A lato: Aboubakar Soumahoro
Tratto da “Prima
gli sfruttati”, intervista di Giuseppe Genna ad Aboubakar Soumahoro
pubblicata sul settimanale L’Espresso del 30 di dicembre dell’anno 2018: (…). «Viviamo
in un Paese sotto spasmo. Piazza del Popolo a Roma trabocca di fan di Salvini e
a Torino 50mila persone si ritrovano per dire no a Tav. La reazione alle
politiche aggressive del governo si misura eccome. Non Una di Meno ha portato
in piazza nella capitale 150 mila persone sui diritti femminili e di genere,
mentre sulla questione dei bambini nella mensa di Lodi si è toccata con mano
una sollevazione nazionale. Questa reazione mette a nudo la continua
falsificazione portata avanti dalle destre, che esasperano le frustrazioni di
un popolo stremato da decenni di politiche aggressive e speculative, condotte
ai suoi danni. Da subito, dal caso della nave Diciotti, è stato mostrato fino a
che punto la manipolazione dell’opinione e la falsificazione della propaganda
siano giunte. La sospensione dei diritti di una manciata di profughi ha portato
forse cibo nei piatti dei disoccupati o delle famiglie monoreddito, che non
riescono non dico a tirare fine mese, ma nemmeno le prime due settimane? Ha per
caso consentito un miglioramento di vita ai precari, che devono mettere insieme
tre lavori in una giornata per arrivare a un reddito indecente? Ha dato
risposta ai giovani costretti a prendere voli low cost, per trovare altrove uno
straccio di lavoro? La questione dello sfruttamento e dell’abbrutimento,
imposto a tutta la collettività e non solo riguardo al lavoro, va rimessa al
centro. Quando perfino nel contratto di governo si scrive che negli asili nido
va inserita una differenza tra bambini, ci troviamo di fronte a un problema
serio, che non è soltanto economico e materiale, ma è di pura crisi valoriale».
Tutto ciò avviene in una nazione che il recente rapporto Censis definisce sotto sovranismo psichico. «C’è una modalità della politica di destra che aumenta e approfondisce la distrazione di massa, nascondendo il problema autentico, che è lo sfruttamento generalizzato. Questo colpisce tutti i ceti, tutti i corpi sociali, tutti i soggetti deboli. Il cosiddetto Decreto Sicurezza, produce marginalità. Le donne, i giovani, anche i bambini vedono erosi i loro diritti. A distanza di 70 anni dalla dichiarazione universale dei diritti umani e della stessa Costituzione italiana, si ripristinano leggi non razziali, ma razziste, esattamente come sette decenni orsono si fece in Sudafrica».
Ti occupi da anni di lavoro. Tra insicurezza
e smantellamento dei diritti di base, si è creato un avvitamento che
impoverisce la società nella sua interezza. «Giuseppe Di Vittorio diceva che
quando i lavoratori non riescono a fare fronte ai loro bisogni più vitali, cioè
alle necessità delle loro famiglie e delle loro creature (“creature”: questa
parola umana che porta con sé tutto!), significa che siamo in una fase di
abbrutimento, che riguarda oggi tutti i lavoratori, i precari, i braccianti,
gli operatori dell’era digitale, quelli della pubblica amministrazione -
persino i lavoratori dello Stato finiscono sfruttati, coinvolti in processi di
esternalizzazione e nuovo padronato. Questo degrado riguarda anche la massa di
giovani, free lance e precari, anche del cognitivo, che ormai lavorano a
cottimo quanto un bracciante che si spacca la schiena nel Pavese o a Reggio
Calabria. Si tratta di un impoverimento che la nostra Costituzione doveva e
deve rovesciare, dando dignità a chi lavora».
Il Jobs Act ha fallito proprio in questo,
non restituendo dignità ai lavoratori. «Quella riforma è precisamente la più
aggressiva espressione della decadenza contemporanea in termini di diritti.
Trasforma la precarietà lavorativa in precarietà esistenziale tout court. Si è
andati a spezzare l’elemento della comunanza, che una volta si chiamava
solidarietà di classe. Ma si è assistito alla cancellazione di questo
vocabolario, alla sua archiviazione nel nome di un progresso che non è tale,
spesso andando oltre persino il sistema schiavista, in cui perlomeno i padroni
tenevano alla salute dei propri schiavi, perché producessero più e meglio. Il
Jobs Act, che è tuttora in funzione, non è certamente una questione soltanto
italiana, sia chiaro. Il lavoro oggi va trasformandosi secondo il modello
dell’isolamento che colpisce chi è al servizio delle famiglie, nella sonante
assenza dello Stato, che spazza via ogni welfare e costringe poveri pensionati
ad affidarsi a colf e badanti con costi insostenibili. La risposta a questa
situazione è tornare a unire i lavoratori, non in base al colore della pelle o
alla provenienza geografica, ma in forza del loro bisogno comune, che in questo
caso è vedere riconosciuta la dignità. I lavoratori vanno messi in condizione
di unirsi intorno a un principio assai semplice, nell’era del dumping sociale:
stesso lavoro, stessa paga. Stessa mansione, stesso salario. E stesso diritto
alla previdenza sociale. Va rimessa al centro la persona, che è tale prima
ancora di essere chiamata lavoratore o lavoratrice».
