"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 28 febbraio 2013

Strettamentepersonale. 8 “Doxy” e mio padre.



Mi “inerpico” per l’irta e tortuosa scrittura che la storia che vi voglio raccontare m’impone. È come percorrere, ansioso ed ansante, lo stretto sentiero di un alto crinale con la certezza di sprofondare in un orrido qualora l’irriverenza o la sconvenienza di essa – la scrittura, intendo dire – mi prendessero la mano. È che è sempre difficile parlare, e tanto meno scriverne, di tutto ciò che afferisce alla sfera della corporalità degli umani. Ma la storia che vi voglio raccontare rappresenta per me molto di più di un fatto accaduto e che si ha voglia di rievocare. È una storia personale, di quelle che solo a ripensarci, dopo anni ed anni, la nostalgia, se non un magone profondo, ti assalgono lasciando dentro il dolce ricordo di quel tempo e l’amaro di quel qualcosa o di quel qualcuno che non ci sono più. Nel caso, di un caro, carissimo ed indimenticato qualcuno. Sono ritornato a quelle memorie, a quei carissimi, dolcissimi ricordi, dopo aver conosciuto “DOXY”. “Doxy”? Chi è costui? M222; 1167; PA; Lav 01; Col. 099, recita l’etichetta ad esso appesa. È semplicemente un pantalone, di quelli a taglio moderno – “slim fit” -, studiato e realizzato su di un modello tridimensionale – per come recita l’etichetta – di straordinaria vestibilità. Ho conosciuto da poco il modello “DOXY” e ne sono rimasto conquistato. Perché vi parlo di “DOXY”? Poiché è il pantalone “DOXY” che mi ha fatto tornare alla mente la storia che vorrei raccontare. Si era agli ultimi anni di vita del mio caro papà. Soleva consegnarmi con grande pudicizia le sue confidenze ed un giorno ebbe a dirmi delle difficoltà, all’atto della minzione, dovute alla “patta” dei suoi pantaloni non più con i tradizionali bottoni ma chiusa con una moderna “lampo”. Pantaloni con patta senza bottoni; una difficoltà in più per una naturale funzione. Al tempo mi sembrò essere la sua confidenza più che altro un problema legato essenzialmente alla sua età. Sbagliavo. Poiché, avanzando anch’io negli anni e raggiunta con successo una buona età, ho potuto constatare quanto di vero contenesse quella cara, carissima confidenza del mio papà. Un groppo ancor’oggi mi stringe alla gola. “DOXY”, però, ha risolto il mio problema. Se fosse ancora tra di noi avrebbe risolto anche il problema del mio caro papà. Poiché progettato e realizzato su di un modello tridimensionale? Non lo so. So solamente di starci molto meglio dentro. Meglio che con gli altri pantaloni con la patta chiusa con la “lampo”. Non cercherò la patta con i bottoni, come avrebbe voluto fare il mio papà. Introvabili allora. Mio padre custodiva con nostalgia il ricordo del suo sarto. Dove sono finiti i sarti? La storia che ho raccontato ve la ho raccontata per introdurvi alla lettura di una riflessione di Giacomo Papi – pubblicata su il settimanale “D” del 21 di gennaio dell’anno 2012 , “Le mani dei sarti” -  che di seguito trascrivo in parte. Scrive, in chiusura della Sua riflessione, Giacomo Papi: Non è un caso, come racconta Paul Henry Nystrom in Economics in fashion (New York, 1928), che la prima produzione industriale di abiti - iniziata intorno al 1830 - riguardò categorie non libere di scegliere. Per primi vennero i marinai, ma la produzione per i civili iniziò dieci anni dopo, quando qualcuno pensò di produrre vestiti per gli schiavi delle piantagioni di cotone degli Stati del Sud. Non sono rimaste fotografie. A nessuno poteva venire in mente di fotografare gli schiavi, a quei tempi. Anche il mio papà, divenuto vecchio, non è stato più libero di scegliere il pantalone con la patta con i bottoni. La nota “jeanseria” M*** non aveva ancora prodotto “DOXY”.

(…). Quale funzione identitaria e sociale svolgono i vestiti? E perché le firme attirano tanti pellegrini? In che cosa consiste di preciso il piacere di comprare? Sotto la crosta della civiltà sopravvive la preistoria. La moda è solo una variazione dell'uguale. È un errore imputare ai tempi che corrono i comportamenti di massa che si diffondono solo perché soddisfano bisogni primordiali. La varietà, la ricchezza e l'eleganza degli abiti - esattamente come le cicatrici o i tatuaggi rituali all'interno di una tribù - mostrano il successo con cui chi li indossa vive dentro la propria società. Le firme degli stilisti sono fossili di qualcosa che è scomparso. Come i vip sono ciò che rimane dei santi, il logo è la traccia del sarto, della mano dell'uomo che resiste nonostante la macchina. Fare shopping è prendere oggetti, riempire cesti o carrelli e portarseli a casa. Per questo ci piace. È ripetere i gesti degli antichi cacciatori e pescatori senza più far fatica, senza più attesa, senza più rischiare di fallire e avere fame. Lo shopping ci rassicura sulle nostre possibilità di sopravvivere perché è una replica disidradata e stilizzata delle attività più elementari dell'uomo, dei nostri più antichi lavori. E la moda, nell'era industriale, è intimamente connessa al lavoro. Ogni abito, oggi, è una divisa.

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