Tratto da “Questa
Italia ha sdoganato la sua ferocia”, intervista di Simonetta Fiori al
sociologo Marco Revelli, pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 3 di
aprile 2019: (…). Lei condivide l’analogia tra fascismo storico e il populismo di
destra espresso da Salvini? «La mia è una risposta ambivalente, nel senso che
riconosco elementi di analogia ma anche di forte novità». Dove vede la
somiglianza? «Salvini sta pienamente dentro quella che Piero Gobetti nel 1922
aveva definito “autobiografia della nazione”, riferendosi alla fragilità
politica degli italiani. Sia il fascismo che le cadute successive rivelano la tendenza
degli italiani a consegnarsi di volta in volta a un salvatore della patria. Una
prova di immaturità politica ricorrente. Con indubbie analogie tra Mussolini e
Salvini sul piano dello stile».
A cosa si riferisce? «L’ostentazione delle amanti, insieme al grido “Dio, patria e famiglia”; la convivenza di trasgressività e benpensantismo; il bisogno di annullare le differenze in una identità omogenea, in nome dell’odio del diverso».
Ma schiacciando l’attuale populismo di
destra sul fascismo storico non si corre il rischio di disconoscerne la novità?
«Questo è il punto. La storia non si ripresenta mai nelle stesse forme.
Nonostante il piglio fascistoide di Salvini, non credo che vi sia la minaccia
di una involuzione autoritaria, come quella che si profilò cent’anni fa. Si
tratta di due cose molto diverse. Dietro il fascismo c’era una immagine del
mondo, un’idea, una weltanschaaung. C’era il recupero seppur bolso e retorico
di un grande passato, che quindi si conosceva. C’era il popolo delle trincee
che rivendicava il sangue versato in guerra. Dietro Salvini non c’è niente:
solo un grande vuoto riempito di retorica tracotante. Il suo è un populismo
senza popolo, identificato in segmenti di volta in volta diversi: prima la
Padania, oggi la comunità clericofascista del Congresso di Verona, domani
chissà. E se il fascismo ha incarnato il demone della politica quando la
politica era una cosa fortissima, l’attuale passaggio storico segna il trionfo
di una politica senza politica, ossia di una politica non più capace di
cambiare davvero la società. Quella di Salvini è l’ostentazione potente di una
politica impotente».
Lei scrive che è un fenomeno inedito perché
non è più radicato nelle culture politiche ma nelle fratture sociali. «Sì, noi
veniamo da una esperienza che non è stata catastrofica come la guerra ma che ha
prodotto sconvolgimenti sociali paragonabili a quelli di un conflitto. I dieci
anni di crisi economica alle spalle hanno scosso alle fondamenta il nostro
assetto sociale, spingendo verso il basso tutte le sue varie componenti. E
questo ha alimentato malanimo, frustrazione, invidia in chi si sente
abbandonato o tradito. Il peccato originale di Salvini è di aver fatto da
megafono a questo fondo torbido di cattiveria e rancore di cui le persone a
lungo si sono vergognate. Berlusconi aveva sdoganato la volgarità della
ricchezza; Salvini ha sdoganato la ferocia degli italiani. Li ha fatti
diventare cattiva gente o, meglio, ne ha mostrato i lati oscuri sotto l’abito
di brava gente».
Però questo vuol dire che un amalgama nero
covava in seno al corpo sociale: sovranismo, xenofobia, razzismo, suprematismo
bianco. «Una sintesi di tutte queste cose è rappresentata dal disprezzo
dell’altro e dalla riduzione del diverso da sé a cosa. È un istinto che la
cultura a lungo ha trattenuto e quelli come Salvini hanno liberato. La
psicoanalisi ci spiega che sono pulsioni insite nella natura umana: è l’ombra
di cui parla Jung».
