Tratto da “Se
il Paese delle balle di Stato ha paura della post-verità” di Tommaso Cerno,
pubblicato sul settimanale L’Espresso dell’8 di gennaio dell’anno 2017: C’è
un dibattito in corso nel Paese delle balle di Stato, quello di Ustica e del
caso Moro per capirci, che ha del surreale. Fior di intellettuali, giornalisti,
politici, magistrati e salumieri, con l’aiuto della suocera, discutono sul
fatto che l’Italia sarebbe entrata nell’era della post-verità. E che serve un
intervento in grande stile.
Filosofeggiano, e più filosofeggiano più è chiaro che anche stavolta sotto sotto si cela una battaglia politica. (…). Perché il problema sotteso alle bufale sul web, nello stomaco dei politologi, è semplice: cui prodest? (…). Permettete un dubbio, da giornalisti con tutte le nostre colpe. Non è che qui, fra perifrasi in inglese e furbizia di guappo, sembra essersi aperto un varco? E, accucciata come un lupo feroce pronto a sbranarsi la democrazia con un clic, ci sarebbe una parola, post-verità, che spingi-spingi potrebbe tornare buona per qualcuno? Perché se è così, la battaglia è già persa. Per ammissione di sconfitta della stessa informazione: si tratta, in sostanza, di dire che se sui social qualcuno spara scemenze - mischiate a migliaia di cose vere, cui partecipano da anni anche le testate storiche, i giornaloni, perfino esageratamente - quelle scemenze sarebbero così forti da devastare l’intero sistema mediatico e la sua credibilità. È come ammettere, gridando al fascismo e alla censura, di non riuscire più a essere creduti, unica funzione vitale del giornalismo in qualunque forma sia divulgato. Che fare, si dicono allora i giganti della libertà di espressione? Indagare, vietare, censurare il web. (…). Un dibattito senza capo né coda, nell’era in cui perfino Pablo Picasso può venire apostrofato come graffitaro e tutti amici come prima. Posso dire una cosa da italiano medio? Non si difende così il diritto di cronaca. Soprattutto nel Paese dove la post-verità rischia di suonare come un già visto. Anzi un passo avanti rispetto a quel che siamo da decenni: l’Italia della post-bugia. Dello Stato che nasconde la verità. I libri sono pieni di post-bugie all’italiana. Siamo il Paese che ha montato e smontato commissioni d’inchiesta con il compito di nascondere le verità che sarebbero emerse da sole, anziché di cercarle più in fretta. Siamo quelli del caveau di Carminati e del caso Pasolini, dei mafiosi al governo e del rapimento Orlandi, su cui ancora aspettiamo una pre-verità ormai postuma, custodita nei sacri Palazzi. La verità dove sta? Sta dove qualcuno la cerca davvero. Dove il giornalismo, con caparbietà, a volte rischiando la vita, tenta di fare luce su fatti che altri intendono tenere nascosti. Sta nel lavoro quotidiano dei cronisti. Non in quello dei tribunali o delle authority anti questo o quello. Così potente quando fa il suo mestiere di fronte al potere da avere contribuito in maniera decisiva, penso ad esempio al 1992, a far cadere il sistema sulle proprie gambe d’argilla. Fatico a credere che, se qualcuno avesse ridicolizzato i giornali con post-verità su Craxi o De Lorenzo, avremmo gridato al fascismo. Nessuno se ne sarebbe accorto, perché l’odore del vero è più acre di qualsiasi profumo pre o post tu voglia dargli. Eppure proprio oggi scopriamo di non avere più anticorpi per reagire. Al punto di proporre, nello Stato abituato a mentire ufficialmente, di “vietare” questi bugiardelli dilettanti e i loro fake? Non è la strada: solo il giornalismo può vincere questa partita. Ma deve sconfiggere prima di tutto la post-bugia di Stato. Non sembrare mai megafono. Né parte del Palazzo. A quel punto la post-verità si frantuma sul pavimento marmoreo del conoscere. Senza divieti o censure. Ma facendo luce sui fatti. Il solo compito del giornalista.
Filosofeggiano, e più filosofeggiano più è chiaro che anche stavolta sotto sotto si cela una battaglia politica. (…). Perché il problema sotteso alle bufale sul web, nello stomaco dei politologi, è semplice: cui prodest? (…). Permettete un dubbio, da giornalisti con tutte le nostre colpe. Non è che qui, fra perifrasi in inglese e furbizia di guappo, sembra essersi aperto un varco? E, accucciata come un lupo feroce pronto a sbranarsi la democrazia con un clic, ci sarebbe una parola, post-verità, che spingi-spingi potrebbe tornare buona per qualcuno? Perché se è così, la battaglia è già persa. Per ammissione di sconfitta della stessa informazione: si tratta, in sostanza, di dire che se sui social qualcuno spara scemenze - mischiate a migliaia di cose vere, cui partecipano da anni anche le testate storiche, i giornaloni, perfino esageratamente - quelle scemenze sarebbero così forti da devastare l’intero sistema mediatico e la sua credibilità. È come ammettere, gridando al fascismo e alla censura, di non riuscire più a essere creduti, unica funzione vitale del giornalismo in qualunque forma sia divulgato. Che fare, si dicono allora i giganti della libertà di espressione? Indagare, vietare, censurare il web. (…). Un dibattito senza capo né coda, nell’era in cui perfino Pablo Picasso può venire apostrofato come graffitaro e tutti amici come prima. Posso dire una cosa da italiano medio? Non si difende così il diritto di cronaca. Soprattutto nel Paese dove la post-verità rischia di suonare come un già visto. Anzi un passo avanti rispetto a quel che siamo da decenni: l’Italia della post-bugia. Dello Stato che nasconde la verità. I libri sono pieni di post-bugie all’italiana. Siamo il Paese che ha montato e smontato commissioni d’inchiesta con il compito di nascondere le verità che sarebbero emerse da sole, anziché di cercarle più in fretta. Siamo quelli del caveau di Carminati e del caso Pasolini, dei mafiosi al governo e del rapimento Orlandi, su cui ancora aspettiamo una pre-verità ormai postuma, custodita nei sacri Palazzi. La verità dove sta? Sta dove qualcuno la cerca davvero. Dove il giornalismo, con caparbietà, a volte rischiando la vita, tenta di fare luce su fatti che altri intendono tenere nascosti. Sta nel lavoro quotidiano dei cronisti. Non in quello dei tribunali o delle authority anti questo o quello. Così potente quando fa il suo mestiere di fronte al potere da avere contribuito in maniera decisiva, penso ad esempio al 1992, a far cadere il sistema sulle proprie gambe d’argilla. Fatico a credere che, se qualcuno avesse ridicolizzato i giornali con post-verità su Craxi o De Lorenzo, avremmo gridato al fascismo. Nessuno se ne sarebbe accorto, perché l’odore del vero è più acre di qualsiasi profumo pre o post tu voglia dargli. Eppure proprio oggi scopriamo di non avere più anticorpi per reagire. Al punto di proporre, nello Stato abituato a mentire ufficialmente, di “vietare” questi bugiardelli dilettanti e i loro fake? Non è la strada: solo il giornalismo può vincere questa partita. Ma deve sconfiggere prima di tutto la post-bugia di Stato. Non sembrare mai megafono. Né parte del Palazzo. A quel punto la post-verità si frantuma sul pavimento marmoreo del conoscere. Senza divieti o censure. Ma facendo luce sui fatti. Il solo compito del giornalista.
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