E fu dopo aver ascoltato la
storia di R. che un silenzio assordante volteggiò più volte nell’aria per cadere
poi su tutti noi. E più che un silenzio era un gelo che penetrava nelle ossa ed
ancor più penetrava nelle nostre menti e nei nostri pensieri. Dopo, nulla
sarebbe stato più come prima della storia di R. È che la storia di R. aveva
sconvolto le regole del gioco. Un gioco giuocato e condotto dai presenti sulla “memoria”,
che l’atmosfera del luogo rendeva ancor più interessante ed intrigante.
Dall’ampio finestrone che dava sul mare in burrasca si intravvedevano le isole lontane
come fustigate dai lampi che, seppur remoti, ne accendevano l’aria come d’un
fuoco divino. Il cielo plumbeo e basso come non mai annunciava la lontana tempesta
in arrivo. Il mare mugghiava e le onde s’infrangevano con una tale forza che la
schiuma schiumava la spiaggia coprendola di una coltre persistente. E fu la
storia di R., raggelante nella sua amarissima verità, che dischiuse e rese
coscienti del momento le nostre divaganti menti. Raccontava R. di quando
bambino aveva visto l’anziana sua nonna allettarsi per non più partecipare ad
un minimo di vita familiare. E fu allora che nella sua mente di bambino
galopparono le prime serie domande sulla vita. Mi viene da raccontare la storia
di R. dopo aver rinvenuto, tra i tanti ritagli amorevolmente raccolti e
custoditi negli anni, un pezzo del professor Umberto Galimberti – “Dimmi cosa c'è fuori” - pubblicato sul settimanale “D” del 21 di
novembre dell’anno 2009. Scriveva in quel tempo l’illustre Autore: (…). Su
questo ‘dimmi cosa c'è fuori’ è opportuno ritornare oggi che viviamo un tempo
in cui sempre più sembra diffondersi la cultura della reclusione e
dell'isolamento riservato a quanti, per malattia, per emarginazione, per
perdita del posto di lavoro, per i disagi connessi all'immigrazione, non sono
portatori di quella gioia, di quell'esuberanza, di quella festività da cui
siamo inondati dalla pubblicità e dalle trasmissioni televisive condotte da
quelli che io vado chiamando professionisti della felicità. La malattia, quanto
più è grave, tanto più tende a nascondersi. E nessuno la va a cercare, perché
la sua vista inquieta. Raccontava R. di come, alla vista della anziana
nonna sprofondata in permanenza in un letto tecnologico, avesse trovato
necessario, seppur ancora bambino, soddisfare quelle curiosità che la
condizione estrema della degente aveva suscitato all’improvviso nella sua mente
giovane. Ed andava esplorando, giorno per giorno, con continue, assillanti
domande rivolte agli adulti della casa, la nuova condizione dell’anziana donna.
E la sua curiosità di bambino lo spingeva, una prima volta, a chiedere di
quell’assoluta immobilità che si presentava ai suoi giovanissimi occhi; e di
chiedere del come e del perché l’anziana donna non potesse più affacciarsi ad
un balcone; ed ancor più, con l’intraprendenza propria dei bambini, come
facesse a svolgere le sue necessità corporali in quella nuova, per lui inattesa,
condizione di evidente costrizione personale. Ed ancor più, con l’impudicizia innocente
propria dei bambini, chiedeva ad ogni passo come quella donna potesse
provvedere alle sue personali pulizie. Le risposte a quelle innocenti domande
erano sempre di una evasività da far paura. E fu così che, come sempre accade
quando il mondo e la realtà costruiti
nella mente dei bambini si intersecano con il mondo e la realtà costruite nella
mente degli adulti, in una delle occasioni familiari d’incontro, R. ebbe a dire a gran voce e nello sconcerto generale
degli astanti: - Ma perché non muore? -. Si rimase tutti senza parole alla
conclusione della storia di R. È che il
bambino R. aveva a quel tempo resa evidente e fatta sua l’idea di cosa
debba essere la “vita” affinché risulti essere vissuta degnamente,
completamente. Ai suoi giovanissimi occhi ed ai suoi giovanissimi pensieri
risultava intollerabile una “vita” che non avesse un pieno
possesso e padronanza delle abilità e delle facoltà del libero vivere.
Concluse R., amaramente, la sua storia di memoria: - È da allora che non ho
trovato e non trovo risposte a quella mia terrificante domanda -. Il silenzio
ci avvolse tutti. Non avevamo neanche noi le risposte che R. andava ancora
cercando. Sol che avesse letto la prosa del mio ritaglio. Forse. Scrive infatti
il professor Galimberti: Questa segreta complicità tra chi, soffrendo
di una malattia che nulla di buono lascia presagire, tiene nascosta la sua
condizione, e chi evita di entrare in contatto col malato per non incontrare
quell'impaccio discorsivo che paralizza tutte le parole gravide di false
speranze e di vuoto futuro, crea quella strana condizione che porta chi soffre
in un isolamento aggiuntivo a quello già provocato dalla malattia. E così la
nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della
sofferenza. Una sofferenza silenziosa, densa come la nebbia, che in modo
impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare inosservata solo a
colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. È forse la “rimozione
percettiva, visiva, linguistica” che R., nella totale ingenuità
dell’infanzia, metteva inconsapevolmente in atto? E con quali conseguenze per
l’animo degli uomini? Conclude il professor Galimberti: Ma il rimosso ritorna come
atrofizzazione del nostro cuore che, per non percepire, non vedere, non sentire
quel che inevitabilmente lo tocca, deve procedere a tali colpi di amputazione
della propria sensibilità, da diventare alla fine un povero cuore. La
condizione umana infatti è comune e il tentativo di chi vuol difendersi non
solo dalla malattia, ma anche dalla sua vista, è l'inganno di un giorno. E
giorno dopo giorno l'inganno diventa la falsificazione di una vita. Apriamo
allora gli ospedali alle scuole, e le scuole agli ospedali, alle carceri, alle
case degli immigrati, ai campi Rom e in generale ai luoghi del disagio e del
dolore, non per intristire la vita dei nostri ragazzi, ma per non ingannarli,
per non far credere loro che la realtà sia quella descritta dalla televisione,
dove, tra balli e canti, si celebra solo la festa della vita, privando così i
nostri ragazzi di tutte quelle esperienze che possono creare in loro quella
sensibilità che li renderà idonei ad affrontare la vita, quando questa si
presenterà nel suo lato oscuro e buio. Era il 21 di novembre dell’anno
2009.
Ti lascio un saluto, Ettore. Ti leggo sempre.Franca.
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