Delinei una sfida che non riguarda soltanto
l’Italia: è una globalizzazione dei diritti di dimensioni internazionali. «Stiamo
attraversando una fase che possiamo descrivere parafrasando Frantz Fanon, il
celebre esponente del terzomondismo: nella struttura economica delle colonie,
si è ricchi perché si è bianchi e si è bianchi perché si è ricchi. È
sufficiente oggi essere lavoratori e lavoratrici, per dirsi garantiti? Dal
punto di vista della regressione dei diritti generali, si assomiglia tutti
sempre di più a quei lavoratori che vengono delocalizzati, nella ricerca di un
profitto sempre più massimizzato, attraverso la massimizzazione della capacità
di sfruttamento. Sono due dimensioni che viaggiano insieme, in una prospettiva
globale. Ecco perché non si può evitare di orientarsi in una dimensione
internazionale».
Il mercato dei nuovi player globali, come
Amazon, oltrepassa gli Stati e tende addirittura a sostituirli. «Il processo di
internazionalizzazione deve organizzarsi e procedere intorno a parole chiave
accessibili. Ci troviamo di fronte a quelli che Di Vittorio definiva i grandi
monopoli e che oggi potremmo chiamare grande distribuzione organizzata, giganti
economici ad alta tecnologia, che riescono a spostare la produzione oltre i confini,
sfruttando le debolezze di lavoratori atomizzati e spaesati, che vivono
esistenze sospese. La risposta a questa feroce delocalizzazione, che non
risparmia nessun diritto dei lavoratori, è imperniare la lotta sul principio a
cui accennavo prima: stesso lavoro, stesso salario. Ovunque sia spostata la
produzione, il costo del lavoro deve essere il medesimo, per non creare
sperequazioni».
Però non è più sufficiente occuparsi solo
del salario. «Non si può lottare soltanto per un salario nominalmente dignitoso,
senza porsi domande inerenti alla mobilità sociale o al tema del diritto
all’abitazione. Per non dire della questione giovanile o dei pensionati, fasce
di popolazione diversamente abbandonate a se stesse. O anche della vita nelle
città, dove assistiamo a un’espulsione di massa dei precari dal diritto di
abitare nel centro, perché si sta proiettando e realizzando l’ideologia di una
city più o meno smart, in cui non si devono avere sotto gli occhi i non
abbienti, che vanno colpevolizzati e nascosti ai margini. Bisogna essere
presenti ovunque. Ogni territorio va trasformato in finestra aperta sul mondo».
Si assiste al progressivo scollamento tra
Stato e cittadini. «L’esasperazione delle persone va compresa. Veniamo da
decenni in cui lo Stato, nelle sue articolazioni anzitutto governative, ha
praticato un picconamento scientifico dei diritti dei cittadini nel loro spazio
vitale. Questo è il contesto in cui si inserisce il governo attuale, che ha
promesso di dare diritti e dignità a tutti. Lo Stato può essere garante di
tutti i soggetti, in un mondo in cui la ricerca del profitto viene portata
avanti fino alla disumanizzazione e tutto è interpretato come merce? Lo Stato
può e deve tornare a mettere al centro l’essere umano, salvaguardandone i
diritti e la dignità. Nel momento in cui si fa invece promotore di un messaggio
di odio, i cittadini finiscono per agire quel rancore, che sembra la risposta
allo sfruttamento e alle disuguaglianze. Ma la realtà è ben più composita e
articolata di quanto faccia figurare il messaggio di odio lanciato da chi
interpreta lo Stato».
Se la risposta delle destre
all’esasperazione è chiara, ciò che si è chiamato sinistra ha ancora un senso,
almeno in questo Paese? «Lo smantellamento dei diritti è stato continuo e
coerente negli ultimi decenni. Prima degli Ottanta le leggi dello Stato
ampliavano i diritti e il reddito cresceva. Dagli anni Novanta è stato dato
inizio a un enorme calo dei salari e a un innalzamento progressivo della
precarietà. Dal pacchetto Treu fino al Jobs Act, si osserva la realizzazione di
un progetto unico, nell’alternarsi dei governi di colore opposto. D’altra parte
prendiamo l’esempio delle leggi che sono state approvate nel corso degli anni
sul tema dei migranti. Partendo con la Turco-Napolitano, una filosofia di
razzializzazione viene portata avanti dalla Bossi-Fini, dalla Minniti-Orlando e
infine dall’attuale decreto Salvini, senza soluzione di continuità, nonostante
l’alternanza di centrosinistra e centrodestra al potere. È tutto coerente,
anche quando consideriamo sanità, previdenza, istruzione. Quanto è stato eretto
in questi anni ha portato all’attuale condizione di smarrimento dei valori,
fino al punto di dire che non c’è differenza tra destra e sinistra. Ciò a cui
bisogna lavorare è federare le comunità di ultimi, di sfruttati, di
abbandonati, che hanno pagato il prezzo di riforme tanto devastanti. La
ricomposizione di cui parlo è il momento in cui la diversità non è un elemento
per scatenare una caccia alle streghe: essere donne o gay o lesbiche non
diventa fattore discriminatorio, che acuisce o mantiene disuguaglianze, come il
gap salariale tra uomini e donne. Costituisce invece l’uscita dalla politica
delle discriminazioni, per aumentare l’angolatura dei diritti».
