Zanda. Tratto da “Nuovi diserbanti: Zanda” di Marco Travaglio, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 30 di marzo 2019: (…). Nato
a Cagliari nel 1942, il tenero virgulto ha lavorato ai vertici del Mose di
Venezia, del Viminale con Cossiga, del gruppo Espresso, di Lottomatica, del
Giubileo con Rutelli, del Palaexpo, della Rai, della Dc, del Ppi, della
Margherita, del Pd veltroniano, franceschiniano, bersaniano, lettiano,
renziano, gentiloniano e zingarettiano.
Nel suo Palmarès di catastrofi manca solo il Titanic, ma esclusivamente per motivi anagrafici. Per non perdere un colpo, il mese scorso è diventato tesoriere del partito più indebitato d’Europa. E si è messo subito d’impegno, partorendo due ideone improntate alla più temeraria discontinuità: ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti, abolito nel 2013 dallo stesso Pd il cui capogruppo era un certo Zanda; e aumentare lo stipendio dei parlamentari, appaiandolo a quello degli eurodeputati, cioè degli unici eletti dell’orbe terracqueo più pagati dei nostri. Il combinato disposto della prima e della seconda proposta, opportunamente nascoste dai giornaloni, ha fermato l’ascesa del Pd zingarettiano nei sondaggi e di regalare un po’ di respiro, dopo mesi di affanno, al M5S. Zingaretti aveva appena annunciato di voler “parlare agli elettori delusi dai 5Stelle”. Ma Zanda l’ha preceduto e ci ha parlato lui, convincendoli che nessuna delusione, per quanto cocente, potrà mai riportarli all’ovile del Pd. Invano Zingaretti ha tentato di prendere le distanze senza prenderle e negando di averle prese, con la scusa che il Ddl Casta è un’iniziativa “personale” dello “stimato” e “autorevole” Luigi: qualcuno ci crederebbe se Zanda avesse proposto una riforma delle politiche forestali; ma nessuno ci crede quando il tesoriere del Pd propone due norme di sua stretta competenza, e soprattutto non le ritira, anzi le rivendica, rimane tesoriere e racconta pure frottole. Tipo che gli europarlamentari guadagnano meno di quelli italiani (media italiana 14 mila euro al mese, media europea 16-19 mila). Repubblica gli ricorda che sei anni fa lui stesso votò per abolire il finanziamento pubblico. E Zanda, serafico, conferma: “Ero capogruppo, ho votato sentendo il peso dell’antipolitica”. Non solo: “Ora direi che potevamo fare diversamente e quella decisione ci deve insegnare che non può essere l’antipolitica a dominare il nostro lavoro”. Quindi votò e fece votare come capogruppo una legge a cui era contrario. Interessante. Peccato che l’“antipolitica” fosse la tardiva applicazione del referendum del 1993, in cui gli italiani avevano plebiscitariamente cancellato i finanziamenti pubblici ai partiti. I quali se n’erano allegramente infischiati e li avevano subito ripristinati, camuffandoli da “rimborsi elettorali” e fregandoci altri 2 miliardi. Ora Zanda racconta che, senza soldi pubblici e con stipendi ridotti, i parlamentari “sarebbero sempre più asserviti alle lobby finanziarie”. Come se i ladri di Tangentopoli rubassero per fame (guadagnavano quanto oggi e prendevano soldi statali). E come se fino al 2013, col finanziamento pubblico, i partiti fossero immuni da corruzioni e lobby. Non bastando i danni che fa Zanda, ci si mette pure un tal Marco Miccoli, “coordinatore della comunicazione del Pd”: anziché invitare lo stimato e autorevole tesoriere a ritirare i suoi Ddl, non trova di meglio che prendersela con i 5Stelle per il loro scontato dissenso. Come se il Pd, per fare figuracce, avesse bisogno del M5S e non gli bastasse Zanda. Che è un po’ il Toninelli dei democratici. Uno sfollagente politico, un buttafuori da seggio, un diserbante elettorale. Nella scorsa legislatura aveva già contribuito parecchio alla rimonta pentastellata. Un giorno denunciava la “deriva antidemocratica” dei grillini, l’indomani cacciava dalle commissioni parlamentari i dissidenti Pd sulla controriforma costituzionale Boschi-Verdini e sull’Italicum incostituzionale. Un