“La tv che ruba l'anima” è il titolo di una corrispondenza di Umberto Galimberti pubblicata qualche
tempo addietro - il 12 di luglio dell'anno 2008 - su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica”. In e con essa
l’illustre Autore compiva un’analisi molto approfondita degli aspetti più
pervasivi dei moderni mezzi della
comunicazione di massa – televisione ed internet soprattutto – e delineava i
pericoli che le democrazie del terzo millennio corrono allorquando quegli
stessi mezzi siano utilizzati opportunisticamente a favore di ristretti gruppi
sociali o addirittura di esigue caste politiche od economiche.
Che fare? È l’eterno dilemma che alberga negli animi, o meglio nelle menti, di quanti colgono nello sviluppo dei tempi i pericoli in esso insiti, ma hanno al contempo ben poco da opporre per orientare diversamente, più che ostacolare, il corso degli eventi umani. La “cosa”, ovvero il dato che più turba leggendo la prosa dell’insigne Autore è l’avvenuto “straniamento” – mi si lasci passare l’impuro o improprio termine - delle coscienze individuali e collettive, “straniamento” realizzato proponendo e sovrapponendo scientemente la lettura e la rappresentazione degli avvenimenti del mondo attraverso la lente “deformante” della televisione. Uno strumento utile, quest’ultima, per una “irreggimentazione” inconsapevole di grandi masse popolari opportunamente blandite con finti riconoscimenti di sovranità, in verità mediaticamente indirizzata e “limitata”: Scrive McLuhan ne “Gli strumenti del comunicare” (Il Saggiatore): - Il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani -. Gli uomini hanno sempre pensato di abitare il mondo, in realtà non sono mai usciti dalla descrizione che le varie epoche hanno dato del mondo. Quando nel tempo antico il mondo era descritto dal mito, nel Medioevo dalla religione, nell'età moderna dalla scienza, e oggi dalla televisione, in tutti questi passaggi gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la sua descrizione che di volta in volta la religione, la filosofia, la scienza, e oggi la televisione hanno dato del mondo. Forse l'uomo non ha mai avuto a che fare con le cose, ma sempre e solo con le descrizioni che confezionano le cose. Se così non fosse stato, non potremmo parlare di storia e di successione di epoche. Oggi, in cui assistiamo alla pervasività della televisione e di Internet, possiamo ancora pensare che esistano le cose al di là delle immagini e delle parole? Che esista un mondo al di là della descrizione del mondo? Prendiamo ad esempio l'informazione. È questa una parola che non sta al suo posto, perché nel mondo dei media l'informazione è costruzione. Non solo perché i grandi condottieri del mondo non esisterebbero se i media non ce li proponessero di continuo, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se il mezzo televisivo non ne desse notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo. Non più un mondo di fatti e poi l'informazione, ma un mondo di fatti per l'informazione. Per cui non è più possibile discernere il vero dal falso, non perché la televisione mente, ma perché nulla viene più fatto se non per essere telecomunicato. Il mondo si risolve nella sua pubblicità. Tutto ciò ha delle conseguenze pericolose per la democrazia che, come tutti sanno, è il gioco dei consensi. Ma se la realtà del mondo non è più discernibile dal racconto del mondo, il consenso non avviene sulle cose, ma sulla descrizione delle cose che ha preso il posto della loro realtà. Nella democrazia, infatti, tutti possono dire la loro, cioè fare la loro descrizione del mondo. Ed è in questo senso che un tempo i partiti rappresentavano le diverse opinioni della gente, i sindacati rappresentavano i lavoratori, la Confindustria rappresentava gli imprenditori. Ora è la televisione a rappresentare tutte queste rappresentazioni. Ed è in questa rappresentazione di secondo grado che si descrive il mondo e si costruisce il consenso. I fatti contano infinitamente meno delle loro descrizioni, ma soprattutto i fatti sono fatti per la descrizione. Qui la democrazia corre dei rischi non perché la televisione manipola, inganna, mente, ma semplicemente perché descrive il mondo che non esiste se non nella sua descrizione. Tutti noi guardiamo la televisione non perché siamo pigri, passivi, intontiti, ma perché siamo al mondo, che nella televisione - e non altrove - ha la sua più estesa e completa descrizione. Religione, politica, mercato, guerra, gioia, dolore, morte sono descritti lì, e da lì impariamo come si prega, come si governa, come si vende, come si compra, come si lotta, come si gode, come si soffre, come si muore, allo stesso modo di come un tempo queste cose si apprendevano dall'ambiente in cui si viveva. Oggi la televisione è il nostro ambiente. Anche quando non la vediamo, per il fatto che altri l'hanno vista, nel loro agire quotidiano sarà leggibile il loro apprendimento. Interagendo con loro, entreremo in contatto con lo schermo, che dunque è sempre acceso per la comprensione pubblica del mondo. Giunta al cuore del nostro essere, la televisione ci ruba l'anima, conformandola a quei costumi collettivi, dove l'individualità e la specificità di ognuno di noi perde il proprio nome, quando non anche la specificità delle proprie idee e la peculiarità dei propri sentimenti, se è vero che ormai anche il privato viene pubblicizzato, e nel rumore del mondo si perde anche la nostra interiorità. Il risultato è una sorta di comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque. In un certo senso si può avanzare l'ipotesi che la diffusione dei mezzi di comunicazione, oggi esponenziale, tende ad abolire la necessità della comunicazione, perché, con il loro rincorrersi, le mille voci che riempiono l'etere aboliscono progressivamente le differenze che ancora sussistono fra gli uomini e, perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo, se non impossibile, parlare in prima persona. In questo modo i mezzi di comunicazione cessano di essere dei mezzi, perché nel loro insieme compongono quel mondo, fuori dal quale non è dato avere altra e diversa esperienza.
