(…). Ché il sospetto sopito
dell'unzioni s'era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.
S'era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte
d'edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan
di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son
preoccupati, il sentire faceva l'effetto del vedere.
Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de' mali, irritati dall'insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno, le piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d'atroce. Vi s'aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s'eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l'arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell'infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch'era stata una burla, chi avesse negata l'esistenza d'una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero l'attenzion del pubblico, di complice, d'untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.(…). È la cronaca, di manzoniana memoria – da “I promessi sposi” cap. XXXII -, nella brumosa Milano del secolo diciassettesimo. Dicerie ed untori. Una miscela esplosiva assai. Allora come oggigiorno. Oggigiorno peggio ancora, con i potenti strumenti di penetrazione nelle menti e nelle coscienze a disposizione dei potenti e dei famigli loro. Ma chi sono gli untori dell’oggi? Domanda retorica, risposta facile facile. I facitori delle pubbliche dicerie. I reggitori degli strumenti di dissuasione, ovvero di distrazione di massa. Quante dicerie sono corse in questa stagione invero calamitosa per il bel paese! Scopo primo delle dicerie dell’oggi, l’annientamento del rivale nella politica, ove si nega confronto di opinioni e rappresentatività alle parti non concordanti con il “dominus” del momento. Della “diceria”, nell’era della comunicazione di massa, ne ha scritto dottamente Nadia Urbinati sul quotidiano “la Repubblica” del 27 di agosto dell’anno 2010 col titolo “La politica della diceria”. Di seguito lo trascrivo in parte. La “diceria” come veleno sociale, come strumento di costrizione della volontà – seppur apparentemente libera - della pubblica opinione:
Nella società dell'audience, le dicerie si sono conquistate un loro pubblico, molto corteggiato e alimentato. Se nelle monarchie assolute era sufficiente far circolare fra i pochi cortigiani una diceria contro un nemico designato, nella società mediatica le dicerie devono estendere il loro raggio d' azione per poter colpire nel segno. Benché l'effetto sasso nello stagno sia lo stesso, il fenomeno è oggi molto più pervasivo a causa del processo di auto-alimentazione della tecnologia informatica. Sembra che una delle ragioni che muove gli Internet addicted sia proprio il desiderio di sapere qualcosa in più degli altri per poter aggiungere qualcosa in più alla chiacchiera con gli amici. In questa atmosfera di bulimia della novità, diventa più difficile distinguere con chiarezza la chiacchiera, il gossip, dalla calunnia; (…). Ha scritto Cass Sunstein in On Rumors, recentemente tradotto da Feltrinelli col titolo Voci, gossip e false dicerie, che uno dei processi attraverso i quali le dicerie si diffondono è per cascata: se la maggior parte delle persone che conosciamo crede in una diceria, tendiamo a crederci anche noi perché «in mancanza di informazioni di prima mano accettiamo le opinioni degli altri»; se poi gli altri hanno le nostre stesse idee, allora questa diceria è naturalmente accreditata ai nostri occhi. Ci crediamo. Più siamo pregiudizialmente identificati con un'idea o un gruppo più siamo facili a credere a ciò che più conviene a quell'idea o a quel gruppo. Questo significa che in un paese politicamente polarizzato come l'Italia le dicerie hanno grande corso. È a questo presupposto che la fortuna politica di leader e candidati fa affidamento. Anche per una ragione semplice: perché, benché la rete ci dia l'illusione di avere il mondo tra le dita, è un fatto che le notizie non le produciamo noi direttamente ma le riceviamo già digerite, se così si può dire, confezionate in modo da conquistare la nostra fiducia (ma meglio sarebbe dire credulità) o, più semplicemente, approfittare della nostra propensione a credere in ciò che non possiamo provare. «Una cascata ha luogo quando capiscuola, leader, promuovono certe affermazioni e comportamenti, e altre persone li seguono. In economia le dicerie possono alimentare una bolla speculativa»; in politica possono far nascere emozioni di repulsione o innamoramento per un leader, oppure la paura per un fenomeno (per esempio l'immigrazione). Quel che è peggio, possono alimentare discredito per la politica e lo Stato (il detto sono tutti ladri). L'effetto cascata è così forte - e chi lo alimenta sa che è forte e scommette su questo - da far sì che l'esito di una diceria che si afferma in questo modo finisce per rendere inefficace ogni informazione che possa correggerla o negarla. Il problema è che la diceria vive della stessa aria di cui vive la democrazia: la libertà di parola. Una democrazia non può esistere se i suoi cittadini