giorno difendeva “la centralità del Parlamento” contro la “democrazia diretta”, l’indomani inventava canguri e ghigliottine per silenziare le opposizioni. Un giorno negava inciuci con B. (che governava col Pd, direttamente o per interposti Alfano & Verdini), l’indomani si alleava con FI per bocciare al Senato il taglio dei vitalizi voluto persino da Renzi e votato persino dal Pd alla Camera. Poi dichiarava al Foglio di lavorare a un bel “fronte anti-Grillo” fra Pd e Forza Italia, ormai avviato a suo dire – “verso una forma di centrodestra liberale di livello europeo, alla Merkel e Rajoy”, da “sostenere contro le forze antisistema”. Che infatti vinsero puntualmente le elezioni. Lui però non si dà per vinto e continua a lavorare per loro anche in questa legislatura. Fraccaro presenta un ddl per tagliare il numero e la paga dei parlamentari? Zanda risponde con uno che lascia invariato il primo e aumenta la seconda. Di Maio lancia il reddito di cittadinanza per i disoccupati poveri e il salario minimo per gli occupati sottopagati? Zanda risponde col reddito di cittadinanza e il salario minimo per la Casta. Ancora un paio di iniziative come queste, e la rimonta M5S è assicurata. Neppure un infiltrato di Casaleggio nel Pd sarebbe tanto efficace. Invece di attaccarlo, i 5Stelle dovrebbero dargli la tessera per meriti speciali. Al confronto, come grillino ad honorem, Fassino è un dilettante.
Nel suo Palmarès di catastrofi manca solo il Titanic, ma esclusivamente per motivi anagrafici. Per non perdere un colpo, il mese scorso è diventato tesoriere del partito più indebitato d’Europa. E si è messo subito d’impegno, partorendo due ideone improntate alla più temeraria discontinuità: ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti, abolito nel 2013 dallo stesso Pd il cui capogruppo era un certo Zanda; e aumentare lo stipendio dei parlamentari, appaiandolo a quello degli eurodeputati, cioè degli unici eletti dell’orbe terracqueo più pagati dei nostri. Il combinato disposto della prima e della seconda proposta, opportunamente nascoste dai giornaloni, ha fermato l’ascesa del Pd zingarettiano nei sondaggi e di regalare un po’ di respiro, dopo mesi di affanno, al M5S. Zingaretti aveva appena annunciato di voler “parlare agli elettori delusi dai 5Stelle”. Ma Zanda l’ha preceduto e ci ha parlato lui, convincendoli che nessuna delusione, per quanto cocente, potrà mai riportarli all’ovile del Pd. Invano Zingaretti ha tentato di prendere le distanze senza prenderle e negando di averle prese, con la scusa che il Ddl Casta è un’iniziativa “personale” dello “stimato” e “autorevole” Luigi: qualcuno ci crederebbe se Zanda avesse proposto una riforma delle politiche forestali; ma nessuno ci crede quando il tesoriere del Pd propone due norme di sua stretta competenza, e soprattutto non le ritira, anzi le rivendica, rimane tesoriere e racconta pure frottole. Tipo che gli europarlamentari guadagnano meno di quelli italiani (media italiana 14 mila euro al mese, media europea 16-19 mila). Repubblica gli ricorda che sei anni fa lui stesso votò per abolire il finanziamento pubblico. E Zanda, serafico, conferma: “Ero capogruppo, ho votato sentendo il peso dell’antipolitica”. Non solo: “Ora direi che potevamo fare diversamente e quella decisione ci deve insegnare che non può essere l’antipolitica a dominare il nostro lavoro”. Quindi votò e fece votare come capogruppo una legge a cui era contrario. Interessante. Peccato che l’“antipolitica” fosse la tardiva applicazione del referendum del 1993, in cui gli italiani avevano plebiscitariamente cancellato i finanziamenti pubblici ai partiti. I quali se n’erano allegramente infischiati e li avevano subito ripristinati, camuffandoli da “rimborsi elettorali” e fregandoci altri 2 miliardi. Ora Zanda racconta che, senza soldi pubblici e con stipendi ridotti, i parlamentari “sarebbero sempre più asserviti alle lobby finanziarie”. Come se i ladri di Tangentopoli rubassero per