Colpisce la diagnosi impietosa firmata da diverse società psicoanalitiche italiane: siamo sull’orlo di una crisi psicotica. «Fanno bene a lanciare l’allarme. Oggi io non temo la dittatura politica – la politica senza politica non è in grado di produrre dittature! – ma temo la psicosi che non viene più governata, anzi viene alimentata. Paranoia e politica rappresentano una coppia dinamica che ha viaggiato insieme nel corso della storia. Ma le cose funzionano fin quando la politica democratica è in grado di controllare le psicosi. Oggi sta succedendo il contrario: la “politica senza politica” trova nella malattia mentale collettiva la fonte primaria del suo consenso».
Colpisce la diagnosi impietosa firmata da diverse società psicoanalitiche italiane: siamo sull’orlo di una crisi psicotica. «Fanno bene a lanciare l’allarme. Oggi io non temo la dittatura politica – la politica senza politica non è in grado di produrre dittature! – ma temo la psicosi che non viene più governata, anzi viene alimentata. Paranoia e politica rappresentano una coppia dinamica che ha viaggiato insieme nel corso della storia. Ma le cose funzionano fin quando la politica democratica è in grado di controllare le psicosi. Oggi sta succedendo il contrario: la “politica senza politica” trova nella malattia mentale collettiva la fonte primaria del suo consenso».
Lei diceva prima che l’ombra è insita nella
natura umana. Ma nel caso di certe pulsioni è difficile non ricondurle alla
nostra eredità fascista. «Questo sì. Noi non abbiamo fatto i conti con il
fascismo nel senso che non ne siamo guariti del tutto: abbiamo controllato i
sintomi ma non abbiamo rimosso le cause».
Zagrebelsky ha denunciato il pericolo che la
semina della paura possa tradursi in regime autoritario. «Questo apre un
versante importante sul piano della teoria politica. La paura è una componente
fondamentale della politica del moderno: pensiamo a Thomas Hobbes. È
l’instrumentum regni che permette di mettere fine alla guerra di tutti contro
tutti e obbliga a mantenere i patti. Però si tratta di una paura verticale: la
paura che il potere incute ai consociati costringendoli al rispetto delle
regole condivise. Rappresenta quindi un superamento dello stato di natura dove
domina la paura orizzontale: ognuno ha paura dell’altro. La tragedia di oggi è
che, proprio perché il potere politico è vuoto, la politica torna ad alimentare
una paura orizzontale».
Sta dicendo che c’è il rischio di un ritorno
allo stato di natura? «Faccio un esempio: l’invito ad armarsi è proprio
l’opposto di quel che faceva lo Stato hobbesiano che monopolizzava la violenza:
a nessuno era lecito portare armi. Oggi al contrario siamo tutti invitati ad
armarci contro tutti. O, meglio, contro qualcuno che di volta in volta viene
identificato come colui che fa paura».
Quindi lei non teme la torsione autoritaria,
ma il caos. «Sì, il disordine più totale prodotto dal vuoto della politica. Ed
è questo un avversario molto temibile: è difficile combattere il vuoto».
Resta il fatto che da un secolo l’Italia
batte svariati record sul piano dell’invenzione politica. «Negli anni Venti del
Novecento abbiamo inaugurato l’epoca dei fascismi. Al principio degli anni
Novanta abbiamo aperto l’epoca dei neopopulismi. E oggi abbiamo prodotto
nell’Europa occidentale l’embrione di un populismo orientato verso posizioni di
estrema destra».
C’è un filo che unisce queste diverse
“invenzioni” politiche? «Mettiamola così: siamo leader nell’esportazione di
cattivi modelli. E il filo comune è in quella che ho evocato al principio, la
gobettiana autobiografia della nazione: nei momenti topici di transizione,
l’Italia non ha gli anticorpi per affrontare infezioni di questo tipo. Siamo
rimasti dei minorati politici, incapaci di assumerci le responsabilità, e le
crisi ci hanno quasi sempre consegnato a figure di demagoghi spregiudicati.
Questa è la nostra storia».
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