” di Furio Colombo, su “il Fatto Quotidiano”
del 6 di novembre 2014: (…). Circola la frase “Obama è debole”, e
“c’è una mancanza di leadership”. Primo paradosso di una vicenda politica e di un
esito elettorale che racconta e certifica ciò che non è. Un lungo e diffuso
successo, in quasi tutti gli impegni e le promesse di Obama, viene presentato
agli americani (e accettato alle urne) come un fallimento. Ma la voce che
annunciava questo insuccesso era quella senza pause e senza soste di una feroce
e immensamente finanziata opposizione repubblicana che sostituendo la famosa
parola d’ordine anglosassone ( My country, right or wrong, sostengo il mio
Paese anche se sbaglia) con un’altra, più antica e selvaggia: il mio partito
prima di tutto. (…). Ma perché Obama, che ha governato bene, amministrato bene,
rimesso in moto l’economia dopo la grave crisi del 2008, Obama, che ha chiuso o
sta chiudendo guerre dal costo umano e dal costo economico immenso, e ha
rifiutato di cominciare qualsiasi altra guerra per qualsiasi altra ragione,
viene visto come uno che ha fallito e che, per questo, viene abbandonato dagli
elettori? Forse bisogna cominciare da questo ultimo punto. Obama ha tentato in
tutti i modi di riportare politica, diplomazia e organizzazioni internazionali
al posto delle armi. Aveva le sue fortissime ragioni. Però l’immagine di chi
rifiuta le guerre non può più essere quella del leader macho, ben radicata
nella tradizione. Si presta a essere trattata come debolezza e come mancanza di
leadership. Inoltre provoca la vendetta delle grandi produzioni di armi, che si
aggiunge alla poderosa vendetta del mondo delle assicurazioni, dunque della
finanza. Si installa qui la seconda grande imputazione che i Repubblicani, con
grande successo, sono riusciti far trasformare in condanna dalla giuria
popolare degli elettori: Obama rifiuta di guidare il mondo, ovvero di giocare
da leader della grande potenza. Ha visto meglio di altri che chi guida,
comanda, e chi comanda impone, creando ondate di risentimento come quelle che
si sono formate nel mondo, contro l’America e che durano ancora. Soprattutto
perché ritiene che il mondo sia profondamente cambiato. Obama ha capito che non
c’erano strade di gloria lungo cui avviarsi con gli stendardi al vento, ha
visto il paesaggio disastrato da un immenso dislivello sociale, dentro ciascun
Paese e nel mondo, e ha capito che a quel disastro, la diseguaglianza ormai
estrema, bisognava dedicare il principale impegno dei governi. Certo, il mondo
ricco che violentemente osteggia Obama e cerca di screditarlo non è
maggioritario. Il grosso, in termini di voti, deve per forza essere il popolo
di Obama e della lotta alla diseguaglianza. (…). Ora basta cambiare le
percezioni, le persuasioni, i sentimenti, le impressioni, le nozioni, e avere
forza tecnica e finanziaria per mostrare scenari diversi. Ovvio che il mondo
delle assicurazioni e quello delle armi si sono resi conto subito di non avere
un popolo. E se lo sono procurato attraverso la religione. Hanno aperto partito
e media, microfoni e giornali, scuole medie e università a un mondo molto vasto
di persuasioni e pregiudizi religiosi, di superstizioni e parti separate ma
forti di fondamentalismo evangelico e cattolico, un mondo che si estende
dall’omicidio del medico abortista all’imposizione del creazionismo in tutte le
scuole, un popolo, soprattutto di poveri, che è pronto a votare contro Obama
perché sostiene il diritto delle donne a decidere. Questo tipo di religiosità,
rigida, fanatica ed estranea alla cultura, si è vista irrorare di danaro, di
luoghi di comunicazione e di inserimento in prestigiose nomine politiche,
specialmente locali, dove si possono cambiare curricula scolastici e sentenze.
Poiché molte di queste chiese sono nere, ecco il miracolo della ricchezza:
portare parte di un popolo di neri poveri a votare, a causa della propria fede
religiosa, contro il primo presidente nero. È ciò che è avvenuto. Quei neri non
si sono resi conto di avere lavorato accanto e per conto di un sommerso e quasi
invisibile zoccolo duro del razzismo bianco.
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