"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 3 febbraio 2013

Dell’essere. 10 “Dimmi cosa c'è fuori”. La storia di R.



E fu dopo aver ascoltato la storia di R. che un silenzio assordante volteggiò più volte nell’aria per cadere poi su tutti noi. E più che un silenzio era un gelo che penetrava nelle ossa ed ancor più penetrava nelle nostre menti e nei nostri pensieri. Dopo, nulla sarebbe stato più come prima della storia di R. È che la storia di R. aveva sconvolto le regole del gioco. Un gioco giuocato e condotto dai presenti sulla “memoria”, che l’atmosfera del luogo rendeva ancor più interessante ed intrigante. Dall’ampio finestrone che dava sul mare in burrasca si intravvedevano le isole lontane come fustigate dai lampi che, seppur remoti, ne accendevano l’aria come d’un fuoco divino. Il cielo plumbeo e basso come non mai annunciava la lontana tempesta in arrivo. Il mare mugghiava e le onde s’infrangevano con una tale forza che la schiuma schiumava la spiaggia coprendola di una coltre persistente. E fu la storia di R., raggelante nella sua amarissima verità, che dischiuse e rese coscienti del momento le nostre divaganti menti. Raccontava R. di quando bambino aveva visto l’anziana sua nonna allettarsi per non più partecipare ad un minimo di vita familiare. E fu allora che nella sua mente di bambino galopparono le prime serie domande sulla vita. Mi viene da raccontare la storia di R. dopo aver rinvenuto, tra i tanti ritagli amorevolmente raccolti e custoditi negli anni, un pezzo del professor Umberto Galimberti – “Dimmi cosa c'è fuori” -  pubblicato sul settimanale “D” del 21 di novembre dell’anno 2009. Scriveva in quel tempo l’illustre Autore: (…). Su questo ‘dimmi cosa c'è fuori’ è opportuno ritornare oggi che viviamo un tempo in cui sempre più sembra diffondersi la cultura della reclusione e dell'isolamento riservato a quanti, per malattia, per emarginazione, per perdita del posto di lavoro, per i disagi connessi all'immigrazione, non sono portatori di quella gioia, di quell'esuberanza, di quella festività da cui siamo inondati dalla pubblicità e dalle trasmissioni televisive condotte da quelli che io vado chiamando professionisti della felicità. La malattia, quanto più è grave, tanto più tende a nascondersi. E nessuno la va a cercare, perché la sua vista inquieta. Raccontava R. di come, alla vista della anziana nonna sprofondata in permanenza in un letto tecnologico, avesse trovato necessario, seppur ancora bambino, soddisfare quelle curiosità che la condizione estrema della degente aveva suscitato all’improvviso nella sua mente giovane. Ed andava esplorando, giorno per giorno, con continue, assillanti domande rivolte agli adulti della casa, la nuova condizione dell’anziana donna. E la sua curiosità di bambino lo spingeva, una prima volta, a chiedere di quell’assoluta immobilità che si presentava ai suoi giovanissimi occhi; e di chiedere del come e del perché l’anziana donna non potesse più affacciarsi ad un balcone; ed ancor più, con l’intraprendenza propria dei bambini, come facesse a svolgere le sue necessità corporali in quella nuova, per lui inattesa, condizione di evidente costrizione personale. Ed ancor più, con l’impudicizia innocente propria dei bambini, chiedeva ad ogni passo come quella donna potesse provvedere alle sue personali pulizie. Le risposte a quelle innocenti domande erano sempre di una evasività da far paura. E fu così che, come sempre accade quando il mondo e la  realtà costruiti nella mente dei bambini si intersecano con il mondo e la realtà costruite nella mente degli adulti, in una delle occasioni familiari d’incontro, R. ebbe  a dire a gran voce e nello sconcerto generale degli astanti: - Ma perché non muore? -. Si rimase tutti senza parole alla conclusione della storia di R. È che il  bambino R. aveva a quel tempo resa evidente e fatta sua l’idea di cosa debba essere la “vita” affinché risulti essere vissuta degnamente, completamente. Ai suoi giovanissimi occhi ed ai suoi giovanissimi pensieri risultava intollerabile una “vita” che non avesse un pieno possesso e padronanza delle abilità e delle facoltà del libero vivere. Concluse R., amaramente, la sua storia di memoria: - È da allora che non ho trovato e non trovo risposte a quella mia terrificante domanda -. Il silenzio ci avvolse tutti. Non avevamo neanche noi le risposte che R. andava ancora cercando. Sol che avesse letto la prosa del mio ritaglio. Forse. Scrive infatti il professor Galimberti: Questa segreta complicità tra chi, soffrendo di una malattia che nulla di buono lascia presagire, tiene nascosta la sua condizione, e chi evita di entrare in contatto col malato per non incontrare quell'impaccio discorsivo che paralizza tutte le parole gravide di false speranze e di vuoto futuro, crea quella strana condizione che porta chi soffre in un isolamento aggiuntivo a quello già provocato dalla malattia. E così la nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della sofferenza. Una sofferenza silenziosa, densa come la nebbia, che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare inosservata solo a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. È forse la “rimozione percettiva, visiva, linguistica” che R., nella totale ingenuità dell’infanzia, metteva inconsapevolmente in atto? E con quali conseguenze per l’animo degli uomini? Conclude il professor Galimberti: Ma il rimosso ritorna come atrofizzazione del nostro cuore che, per non percepire, non vedere, non sentire quel che inevitabilmente lo tocca, deve procedere a tali colpi di amputazione della propria sensibilità, da diventare alla fine un povero cuore. La condizione umana infatti è comune e il tentativo di chi vuol difendersi non solo dalla malattia, ma anche dalla sua vista, è l'inganno di un giorno. E giorno dopo giorno l'inganno diventa la falsificazione di una vita. Apriamo allora gli ospedali alle scuole, e le scuole agli ospedali, alle carceri, alle case degli immigrati, ai campi Rom e in generale ai luoghi del disagio e del dolore, non per intristire la vita dei nostri ragazzi, ma per non ingannarli, per non far credere loro che la realtà sia quella descritta dalla televisione, dove, tra balli e canti, si celebra solo la festa della vita, privando così i nostri ragazzi di tutte quelle esperienze che possono creare in loro quella sensibilità che li renderà idonei ad affrontare la vita, quando questa si presenterà nel suo lato oscuro e buio. Era il 21 di novembre dell’anno 2009.

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