Tratto da “L'arte
americana di liberarsi dai cattivi ricordi” di Vittorio Zucconi, pubblicato
sul settimanale “D” del 18 di aprile dell’anno 2015: Fu nel 1947, 68 anni or sono, che
la forma più estrema di quel disturbo mentale che affligge tanti di noi ebbe il
primo nome, quello dei fratelli Homer e Langley Collier. Nel primo giorno di
primavera, il 21 marzo, la polizia sfondò la porta del loro appartamento ad
Harlem, richiamata dai miasmi che si sprigionavano dall'abitazione.
All'interno, trovarono qualcosa che nessun agente di polizia, nessun vigile del fuoco, aveva mai visto prima: 150 tonellate di rifiuti di ogni genere accatastate in due stanze e un bagnetto, montagne di giornali, cascate di abiti, carcasse di televisori, frigoriferi defunti, piramidi di mobilio, slavine di quadretti e soprammobili, sacchi di cibo ormai immangiabile. E sepolti vivi,uccisi dalle cose che avevano accumulato in quarant'anni di vita in comune, i due fratelli Homer e Langley, Homer soffocato nel tunnel che aveva scavato per raggiungere il fratello e che gli era franato addosso come in una miniera, Langley, paralizzato da un ictus e immobilizzato, morto di fame e di sete. Una nuova malattia mentale, allora battezzata "Sindrome di Collier", oggi conosciuta come "disposofobia" era stata individuata e aveva meritato addirittura una lunga serie di documentari trasmessi per tre anni dalle televisioni nazionali. Sono casi di inspiegabile orrore, dai 350 gatti collezionati in casa da Edith Bouvier, cugina prima di Jacqueline Kennedy, alle tonnellate di ciarpame che avevano imprigionato e ucciso una coppia ottantenne di Chicago, Jesse e Thelma Gaston. A ogni primavera, quando parte il richiamo delle pulizie di Pasqua, lo Spring Cleaning, il conflitto fra il desiderio di sgombrare e il morso della "disposofobia" si ripresenta. Conservare gelosamente i detriti della propria vita contrabbandati come ricordi o sbarazzarsene? Pulire è un po' morire? È la patologia degli hoarder, dei raccoglitori estremi, opposta a quella dell'usa-e-getta. Un bisogno compulsivo di acquisire e conservare, un mal sottile che colpisce con particolare virulenza i cosiddetti empty nester, le coppie di mezza età che hanno visto volare via dal nido i figli ormai grandi e restano soli in grandi case dove gli oggetti diventano gli altari di una famiglia che non c'è più. Così esplode, perché nell'economia americana se c'è un prurito ci sarà sempre un dito per grattarlo, l'industria dei magazzini per privati, dove per pochi dollari al mese coloro che vogliono svuotare casa ma senza la lacerazione di buttare al macero i relitti di una vita, possono riporre e conservare mobili e ricordi, come in un grande ospizio di cose inanimate, ma non ancora morte. Altri scelgono la strada estenuante della garage sale, la vendita di oggetti sparpagliati all'ingresso dell'autorimessa di casa a prezzi bassissimi. Mercanzia di nessun valore, eppure rastrellata con ingordiglia da acquirenti che sperano di trovare, frugando nel cassettoni aperti, quel Picasso che il compratore neppure sapeva di avere. Ripartono con auto colme di cianfrusaglia che andrà ad accumularsi nella loro casa e che un giorno dovranno cercare di vendere in un'altra garage sale. Tutti, o quasi tutti noi, soffriamo di qualche forma benigna di "disposofobia", senza arrivare all'estremo dei fratelli Collier. Io ho conservato per anni biglietti del tram che mi avevano trasportato a partite di calcio importanti o al primo incontro con la ragazza dei sogni. Ho cassetti stracolmi di badge di plastica per l'accesso e l'accreditamento stampa a eventi di ogni tipo, dai quali mi guardano centinaia di me stesso prima giovane e sorridente e poi via via più vecchio e annoiato. E centinaia, migliaia di foto di parenti, figli, nipoti, parenti che non oso buttare per scaramanzia. Mia moglie conserva cataste di piatti, pentole e coperte e lenzuola ormai inutili, come io le dozzine di antidiluviani computer portatili che rifiuto di gettare perché dentro ognuno di loro ci sono, come nelle padelle di mia moglie, frammenti della mia fatica e della mia vita. Ma non finirò come la cugina di Jackie con 250 gatti (anche perché al pelo di gatto sono allergico), né come i Collier. La decisione irrevocabile è presa: getterò via tutto. Nella primavera del prossimo anno, s'intende.
