"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 18 gennaio 2019

Cronachebarbare. 62 La libertà dei “servi” tra percezione e consapevolezza.


Pongo un problema. Esiste, e se esiste qual è, il confine sottile e permeabile tra la “percezione” e la “consapevolezza”? Ovvero, fino a qual punto e dove la “percezione”, affondando le sue radici negli strati e nei sottostrati della coscienza degli umani, ché solo dopo aver convenientemente affondato le sue radici se ne possano attendere significative trasformazioni, fino a qual punto del profondo della coscienza, dicevo, può la stessa “percezione” provare ad immergersi nella linfa vitale della “consapevolezza” e quindi trasfigurarsi, di conseguenza, in essa?
O, per tanti degli umani - per quanti e perché? – , l’affondare di quelle radici non consentirà mai loro il raggiungimento della linfa vitale e genuina della “consapevolezza”? È che, se così fosse, vano sarebbe il mio impegno a professare un ottimismo che, per mia natura, avrei difficoltà a professare. E sarebbe come fare un torto grande alla intelligenza dei più se non provassi a sforzarmi, ancor oggi, per professare un pur larvato ottimismo, giusto per fare intendere, ai pochissimi che visitano questo mio blog, che nulla in verità è ancora perduto. Ma la realtà (forse) è ben altra. Ed il problema che pongo avrebbe bisogno di risposte chiare e rapide che sciolgano le mie riserve in un ottimismo che non può essere solo di maniera. Che la “percezione” sia essenzialmente un qualcosa legato alla sfera del sensibile, alla sfera dei sensi degli umani, è una cosa vecchia come il mondo e scontata assai; si ha “percezione” del caldo e del freddo, dei colori e dei suoni e di quant’altro ancora della vita sensibile. E questa realtà della “percezione”, legata essenzialmente al mondo fisico, non riesce a dare le risposte che cerco, anzi mi conferma in un “determinismo” che incute paura e che cerco di combattere con tutte le mie deboli forze. C’è stato un tempo durante il quale l’utilizzo di quel lemma – la “percezione” - aveva invaso anche altri settori della vita sensibile degli umani, ed abbiamo potuto ascoltare parole autorevoli – seppur irresponsabili - secondo le quali una crisi, o la lunghissima crisi in corso tuttora dell’economia, per esempio, sarebbe ascrivibile non ad una ben determinata realtà, con tanto di parametri ed indici incontrovertibili, quanto solamente alla percezione personale, errata per i millantatori di turno, percezione personale di ciascuno di noi dello stato delle cose del mondo. E così di questo passo. Ed allora: dov’è quel confine tra “percezione” e “consapevolezza” nell’ambito di quanto è avvenuto, e tuttora avviene, nei fatti politici e sociali del bel paese? Sono così profondamente situati e resi inaccessibili gli strati della coscienza individuale e/o collettiva affinché si raggiunga la “consapevolezza” di una condizione neo-servile nella quale in tanti vivono, anzi sopravvivono in quanto cittadini seppur dichiarati liberi e portatori di diritti? Pongo il problema non individuandone una risposta che sia accettabile e plausibile. Non ne ho la stoffa. Mi imbatto intanto nelle mie ardite letture e mi sconforta assai l’idea di dover abbracciare un ottimismo di maniera, un ottimismo solamente indotto. Traggo uno spunto dalla lettura dell’agile volume “La libertà dei servi” di Maurizio Viroli – Laterza editore (2010), pagg. 139 € 15,00 - alla pagina XII della premessa: “La caratteristica precipua del sistema di corte (dei potenti di turno n.d.r.) è (…) la sua capacità di diffondere o rafforzare i costumi servili: l’adulazione, la simulazione, il cinismo, il disprezzo per gli spiriti liberi, la venalità e la corruzione. Se a questo aggiungiamo che un uomo con poteri enormi può facilmente farsi signore delle leggi, è facile intendere che dove si è formata la corte non può esserci libertà del cittadino”. Riconosciuta o riconoscibile una realtà di riferimento? Conducibile a quale momento della nostra vita associata? O essa è come un dato costante al variare dei personaggi al potere? O è soltanto una “percezione”? Quanto è diffusa nel “libero” cittadino la “consapevolezza” d’essere sprofondati nel pieno di una servile collettiva condizione? E se il mio inclinare verso un certo “determinismo” negli affari degli umani trovasse altri riscontri ancora? Intanto propongo di seguito la lettura di una interessante intervista che Maurizio Viroli concesse al giornalista del quotidiano l’Unità Emiliano Sbaraglia, intervista che è stata pubblicata col titolo “L’Italia? Un paese libero di essere servo di un uomo solo” il 12 di ottobre dell’anno 2010:  (…). E. S. Professor Viroli, partiamo dalla «libertà dei servi», il titolo del suo libro, a cui lei oppone quella dei cittadini. Qual è la differenza? M. V. «Il