(…). In una pausa tra i pedali
Geo mi chiede: «Ma c’è la crisi economica?». Geo, che sa distinguere, ormai a
nove anni, tra possibile, plausibile e probabile, si fa domande cui non so
rispondere oltre un ovvio “sì”. In Italia si sta male? Dipende. È che forse non
è facile capire come stanno gli italiani, cos’è il tenore di vita e quanto
questo assomigli ad uno stipendio percepito. Lascio letture economicistiche e
psicosociali ai veri esperti, io mi arrovello, come papà, a spiegare questa
cosa al mio bambino. Certo, una casa di 70 metri quadri può
costare 400 mila euro a Roma e a Milano e 150 in molte altre parti
d’Italia, ma lo stipendio di una maestra elementare è sempre lo stesso,
un’automobile costa la stessa cifra dappertutto e così pure le figurine dei
calciatori, no il meccanico e il muratore però, e neanche andare a mangiare una
pizza costa uguale. «Geo, al mare di Castrocucco “la margherita” la paghiamo 4
euro, qui in città 8 o 9». «Mamma mia!». «Mamma tua e pure povero papà, amore
mio…». E neanche gli italiani se la cavano tutti allo stesso modo, ci sono
quelli che giocano in borsa e quelli che non escono mai di casa, quelli che
fanno tutto via internet, anche l’amore, soprattutto l’amore, e quelli che non hanno
mai acceso un computer, ci sono quelli che non sanno pranzare senza avere la tv
davanti e quelli che da anni il televisore l’hanno buttato via, quelli che
dicono di averlo fatto, ma di nascosto sbirciano e se lo sciroppano. Scriveva
così in una canicolare – molto probabilmente - domenica 7 d’agosto dell’anno
2011 il musicista e scrittore Andrea Satta. Lo scriveva sul quotidiano l’Unità
col titolo “La grande crisi spiegata a
mio figlio”. Ne ho ritrovato il ritaglio, prezioso. Mi rapisce la scrittura
di Andrea Satta, così come mi rapisce il Suo semplice scrivere che è come un
parlare calmo, ragionato, magari sottovoce. Senza strillare. Ma il Suo scrivere
che parla scende in fondo, informa la coscienza delle “cose” del mondo, per
come esse vanno, semplicemente tanto che al pari del Suo “Geo” lo si intende. È
per questo che custodisco gelosamente i ritagli dei Suoi scritti. Per proporli
poi a chi della lettura – che nel caso è conversazione pacata – se ne nutre. E
continua nel Suo pezzo: Siamo il Paese dei cellulari accesi e
indagati, il popolo che non vuol fare lavori umili, dicono, quello che riempie
comunque i ristoranti, vedo, ma anche quello che, siccome non ci sono soldi, i
tagli li fa alla cultura, alla scuola, alla sanità, ai bambini e mette i ticket
sulle ricette. Ci sono gli italiani che hanno avuto tutto dai genitori, la
casa, la macchina, qualche risparmio e 2000 metri di oliveto
allo svincolo della statale, che poi c’è passato il piano regolatore e tutto è
diventato edificabile (che conoscevano l’assessore e ora vale, vale, vale), e
mamma e nonna stanno casa, tra la messa e la pasta della domenica. E nonno?
Nonno s’è rincoglionito coi nipotini e la sera non esce mai e quindi non
spende. Si vive con uno stipendio basso e ma si sta bene lo stesso. L’ Italia è
una magia, dove ognuno s’è fatto gli affari suoi come nessun manager avrebbe
mai saputo neanche immaginare. L’importante è non dovere rispondere ad un
criterio universale perché allora salta tutto in aria. Quindi lasciateci fare. Amore
mio, non resta che pedalare… Ha scritto di recente Concita De Gregorio
su la Repubblica del 24 di gennaio - "Così
siamo diventati poveri" -: I numeri non rendono l’idea. Siamo
assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario perché
si traducano in un pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle
somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio
dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre
di mezza età, la madre. Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da
una campagna elettorale che discute di pensioni e di tasse, di esodati e di
aliquote: un mondo politico che parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro
ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al
nero, ha redditi sotto i mille euro. La media delle famiglie italiane guadagna meno di ventimila euro
l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla
patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo. C’è
differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che genera,
in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione. Siamo
tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una
famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la
quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà
relativa. Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché
ormai sono anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi, che il ceto medio
è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono in
macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, (…), è che
nell’indifferenza diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa
al super di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per
trovare un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub,
al nero, è diventato assolutamente normale. Tutto intorno è così. L’ascensore
sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno.
Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un destino peggiore dei padri,
il giovane laureato in Legge, figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che
non sa che farsene del suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va
avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui
parlare, la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un
progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è
libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere. Lo ha
scritto Concita De Gregorio in un dossier nel quale ha “tipizzato” le figure di
una umanità sofferente, in un mondo che è tornato povero. Quello stesso mondo
che, nel bel paese, si era fatto abbacinare ed abbindolare da un quindicennio
di mirabolanti promesse di ricchezza e di quant’altro possibile per tutti sotto
questo cielo, tanto che, per dirla con un’idea espressa magistralmente da
Goffredo Fofi, la cosa più straordinaria che quel neoliberismo sia riuscito a realizzare
nella sua impetuosa avanzata è stata che i poveri abbiano amato i ricchi, svisceratamente,
sull’idea balzana che tanto le “classi” – sociali intendo dire –
non ci sono più. Amarli al punto da accettarne le vite dissolute, senza anima,
senza responsabilità sociale. Ora, scrive Concita De Gregorio, “l’ascensore
sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno” e
l’appartenenza alle “classi” diviene palese anche ai più sprovveduti che, del mito
della ricchezza a buon mercato, della vita gaudente senza impegno e
responsabilità, si erano lasciati lusingare e catturare. Del dossier di Concita
De Gregorio proporrò – nel layout di questo blog - le sei storie sofferenti di
un popolo socialmente ed economicamente regredito, tornato “indietro di 27 anni” nelle
sue conquiste economiche e sociali, e perché no, nelle sue conquiste dei
cosiddetti inalienabili “diritti” di cittadinanza, che fanno
di una moltitudine un popolo cosciente della sua storia e del suo divenire. Oltre
certi limiti, il buio.
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