All'interno, trovarono qualcosa che nessun agente di polizia, nessun vigile del fuoco, aveva mai visto prima: 150 tonellate di rifiuti di ogni genere accatastate in due stanze e un bagnetto, montagne di giornali, cascate di abiti, carcasse di televisori, frigoriferi defunti, piramidi di mobilio, slavine di quadretti e soprammobili, sacchi di cibo ormai immangiabile. E sepolti vivi,uccisi dalle cose che avevano accumulato in quarant'anni di vita in comune, i due fratelli Homer e Langley, Homer soffocato nel tunnel che aveva scavato per raggiungere il fratello e che gli era franato addosso come in una miniera, Langley, paralizzato da un ictus e immobilizzato, morto di fame e di sete. Una nuova malattia mentale, allora battezzata "Sindrome di Collier", oggi conosciuta come "disposofobia" era stata individuata e aveva meritato addirittura una lunga serie di documentari trasmessi per tre anni dalle televisioni nazionali. Sono casi di inspiegabile orrore, dai 350 gatti collezionati in casa da Edith Bouvier, cugina prima di Jacqueline Kennedy, alle tonnellate di ciarpame che avevano imprigionato e ucciso una coppia ottantenne di Chicago, Jesse e Thelma Gaston. A ogni primavera, quando parte il richiamo delle pulizie di Pasqua, lo Spring Cleaning, il conflitto fra il desiderio di sgombrare e il morso della "disposofobia" si ripresenta. Conservare gelosamente i detriti della propria vita contrabbandati come ricordi o sbarazzarsene? Pulire è un po' morire? È la patologia degli hoarder, dei raccoglitori estremi, opposta a quella dell'usa-e-getta. Un bisogno compulsivo di acquisire e conservare, un mal sottile che colpisce con particolare virulenza i cosiddetti empty nester, le coppie di mezza età che hanno visto volare via dal nido i figli ormai grandi e restano soli in grandi case dove gli oggetti diventano gli altari di una famiglia che non c'è più. Così esplode, perché nell'economia americana se c'è un prurito ci sarà sempre un dito per grattarlo, l'industria dei magazzini per privati, dove per pochi dollari al mese coloro che vogliono svuotare casa ma senza la lacerazione di buttare al macero i relitti di una vita, possono riporre e conservare mobili e ricordi, come in un grande ospizio di cose inanimate, ma non ancora morte. Altri scelgono la strada estenuante della garage sale, la vendita di oggetti sparpagliati all'ingresso dell'autorimessa di casa a prezzi bassissimi. Mercanzia di nessun valore, eppure rastrellata con ingordiglia da acquirenti che sperano di trovare, frugando nel cassettoni aperti, quel Picasso che il compratore neppure sapeva di avere. Ripartono con auto colme di cianfrusaglia che andrà ad accumularsi nella loro casa e che un giorno dovranno cercare di vendere in un'altra garage sale. Tutti, o quasi tutti noi, soffriamo di qualche forma benigna di "disposofobia", senza arrivare all'estremo dei fratelli Collier. Io ho conservato per anni biglietti del tram che mi avevano trasportato a partite di calcio importanti o al primo incontro con la ragazza dei sogni. Ho cassetti stracolmi di badge di plastica per l'accesso e l'accreditamento stampa a eventi di ogni tipo, dai quali mi guardano centinaia di me stesso prima giovane e sorridente e poi via via più vecchio e annoiato. E centinaia, migliaia di foto di parenti, figli, nipoti, parenti che non oso buttare per scaramanzia. Mia moglie conserva cataste di piatti, pentole e coperte e lenzuola ormai inutili, come io le dozzine di antidiluviani computer portatili che rifiuto di gettare perché dentro ognuno di loro ci sono, come nelle padelle di mia moglie, frammenti della mia fatica e della mia vita. Ma non finirò come la cugina di Jackie con 250 gatti (anche perché al pelo di gatto sono allergico), né come i Collier. La decisione irrevocabile è presa: getterò via tutto. Nella primavera del prossimo anno, s'intende.
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