Che fare? È l’eterno dilemma che alberga negli animi, o meglio nelle menti, di quanti colgono nello sviluppo dei tempi i pericoli in esso insiti, ma hanno al contempo ben poco da opporre per orientare diversamente, più che ostacolare, il corso degli eventi umani. La “cosa”, ovvero il dato che più turba leggendo la prosa dell’insigne Autore è l’avvenuto “straniamento” – mi si lasci passare l’impuro o improprio termine - delle coscienze individuali e collettive, “straniamento” realizzato proponendo e sovrapponendo scientemente la lettura e la rappresentazione degli avvenimenti del mondo attraverso la lente “deformante” della televisione. Uno strumento utile, quest’ultima, per una “irreggimentazione” inconsapevole di grandi masse popolari opportunamente blandite con finti riconoscimenti di sovranità, in verità mediaticamente indirizzata e “limitata”: Scrive McLuhan ne “Gli strumenti del comunicare” (Il Saggiatore): - Il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani -. Gli uomini hanno sempre pensato di abitare il mondo, in realtà non sono mai usciti dalla descrizione che le varie epoche hanno dato del mondo. Quando nel tempo antico il mondo era descritto dal mito, nel Medioevo dalla religione, nell'età moderna dalla scienza, e oggi dalla televisione, in tutti questi passaggi gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la sua descrizione che di volta in volta la religione, la filosofia, la scienza, e oggi la televisione hanno dato del mondo. Forse l'uomo non ha mai avuto a che fare con le cose, ma sempre e solo con le descrizioni che confezionano le cose. Se così non fosse stato, non potremmo parlare di storia e di successione di epoche. Oggi, in cui assistiamo alla pervasività della televisione e di Internet, possiamo ancora pensare che esistano le cose al di là delle immagini e delle parole? Che esista un mondo al di là della descrizione del mondo? Prendiamo ad esempio l'informazione. È questa una parola che non sta al suo posto, perché nel mondo dei media l'informazione è costruzione. Non solo perché i grandi condottieri del mondo non esisterebbero se i media non ce li proponessero di continuo, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se il mezzo televisivo non ne desse notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo. Non più un mondo di fatti e poi l'informazione, ma un mondo di fatti per l'informazione. Per cui non è più possibile discernere il vero dal falso, non perché la televisione mente, ma perché nulla viene più fatto se non per essere telecomunicato. Il mondo si risolve nella sua pubblicità. Tutto ciò ha delle conseguenze pericolose per la democrazia che, come tutti sanno, è il gioco dei consensi. Ma se la realtà del mondo non è più discernibile dal racconto del mondo, il consenso non avviene sulle cose, ma sulla descrizione delle cose che ha preso il posto della loro realtà. Nella democrazia, infatti, tutti possono dire la loro, cioè fare la loro descrizione del mondo. Ed è in questo senso che un tempo i partiti rappresentavano le diverse opinioni della gente, i sindacati rappresentavano i lavoratori, la Confindustria rappresentava gli imprenditori. Ora è la televisione a rappresentare tutte queste rappresentazioni. Ed è in questa rappresentazione di secondo grado che si descrive il mondo e si costruisce il consenso. I fatti contano infinitamente meno delle loro descrizioni, ma soprattutto i fatti sono fatti per la descrizione. Qui la democrazia corre dei rischi non perché la televisione manipola, inganna, mente, ma semplicemente perché descrive il mondo che non esiste se non nella sua descrizione. Tutti noi guardiamo la televisione non perché siamo pigri, passivi, intontiti, ma perché siamo al mondo, che nella televisione - e non altrove - ha la sua più estesa e completa descrizione. Religione, politica, mercato, guerra, gioia, dolore, morte sono descritti lì, e da lì impariamo come si prega, come si governa, come si vende, come si compra, come si lotta, come si gode, come si soffre, come si muore, allo stesso modo di come un tempo queste cose si apprendevano dall'ambiente in cui si viveva. Oggi la televisione è il nostro ambiente. Anche quando non la vediamo, per il fatto che altri l'hanno vista, nel loro agire quotidiano sarà leggibile il loro apprendimento. Interagendo con loro, entreremo in contatto con lo schermo, che dunque è sempre acceso per la comprensione pubblica del mondo. Giunta al cuore del nostro essere, la televisione ci ruba l'anima, conformandola a quei costumi collettivi, dove l'individualità e la specificità di ognuno di noi perde il proprio nome, quando non anche la specificità delle proprie idee e la peculiarità dei propri sentimenti, se è vero che ormai anche il privato viene pubblicizzato, e nel rumore del mondo si perde anche la nostra interiorità. Il risultato è una sorta di comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque. In un certo senso si può avanzare l'ipotesi che la diffusione dei mezzi di comunicazione, oggi esponenziale, tende ad abolire la necessità della comunicazione, perché, con il loro rincorrersi, le mille voci che riempiono l'etere aboliscono progressivamente le differenze che ancora sussistono fra gli uomini e, perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo, se non impossibile, parlare in prima persona. In questo modo i mezzi di comunicazione cessano di essere dei mezzi, perché nel loro insieme compongono quel mondo, fuori dal quale non è dato avere altra e diversa esperienza.
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