fame (guadagnavano quanto oggi e prendevano soldi statali). E come se fino al 2013, col finanziamento pubblico, i partiti fossero immuni da corruzioni e lobby. Non bastando i danni che fa Zanda, ci si mette pure un tal Marco Miccoli, “coordinatore della comunicazione del Pd”: anziché invitare lo stimato e autorevole tesoriere a ritirare i suoi Ddl, non trova di meglio che prendersela con i 5Stelle per il loro scontato dissenso. Come se il Pd, per fare figuracce, avesse bisogno del M5S e non gli bastasse Zanda. Che è un po’ il Toninelli dei democratici. Uno sfollagente politico, un buttafuori da seggio, un diserbante elettorale. Nella scorsa legislatura aveva già contribuito parecchio alla rimonta pentastellata. Un giorno denunciava la “deriva antidemocratica” dei grillini, l’indomani cacciava dalle commissioni parlamentari i dissidenti Pd sulla controriforma costituzionale Boschi-Verdini e sull’Italicum incostituzionale. Un giorno difendeva “la centralità del Parlamento” contro la “democrazia diretta”, l’indomani inventava canguri e ghigliottine per silenziare le opposizioni. Un giorno negava inciuci con B. (che governava col Pd, direttamente o per interposti Alfano & Verdini), l’indomani si alleava con FI per bocciare al Senato il taglio dei vitalizi voluto persino da Renzi e votato persino dal Pd alla Camera. Poi dichiarava al Foglio di lavorare a un bel “fronte anti-Grillo” fra Pd e Forza Italia, ormai avviato a suo dire – “verso una forma di centrodestra liberale di livello europeo, alla Merkel e Rajoy”, da “sostenere contro le forze antisistema”. Che infatti vinsero puntualmente le elezioni. Lui però non si dà per vinto e continua a lavorare per loro anche in questa legislatura. Fraccaro presenta un ddl per tagliare il numero e la paga dei parlamentari? Zanda risponde con uno che lascia invariato il primo e aumenta la seconda. Di Maio lancia il reddito di cittadinanza per i disoccupati poveri e il salario minimo per gli occupati sottopagati? Zanda risponde col reddito di cittadinanza e il salario minimo per la Casta. Ancora un paio di iniziative come queste, e la rimonta M5S è assicurata. Neppure un infiltrato di Casaleggio nel Pd sarebbe tanto efficace. Invece di attaccarlo, i 5Stelle dovrebbero dargli la tessera per meriti speciali. Al confronto, come grillino ad honorem, Fassino è un dilettante.
Zinga. Tratto da “Vieni avanti gretino*” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 16 di marzo 2019: (…). Sono mesi che l’autoproclamato Partito
del Pil ci spiega a reti, edicole e Camere unificate che bisogna sbloccare i
cantieri, moltiplicare gli appalti, trivellare il mare, costruire nuovi
quartieri, grattacieli e “boschi verticali” abbattendo quelli orizzontali (il
“modello Milano”, mai più senza), cementificare e asfaltare ovunque, aprire
discariche e inceneritori in ogni angolo, e guai a tassare le auto inquinanti
perchè quelle ecologiche si fanno solo all’estero (qui non si usa) e non sta
bene favorire lo straniero invasore e penalizzare la Fca, e guai a rinunciare a
Tav, Tap, Terzo Valico, Gronda, estrazioni petrolifere, e pazienza per le aree
verdi (gli alberi rompono i coglioni e non fatturano) o blu (i fiumi e i
torrenti sono bagnati e non edificabili: meglio intombarli sotto il cemento). I
leader e i governatori pidin-forza-leghisti parlano a una sola voce come Carlo
Verdone-Armando Feroci in riva al Tevere ne “Il gallo cedrone“: “Signori!
Elettori! Ma ‘sto fiume ce serve o nun ce serve? … Se nun ce serve, e io dico
che nun ce serve, levàmolo, sotteràmolo, prosciugàmolo! Seguitemi bene in
questa mia straordenaria intuizione: al posto del fiume, una lunga lingua
d’asfalto a tre corsie. Los Angeles! Risultato, due punti virgolette: traffico
azzerato, inquinamento disintegrato, guardo a destra e vedo verde, guardo a
sinistra arivedo verde, guardo in alto e vedo le rondini senza più l’ombra di
un gabbiano, guardo in avanti e se score, signori, finalmente a Roma se score!