non godono della libertà di dire quello che pensano, anche quando quello che pensano non è corretto. Il codice non si occupa delle dicerie, ma consente la denuncia per colpire una diceria che si fa affermazione falsa fatta con malevolenza (questa è la calunnia), ovvero per danneggiare la reputazione di qualcuno o qualche cosa. (…). Ma la diceria non è né può essere reato, non è né può essere trattato come la calunnia. Nel caso della diceria, quindi, occorre fare affidamento sul civismo e la responsabilità degli operatori dell'informazione. Non è un caso che per i cattolici l'affermazione diffamante sia un peccato anche quando non violi alcuna legge civile. I credenti sopperiscono con il timore della punizione divina al silenzio della legge civile. Chi si rifà a un'etica laica usa argomenti come il senso del rispetto per gli altri - scriveva Cicerone che il rispetto e la sincerità sono la condizione senza la quale non si dà amicizia, aggiungendo che in una repubblica la cittadinanza è una forma di amicizia. Comunque sia, dove non c'è dolo e proprio perché la libertà di parola è sacra in un governo libero, occorre saper trovare ragioni di autocontrollo negli individui. La questione morale implicata nella diceria è delicata anche perché, pur supponendo che la persona che ne è vittima riesca a provare che quella voce non corrisponde al vero, il suo nome può tuttavia restare associato a quella diceria per molto tempo nella memoria della gente. Aggiungiamo che quando la persona ricopre incarichi istituzionali, ad essere compromessa è anche, anzi soprattutto, l'istituzione. (…). Parlare di cultura morale significa spostare l'attenzione dal fatto all'intenzione. Ora, che ruolo ha l'intenzione del perpetrante in questo gioco al massacro che è la diceria? Molta, poiché, spiega ancora Sunstein, le dicerie si diffondono e si propagano perché chi le mette in circolo conosce molto bene i meccanismi di diffusione e gli effetti. Per questa ragione la responsabilità morale di chi opera nell' informazione - di chi confeziona le notizie dalle quali nascono le credenze - è grande anche, anzi soprattutto, quando non ci siano risvolti penali. Che i cittadini debbano essere esposti a notizie veritiere, ci ammonisce costantemente Gustavo Zagrebelsky, che le informazioni che riceviamo (naturalmente insieme a giudizi e quindi tinte di opinioni e preferenze) siano equilibrate, che si sappia e si voglia fare distinzione tra mezzi di informazione e mezzi di propaganda: tutto questo si appoggia su null'altro che il senso di una responsabile libertà democratica, che non è una libertà da stato di natura, né è fatta per danneggiare gli altri e le istituzioni.
Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de' mali, irritati dall'insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno, le piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d'atroce. Vi s'aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s'eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l'arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell'infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch'era stata una burla, chi avesse negata l'esistenza d'una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero l'attenzion del pubblico, di complice, d'untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.(…). È la cronaca, di manzoniana memoria – da “I promessi sposi” cap. XXXII -, nella brumosa Milano del secolo diciassettesimo. Dicerie ed untori. Una miscela esplosiva assai. Allora come oggigiorno. Oggigiorno peggio ancora, con i potenti strumenti di penetrazione nelle menti e nelle coscienze a disposizione dei potenti e dei famigli loro. Ma chi sono gli untori dell’oggi? Domanda retorica, risposta facile facile. I facitori delle pubbliche dicerie. I reggitori degli strumenti di dissuasione, ovvero di distrazione di massa. Quante dicerie sono corse in questa stagione invero calamitosa per il bel paese! Scopo primo delle dicerie dell’oggi, l’annientamento del rivale nella politica, ove si nega confronto di opinioni e rappresentatività alle parti non concordanti con il “dominus” del momento. Della “diceria”, nell’era della comunicazione di massa, ne ha scritto dottamente Nadia Urbinati sul quotidiano “la Repubblica” del 27 di agosto dell’anno 2010 col titolo “La politica della diceria”. Di seguito lo trascrivo in parte. La “diceria” come veleno sociale, come strumento di costrizione della volontà – seppur apparentemente libera - della pubblica opinione:
Nella società dell'audience, le dicerie si sono conquistate un loro pubblico, molto corteggiato e alimentato. Se nelle monarchie assolute era sufficiente far circolare fra i pochi cortigiani una diceria contro un nemico designato, nella società mediatica le dicerie devono estendere il loro raggio d' azione per poter colpire nel segno. Benché l'effetto sasso nello stagno sia lo stesso, il fenomeno è oggi molto più pervasivo a causa del processo di auto-alimentazione della tecnologia informatica. Sembra che una delle ragioni che muove gli Internet addicted sia proprio il desiderio di sapere qualcosa in più degli altri per poter aggiungere qualcosa in più alla chiacchiera con gli amici. In questa atmosfera di bulimia della novità, diventa più difficile distinguere con chiarezza la chiacchiera, il gossip, dalla calunnia; (…). Ha scritto Cass Sunstein in On Rumors, recentemente tradotto da Feltrinelli col titolo Voci, gossip e false dicerie, che uno dei processi attraverso i quali le dicerie si diffondono è per cascata: se la maggior parte delle persone che conosciamo crede in una diceria, tendiamo a crederci anche noi perché «in mancanza di informazioni di prima mano accettiamo le opinioni degli altri»; se poi gli altri hanno le nostre stesse idee, allora questa diceria è naturalmente accreditata ai nostri occhi. Ci crediamo. Più siamo pregiudizialmente identificati con un'idea o un gruppo più siamo facili a credere a ciò che più conviene a quell'idea o a quel gruppo. Questo significa che in un paese politicamente polarizzato come l'Italia le dicerie hanno grande corso. È a questo presupposto che la fortuna politica di leader e candidati fa affidamento. Anche per una ragione semplice: perché, benché la rete ci dia l'illusione di avere il mondo tra le dita, è un fatto che le notizie non le produciamo noi direttamente ma le riceviamo già digerite, se così si può dire, confezionate in modo da conquistare la nostra fiducia (ma meglio sarebbe dire credulità) o, più semplicemente, approfittare della nostra propensione a credere in ciò che non possiamo provare. «Una cascata ha luogo quando capiscuola, leader, promuovono certe affermazioni e comportamenti, e altre persone li seguono. In economia le dicerie possono alimentare una bolla speculativa»; in politica possono far nascere emozioni di repulsione o innamoramento per un leader, oppure la paura per un fenomeno (per esempio l'immigrazione). Quel che è peggio, possono alimentare discredito per la politica e lo Stato (il detto sono tutti ladri). L'effetto cascata è così forte - e chi lo alimenta sa che è forte e scommette su questo - da far sì che l'esito di una diceria che si afferma in questo modo finisce per rendere inefficace ogni informazione che possa correggerla o negarla. Il problema è che la diceria vive della stessa aria di cui vive la democrazia: la libertà di parola. Una democrazia non può esistere se i suoi cittadini non godono della libertà di dire quello che pensano, anche quando quello che pensano non è corretto. Il codice non si occupa delle dicerie, ma consente la denuncia per colpire una diceria che si fa affermazione falsa fatta con malevolenza (questa è la calunnia), ovvero per danneggiare la reputazione di qualcuno o qualche cosa. (…). Ma la diceria non è né può essere reato, non è né può essere trattato come la calunnia. Nel caso della diceria, quindi, occorre fare affidamento sul civismo e la responsabilità degli operatori dell'informazione. Non è un caso che per i cattolici l'affermazione diffamante sia un peccato anche quando non violi alcuna legge civile. I credenti sopperiscono con il timore della punizione divina al silenzio della legge civile. Chi si rifà a un'etica laica usa argomenti come il senso del rispetto per gli altri - scriveva Cicerone che il rispetto e la sincerità sono la condizione senza la quale non si dà amicizia, aggiungendo che in una repubblica la cittadinanza è una forma di amicizia. Comunque sia, dove non c'è dolo e proprio perché la libertà di parola è sacra in un governo libero, occorre saper trovare ragioni di autocontrollo negli individui. La questione morale implicata nella diceria è delicata anche perché, pur supponendo che la persona che ne è vittima riesca a provare che quella voce non corrisponde al vero, il suo nome può tuttavia restare associato a quella diceria per molto tempo nella memoria della gente. Aggiungiamo che quando la persona ricopre incarichi istituzionali, ad essere compromessa è anche, anzi soprattutto, l'istituzione. (…). Parlare di cultura morale significa spostare l'attenzione dal fatto all'intenzione. Ora, che ruolo ha l'intenzione del perpetrante in questo gioco al massacro che è la diceria? Molta, poiché, spiega ancora Sunstein, le dicerie si diffondono e si propagano perché chi le mette in circolo conosce molto bene i meccanismi di diffusione e gli effetti. Per questa ragione la responsabilità morale di chi opera nell' informazione - di chi confeziona le notizie dalle quali nascono le credenze - è grande anche, anzi soprattutto, quando non ci siano risvolti penali. Che i cittadini debbano essere esposti a notizie veritiere, ci ammonisce costantemente Gustavo Zagrebelsky, che le informazioni che riceviamo (naturalmente insieme a giudizi e quindi tinte di opinioni e preferenze) siano equilibrate, che si sappia e si voglia fare distinzione tra mezzi di informazione e mezzi di propaganda: tutto questo si appoggia su null'altro che il senso di una responsabile libertà democratica, che non è una libertà da stato di natura, né è fatta per danneggiare gli altri e le istituzioni.
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