concetto di libertà dei servi ha una lunga storia nel pensiero politico, antico e moderno. Abbiamo la libertà dei servi quando gli individui sono sottoposti al potere arbitrario o enorme di un uomo. Perché se sei sottoposto al potere arbitrario ed enorme di un uomo che può fare ciò che vuole non sei libero come cittadino, ma hai la libertà dei servi, che consiste spesso nel poter fare ciò che vuoi, ma sempre sottoposto alla volontà di qualcun altro. La libertà del cittadini è diversa, non è sottoposta al potere arbitrario o enorme di un uomo, ma soltanto alla Costituzione, alle leggi e ai principi morali. Tutto questo si intende bene se consideriamo una frase di Cicerone: - La libertà non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto -. Un po’ quello che, per tornare a pensatori più vicini, secoli dopo ha affermato anche Rousseau: - Un popolo libero serve solo le leggi per non servire gli uomini -. Questa è la differenza tra libertà dei servi e libertà dei cittadini».
E. S. Dunque quando si smette di essere cittadini e si diventa sudditi? M.V. «Non parlerei tanto di sudditi, quanto proprio di servi, perché la sudditanza dipende dalla forza, mentre la servitù è costruita sulla persuasione... Ad ogni modo la libertà del cittadino termina nel momento in cui all’interno della res publica si forma un potere arbitrario o enorme, come dicevamo. Ma bisogna aggiungere che è del tutto irrilevante chi abbia tale potere, e neppure conta come venga utilizzato. Il problema è la semplice esistenza di un potere, che imponendo la propria volontà fa sì che non si possa parlare più di libertà dei cittadini, ma di libertà dei servi. È importante avere chiaro che, come hanno sempre sottolineato gli autori di commedie nella Roma antica, i servi sottoposti al potere di un uomo possono essere felici, e spesso lo sono, perché sono in condizioni di fare più o meno ciò che vogliono. Ciò nonostante, il semplice fatto di essere sottoposti a un potere non li rende liberi nel senso della libertà del cittadino. Come spiegava Machiavelli, sono uomini liberi quelli che non dipendono da altri. Nel nostro paese, come in tutti, anche se questo enorme potere l’avesse, che so, madre Teresa di Calcutta invece di Silvio Berlusconi (si era nell’anno 2010, comprensibile l’accostamento ardito dell’illustre Autore n.d.r), il problema ci sarebbe lo stesso». (…). E. S. Professore, alla fine del suo libro lei rivolge una sorta di appello alle persone di animo grande, indicando come riferimento, per riconquistare lo status di cittadini, un sentimento del dovere nel passato identificato in personalità quali quelle di Piero Gobetti, Norberto Bobbio, Paolo Sylos Labini, Giorgio Ambrosoli, per citarne alcuni. Una nuova rinascita italiana è ancora possibile? M. V. «Io credo nelle persone di animo grande, perché non credo esistano soltanto persone dedite al sistema della corte. La conseguenza della formazione della corte è la diffusione molto larga della mentalità servile, che si traduce nell’adulazione, nella menzogna, nella cortigianeria, nel vivere da buffoni, nel culto delle apparenze. Tuttavia in Italia ho potuto verificare in mille occasioni che esistono uomini e donne passati attraverso un nuovo processo di maturazione civile e politica, perché hanno vissuto un sentimento di distacco e ripugnanza, un sentimento di sdegno nei confronti della corte riunita attorno al signore. E questa è la caratteristica di chi si oppone davvero e vuole conquistare la libertà del cittadino. Secondo me la parola che riassume tutto è intransigenza, nel senso della volontà di costruire non una corte più piccola, con cortigiani meno disgustosi, ma di vivere senza corti e senza cortigiani. Il sentimento dell’intransigenza è quello che ha ispirato i processi di emancipazione più importanti della nostra storia. Il Risorgimento nazionale è la storia di uomini e donne intransigenti che vollero costruire un’Italia completamente diversa, così come la Resistenza ebbe preparatori e ispiratori che l’intransigenza la professavano. Basti ricordare quel che diceva Ferruccio Parri dei suoi compagni: - Erano intransigenti perché disinteressati -. Ecco, se mai ci sarà un processo di riconquista della libertà dei cittadini, potranno guidarlo solo uomini e donne intransigenti, che si oppongono al sistema della corte non per invidia ma per sdegno, per la convinzione che qualcuno abbia offeso dei valori e dei princìpi imprescindibili. D’altra parte, in Italia i processi di emancipazione sono stati sempre guidati da minoranze. L’importante è che queste minoranze si uniscano e sappiano ispirare, guidare, testimoniare con l’esempio e la coerenza che nel nostro paese è possibile eliminare e distruggere la libertà dei servi.

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