Parafrasando la frase di un grande autore del passato ma di una modernità
straordenaria, io dirò: con me se va nella città ridente, con me se va
nell’eterno splendore. Grazie!”. L’ultima impellenza, urgentissima da 29 anni
fino a tre giorni fa, era scavare subito nelle Alpi il buco più lungo del mondo
per trasportare ad alta velocità merci inesistenti con qualche minuto
d’anticipo da Torino a Lione, così da far girare 15-20 miliardi in un cantiere
che finge di fare cose da 15 anni e ne durerebbe altrettanti creando la
bellezza di 450 posti di lavoro e infestando di Co2 (12 milioni di tonnellate)
e altre emissioni venefiche, cemento, acciaio, rame, amianto, materiali
radioattivi e polveri la Val di Susa, che curiosamente non ne vuole sapere
(subornata dai famigerati anarchici e/o dalle nuove Br). I 5Stelle provano a
dire no (insieme ai Verdi europei), Conte tenta di convincere i francesi che
non conviene neanche a loro e tutti strillano che così tramonta lo sviluppo e
arrivano la “decrescita infelice”, la bancarotta, l’apocalisse, finiremo tutti
sotto i ponti o agli angoli delle strade col cappello in mano. (…). Lavori
utili o inutili, amici o nemici dell’ambiente, sostenibili o insostenibili,
sono dettagli. L’importante è costruire altre grandi opere con grandi costi e
grandi tangenti ma bassa occupazione, anziché fare piccole manutenzioni con
bassi costi e alta occupazione contro il dissesto idrogeologico (su 700 mila
frane in tutta Europa, 500mila sono in Italia). Ora, all’improvviso, tutti
questi impuniti spasimano per Greta e le sue sorelle: ritratti strappalacrime,
improbabili candidature al Nobel per la Pace, fiumi di retorica e titoloni del
tipo: “E la politica che fa?”. Svetta su tutti Repubblica, che dopo averci
illustrato per mesi, ogni giorno che Dio mandava in terra, gli effetti
balsamici del Tav sull’ambiente e la salute, indovinate con chi se la prende?
Con “le Cinque stelle che ormai non luccicano più”, cioè con l’unica forza
politica dell’arco costituzionale che prova a bloccare quello scempio
(sostenuto da Repubblica) e gli altri (le trivelle, sostenute da Repubblica), e
viene attaccato da Repubblica per non aver bloccato pure il Tap e chiuso l’Ilva
(sostenuti da Repubblica). L’Agenzia dell’Energia ha documentato che, per
domare il clima imbizzarrito, si dovrebbero lasciare sottoterra l’80% dei
fossili: altro che trivelle petrolifere e gasdotti. Il decreto sulle energie
rinnovabili fu bloccato due anni fa, indovinate da chi? Dai trafelati tifosi
dell’incolpevole Greta, quelli che predicavano l’astensione per far fallire il
referendum sulle trivelle (Pd, FI e Napolitano), varavano il mirabolante
Sblocca-Italia (Renzi e Delrio) e approvavano 12 decreti Salva-Ilva per
neutralizzare le indagini e garantire l’impunità ai vertici e ai commissari
dell’azienda avvelenatrice. Monica Frassoni, leader dei Verdi europei e no Tav
convinta, ricorda che basterebbe aumentare di un punto l’efficienza energetica
per creare in Europa 366mila posti di lavoro e ridurre del 4% le importazioni
di gas. E che l’Italia ha pagato 600 milioni di multe in 8 anni per le
infrazioni alle regole europee sullo smaltimento dei rifiuti. Ma qui l’unico
politico che parla di questi temi è Grillo, noto comico, mentre la cosiddetta
informazione cadenza le nostre giornate al ritmo dell’armonioso fragore delle
rotative misto al festoso sferragliare di supertalpe, turbine, scavatrici e
betoniere. Poi, all’improvviso, tutti pazzi per Greta. Noi non abbiamo la
fortuna di conoscerla. Ma le auguriamo di tenersi a debita distanza da questi
gretini*. *Citazione dalla vignetta di Riccardo Mannelli pubblicata ieri dal
nostro giornale.
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