La giustizia sociale non è che un aspetto
delle trasformazioni planetarie imposte dal vecchio e nuovo capitale. «È
necessario mirare alto e provare a coniugare la giustizia sociale con temi
epocali, come quello dell’ambientalismo. Sappiamo che per via dei cambiamenti
climatici, entro il 2050, ci saranno 250 milioni di persone costrette a cercare
di sopravvivere spostandosi, l’80 per cento delle quali vive nei paesi del sud
del mondo. La percezione dell’invasione dei migranti in Italia è del tutto
scorretta, ma è evidente che masse immense saranno costrette alla diaspora non
solo per l’esclusione, ma anche per i cambiamenti climatici, dovuti anzitutto
al modello di industrializzazione che si è imposto. Emerge drammaticamente,
sotto rinnovate forme, il legame tra capitale e natura. Tutti i temi epocali
non possono che viaggiare insieme. La causa ambientalista e l’esclusione
sociale, la discriminazione delle classi povere, l’antisessismo. La lotta per i
diritti non può avvenire all’interno di muraglie, nell’innalzarsi di confini,
negando agli esseri umani la libertà di circolazione e consentendola invece
soltanto alle merci e ai capitali».
Parli del nesso tra capitale e natura. Che
fase del capitale è quella che stiamo vivendo, con l’accelerazione tecnologica
che va a trasformare definitivamente il mondo del lavoro? «Ci sono ambiti di
lavoro che andranno comunque avanti con le forme storiche che noi conosciamo.
La trasformazione tecnologica si porta dietro la possibilità della
cancellazione fisica dei posti di lavoro. È un processo oggettivamente in
corso. In questa trasformazione accade che lo Stato rischi di diventare a sua
volta operaio al servizio del capitale privato. Uno degli ex commissari Ue
diceva che, se l’Italia avesse accettato le indicazioni della trojka, ci
saremmo trovati nella condizione di uno Stato colonizzato. Quell’ex commissario
era Mario Monti. Continuava, dicendo che nell’attuale contesto il capitalismo,
non avendo più il suo antagonista, non si dà neanche più forme di
autoregolamentazione. Ma quando mai si è autoregolamentato il capitalismo?
Sarebbe opportuno portare a consapevolezza la domanda su chi governa la
convergenza tra industria, grande distribuzione e digitalizzazione. Già solo a
livello di social network si vive come se non importasse chi li detiene, li
controlla e quali strategie sociali applica. La fisionomia del nuovo
capitalismo è in alto grado sfuggente».
Abbiamo vissuto decenni in cui è stato
interdetto qualunque valore ai simboli. Oggi ci ritroviamo al potere una destra
che emette simboli in continuazione, dai confini all’uomo nero. Tu stesso sei
diventato una sorta di simbolo, per molte persone che ti hanno conosciuto
attraverso i media. Perché si torna a una politica dei simboli? «Va detto
intanto che simbolo proprio non desidererei esserlo. Tuttavia mi rendo conto
che c’è uno smarrimento. L’individualismo radicale è stato indicato come unica
soluzione sociale, con la promessa a ciascuno che da soli si sarebbe riusciti a
farcela. La speranza e la proiezione sui nomi e sulle singole persone che
attualmente governano nasce da questo disagio. Il problema va risolto in un
altro modo, creando una coscienza collettiva, che si assuma la responsabilità
di uscire dall’impoverimento generale, non affidandosi a capitani suppostamente
coraggiosi. Una coscienza collettiva che non sia chiusa in sé, ma capace di
portare a processi di mutamento dello status quo, in termini di welfare,
giustizia sociale, istruzione, sanità, tutela dell’ambiente. Più che simboli,
la proposta è di attivare una coscienza collettiva, capace di risolvere
l’isolamento delle persone, altrimenti facilmente sfruttabili. Questa non è una
teoria del mondo: è la cruda realtà. L’hanno compresa le donne, gli operai, i
giovani, che giustamente chiedono speranza, a fronte di questa situazione. Noi
dobbiamo dare speranza, metterci gli stivali e scendere nei campi in prima
persona. Dobbiamo interpretare quel disagio, promettere di risolverlo - e
mantenere quella promessa».
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