Tratto da “Ambiente,
tra utopia e bambinocrazia” di Daniela Ranieri, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 16 di marzo 2019: (…). Dal mito, al rito: Zingaretti le ha
dedicato la vittoria alle primarie (un’afasia selettiva impedì al neosegretario
di manifestare la sua ecosensibilità quando l’allora leader del suo partito, il
capomastro dello Sblocca Italia, invitava a non votare al referendum sulle
trivelle), e ci sono già ovviamente una Greta italiana, Alice, della quale si
riportano gli aforismi come fossero perle del Dalai Lama, e una Greta inglese,
Emily, che durante il consiglio della sua cittadina ha detto: “Ho sei anni (!,
ndr), date anche a me l’opportunità di cambiare il mondo”.
Sembra Il villaggio dei dannati, col mondo in preda al delirio bambinocratico, col particolare che questi bambini sono stati educati da adulti e hanno studiato su libri scritti da adulti (o Greta è forse un angelo a cui la scienza è stata infusa dal Padreterno, la reincarnazione di Marie Curie, un robot fabbricato nei sotterranei del Cern?). Perché la protesta di una ragazza naturalmente inesperta ha così tanta eco, a differenza delle lotte di chi da anni si batte con studio e competenza contro il riscaldamento globale, da Greenpeace a Al Gore, allo scienziato Joahn Rockstrom, al fondatore di 350.org Bill McKibben, a Leonardo Di Caprio? Un’ipotesi: gli scienziati, per la bislacca alchimia anti-umanista che pervade il mondo, sono visti come idealisti un po’ pazzoidi ignari delle leggi irreversibili del mercato; e le star di Hollywood sono considerate alla stregua di figurine romantiche funzionali al racconto che è bello sognare, ma il mondo lo fanno funzionare i realisti con la loro cassetta degli attrezzi fatta di compromessi tra sviluppo e ecologia, lavoro e salute, fantasie puerili e esigenze dei grandi. Greta è un repertorio di “tipi” perfetti per incastrarsi in questa enorme macchina che sperpera belle parole mentre consuma le risorse del pianeta a favore dell’imperio capitalista. È un fenomeno disegnato secondo i parametri di ciò che piace al cittadino europeo mediamente istruito, anglofono, cosmopolita e innamorato della generazione Erasmus (almeno finché non c’è da pagarla con salari dignitosi: allora i giovani tornano a essere choosy, viziati, bamboccioni). Il dibattito serio sul clima lascia il posto al bombardamento mediatico e puramente emotivo su una ragazzina che capeggia milioni di altri ragazzini e detta l’agenda a politici, industriali, capi di Stato; la discussione sulle misure reali di riduzione delle emissioni di gas serra e sull’applicazione del protocollo di Kyoto è subissata dalla potenza dello storytelling. Il bambino che dice che il re è nudo ha una sua potenza poetica e rivoluzionaria; ma questo dovrebbe indurre a una superiore serietà. I giornali dovrebbero interrogare gli scienziati e non i bambini, i governi chiamare a raccolta le migliori menti del pianeta, gli adulti studiare di più e non soccombere scioccamente a un mito che si autoconsumerà a danno proprio di questi bambini idolatrati, cristallizzati nel fanatismo e perciò tre volte depredati. Oppure ci si accontenterà di una carnevalata assolutoria pompata dai media in crisi di ispirazione, una cerimonia di temporanea inversione dei ruoli che fa gioco ai potenti per continuare a inquinare, razziare e sfruttare cercando di volta in volta un alibi e una catarsi nella lacrima pop di un mea culpa fasullo.
Sembra Il villaggio dei dannati, col mondo in preda al delirio bambinocratico, col particolare che questi bambini sono stati educati da adulti e hanno studiato su libri scritti da adulti (o Greta è forse un angelo a cui la scienza è stata infusa dal Padreterno, la reincarnazione di Marie Curie, un robot fabbricato nei sotterranei del Cern?). Perché la protesta di una ragazza naturalmente inesperta ha così tanta eco, a differenza delle lotte di chi da anni si batte con studio e competenza contro il riscaldamento globale, da Greenpeace a Al Gore, allo scienziato Joahn Rockstrom, al fondatore di 350.org Bill McKibben, a Leonardo Di Caprio? Un’ipotesi: gli scienziati, per la bislacca alchimia anti-umanista che pervade il mondo, sono visti come idealisti un po’ pazzoidi ignari delle leggi irreversibili del mercato; e le star di Hollywood sono considerate alla stregua di figurine romantiche funzionali al racconto che è bello sognare, ma il mondo lo fanno funzionare i realisti con la loro cassetta degli attrezzi fatta di compromessi tra sviluppo e ecologia, lavoro e salute, fantasie puerili e esigenze dei grandi. Greta è un repertorio di “tipi” perfetti per incastrarsi in questa enorme macchina che sperpera belle parole mentre consuma le risorse del pianeta a favore dell’imperio capitalista. È un fenomeno disegnato secondo i parametri di ciò che piace al cittadino europeo mediamente istruito, anglofono, cosmopolita e innamorato della generazione Erasmus (almeno finché non c’è da pagarla con salari dignitosi: allora i giovani tornano a essere choosy, viziati, bamboccioni). Il dibattito serio sul clima lascia il posto al bombardamento mediatico e puramente emotivo su una ragazzina che capeggia milioni di altri ragazzini e detta l’agenda a politici, industriali, capi di Stato; la discussione sulle misure reali di riduzione delle emissioni di gas serra e sull’applicazione del protocollo di Kyoto è subissata dalla potenza dello storytelling. Il bambino che dice che il re è nudo ha una sua potenza poetica e rivoluzionaria; ma questo dovrebbe indurre a una superiore serietà. I giornali dovrebbero interrogare gli scienziati e non i bambini, i governi chiamare a raccolta le migliori menti del pianeta, gli adulti studiare di più e non soccombere scioccamente a un mito che si autoconsumerà a danno proprio di questi bambini idolatrati, cristallizzati nel fanatismo e perciò tre volte depredati. Oppure ci si accontenterà di una carnevalata assolutoria pompata dai media in crisi di ispirazione, una cerimonia di temporanea inversione dei ruoli che fa gioco ai potenti per continuare a inquinare, razziare e sfruttare cercando di volta in volta un alibi e una catarsi nella lacrima pop di un mea culpa fasullo.
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